La cittadinanza consapevole
Giuliana Bertacchi

Educare il cittadino, educare alla cittadinanza: quante volte abbiamo letto, sentito, ripetuto noi stessi queste parole, logorate dall’uso, ma che pure racchiudono un principio e un obiettivo fondamentale, irrinunciabile per la scuola e, ancora più largamente, per ogni attività formativa.

I problemi s’incontrano non nell’enunciazione, ma nel passaggio all’attuazione, al che fare e come fare, e sono problemi di tutto rispetto. Come sempre succede per i grandi principi, per gli obiettivi irrinunciabili, il rischio di limitarsi a coniugare l’enunciazione, di perdersi in pure variazioni linguistiche intorno alle parole chiave, è molto alto.

A dimostrarlo, la poco consolante e poco edificante vicenda dell’insegnamento dell’educazione civica nella scuola italiana, tardivamente introdotta alla fine degli anni Cinquanta, con un’ambiguità di fondo: da un lato la nuova materia costituiva una tentativo di rinnovamento, di riforma, di apertura della scuola ai problemi della società; dall’altro era un modo per eludere l’incontro con l’insegnamento della storia contemporanea, per non affrontare nella sede propria i nodi cruciali del fascismo, dell’antifascismo, della Resistenza, della nascita della democrazia, i versanti considerati pericolosi, troppo “politici”.

 Ma quale fu la risposta, in concreto, al tentativo di innovazione? Fino agli anni Settanta e anche oltre, in molte realtà scolastiche – tranne rare e illustri eccezioni, rappresentate da autori come Ada Gobetti, Alessandro Galante Garrone, Norberto Bobbio – i testi maggiormente in uso si fondavano su un idea dell’educazione civica non soltanto prescrittiva e predicatoria, ma assai lontana dallo spirito della Costituzione repubblicana che avrebbero dovuto insegnare, all’insegna della continuità con la tradizione della scuola prefascita e fascista piuttosto che della rottura resistenziale e democratica: “Il padre e l’insegnante rappresentano l’ordine, la disciplina, insomma la legge” scrive, emblematicamente, l’autore di uno di questi manuali (Renato Verdina, Civis, 1959).

E dopo? Che cosa è avvenuto negli anni successivi? Ancora molte, moltissime “prediche”, peggio che inutili, ma per fortuna si è accumulato anche un ricco patrimonio di innovazioni e sperimentazioni, aperte ai problemi della società attuale. Per educare alla convivenza democratica bisogna costruire un sistema di valori condiviso, per costruire un sistema di valori condiviso occorre impegnarsi in una serie di attività didattiche coinvolgenti, capaci di diventare esperienza dei ragazzi, di entrare dunque nella costruzione della loro memoria. Si parla molto di deficit della memoria storica nei giovani: non voglio e non posso entrare qui nel merito della questione, tuttavia permettetemi un accenno: non è affatto fatale che ci si debba arrendere alla destrutturazione temporale, connessa ai processi della condizione contemporanea. Si può – oso dire: si deve – costruire memoria proprio nei giovani, ma perché questo avvenga è necessario comunicare e suscitare esperienza.

Sul terreno dell’innovazione nel campo dell’educazione civica si sono impegnati gli Istituti della Resistenza, con una serie di attività e realizzazioni che non ho ora il tempo di richiamare (per uno sguardo d’insieme rimando a Fare storia: la risorsa del Novecento. Gli Istituti storici della Resistenza e l’insegnamento della storia contemporanea 1996-2000, edito a cura della Commissione didattica dell’Insmli, Modena, 2000), e che hanno intrecciato il tema dell’educazione alla cittadinanza con altri nuclei tematici ad alta densità formativa: educazione alla legalità, multiculturalismo e diritti di cittadinanza, Resistenza e Costituzione, i diritti delle donne e così via. Qui si possono rintracciare le nuove frontiere dell’educazione civica: l’apporto dell’Isuc in tal senso è stato molto significativo anche per il complesso della rete degli Istituti, oltre che del territorio in cui l’Isuc opera. Vorrei ricordare almeno un esempio: il contributo determinante offerto dall’Istituto dell’Umbria all’esperienza didattica Attenti all’uomo. Un percorso alla caccia dei valori dentro la Costituzione ( Perugia, 1998), che presenta un percorso di grande ricchezza e interesse, dalla visita alla Risiera di San Saba al tema delle leggi razziali e della Shoah per approdare ai principi della Costituzione

Nelle nuove frontiere dell’educazione civica si colloca appunto, e a pieno titolo, questo progetto Per la costruzione di un cittadino consapevole, di cui oggi ci occupiamo. 

Al centro del progetto troviamo la visita delle classi al Consiglio regionale, che diventa un momento importante per educare alla cittadinanza, importante in sé, per la sua preparazione e per i suoi sviluppi. Questo Laboratorio, accompagnato dal dossier di materiali e documenti, di cui sono autori Dino Renato Nardelli e Giovanni Codovini, dà agli insegnanti e quindi ai loro studenti la possibilità di visitare un luogo, in senso forte, un luogo strategico dell’esercizio della cittadinanza e dell’incontro con la politica: il Consiglio regionale.

Siamo agli antipodi dalla visita rituale da gita scolastica, tipo “mordi e fuggi”, purtroppo assai diffusa e destinata a non lasciare traccia, o meglio a funzionare soltanto negativamente nel processo educativo. Questa è una proposta per educare al luogo, alla percezione dei complessi significati, degli aspetti simbolici, degli spessori storici, attraverso la fisicità dell’incontro concreto e materiale, per cui il luogo riacquista la pienezza dei suoi significati appunto fisici e simbolici e diventa un luogo della memoria, per costruire la memoria dei giovani.

E’ questa la prima cosa positiva che mi ha colpito della realizzazione dell’Isuc, perché credo che educare ai luoghi, in questo senso, sia uno degli aspetti centrali della formazione storica del cittadino consapevole. E’ necessario, a mio avviso, che l’azione educativa ponga in atto delle strategie per contrastare la tendenza al dilagare dei non luoghi della condizione contemporanea. Marc Augé invita appunto a considerare il non luogo come contrario del luogo, come “spazio in cui chi lo attraversa non può leggere nulla della sua identità ( del suo rapporto con se stesso), né dei suoi rapporti con gli altri o, più in generale, dei rapporti tra gli uni e gli altri, né a fortiori della loro storia comune”. La riflessione dello studioso francese stabilisce quel legame tra luogo, relazioni e identità con cui siamo chiamati a misurarci.

Il Laboratorio di Nardelli e Codovini, immettendoci nel cantiere del “potere” regionale (Come lavorano il Consiglio e le Commissioni regionali), prospetta dunque l’incontro con un luogo strategico dell’esercizio della democrazia, dei suoi diritti e dei suoi doveri, attraverso esercizi di lettura, di interpretazione, di elaborazione dei linguaggi, delle regole, dei meccanismi, del funzionamento del Consiglio Regionale, dai più semplici ai più complessi. Nella seconda parte, Geopolitica del regionalismo umbro, apre squarci e aperture verso momenti e problemi di storia costituzionale e istituzionale, con i grandi temi del federalismo e dei suoi rapporti dell’autonomia, della storia dell’Umbria nel quadro del regionalismo italiano.

Oltre agli esercizi di laboratorio già organizzati, i materiali presentati aprono un ventaglio di possibilità e di vie da percorrere, suggeriscono alla creatività e all’iniziativa degli insegnanti una gamma di intrecci in varie direzioni. Ne indico alcuni:

-l’innesto con la storia delle origini della Repubblica, dalla Resistenza alla Costituzione- lo snodo centrale e cruciale della storia d’Italia del Novecento -, la considerazione del lento e tormentato cammino che ha accompagnato la difficile, imperfetta attuazione della nostra Carta costituzionale. Penso, ad esempio, al dibattito alla Costituente attorno alla tema delle Regioni e alla mancata attuazione per lunghi anni di questo istituto, che fa sì che le Regioni- come ha osservato Claudio Pavone – nascano “vecchie” nel 1970. Molti spunti da approfondire sono già presenti nel volume dei Documenti, a partire dall’attenzione critica che Raffaele Rossi dedica al pensiero federalista democratico e ai mutati rapporti tra centro e periferia o dalle osservazioni di Massimo Luciani sulla negazione fascista delle autonomie locali e sullo sforzo messo in atto dalla Costituente per giungere a una mediazione alta, intesa come ricerca del “comune”, non del “diverso”

-la contestualizzazione storica dell’istituzione delle Regioni nel 1970, verso la conclusione di alcuni dei processi fondamentali della “grande trasformazione” dell’Italia del dopoguerra. La documentazione relativa all’insediamento del Primo Consiglio regionale dell’Umbria facilita la focalizzazione di una serie di domande, che naturalmente si possono estendere ad altre realtà regionali: come si pongono le Regioni, quali le loro politiche nei confronti della “stagione dei movimenti”, delle profonde esigenze di rinnovamento, dei problemi e delle trasformazioni degli anni Settanta?

 -la questione delle identità e delle culture locali, anch’essa presa in considerazione nel lavoro di Nardelli e Codovini, che si pongono il problema – come è detto nella Premessa- dei rapporti tra cittadinanza “di terra” e cittadinanza di “sangue”. E’ un tema vastissimo e complicato, ma che bisogna affrontare con la consapevolezza dei meccanismi sociali di costruzione della memoria e di invenzione della tradizione (i caratteri attributi agli abitanti sono spesso frutto della costruzione di una memoria collettiva che idealizza il positivo, espunge e rimuove gli elementi negativi e conflittuali, spostandoli sull'estraneo, sul diverso );

 -i nuovi bisogni di cittadinanza, con i temi che legano immigrazione e cittadinanza; la cittadinanza europea; i diritti delle donne; 

-l’autonomia scolastica e la partecipazione consapevole di docenti e studenti, già direttamente affrontata nel Laboratorio come terreno concreto di pratica e di verifica, ma passibile di molti sviluppi. 

Questo Laboratorio non è facile, richiede preparazione, aggiornamento, determinazione da parte dei docenti, ma facilita un compito ambizioso e essenziale: dà significato ai “luoghi”, alle carte, alle parole della democrazia.

 La democrazia è un’arte difficile, faticosa, complicata e richiede la conoscenza del complesso funzionamento della “macchina” delle istituzioni democratiche. Il primo approccio è fondamentale, appunto per contrastare la sfiducia nelle istituzioni che sembra essere una pesante peculiarità della situazione italiana. Qui Nardelli e Codovini propongono una serie di esercizi per la restituzione della pienezza del significato alla carte e alla parole della vita politica e amministrativa quotidiana, capaci di far vivere ai ragazzi quello che sta dietro la convocazione, l’ordine del giorno, l’interrogazione,. e che il dilagante senso comune liquida sempre con fastidio, con disprezzo, come burocrazia.

Il fastidio verso le complicazioni della politica, verso gli inevitabili andirivieni dei confronti e delle mediazioni, del rapporto con gli altri – siano essi istituzioni o singoli soggetti - è entrato largamente nel senso comune ed è alimentato, vezzeggiato, incoraggiato dai “modelli” imposti dai mezzi di comunicazione di massa. Questo fastidio si traduce in fastidio verso la democrazia tout – court, diventa disimpegno e tendenza a delegare l’esercizio del potere politico e amministravo al tecnico, al “decisionista”.

 Proprio qui deve “mordere” l’educazione civica, a me pare, accettando una sfida molto ardua, ma altrettanto necessaria, se non si vuole rinunciare in partenza alla costruzione della cittadinanza consapevole.

C’è un grande spessore di riflessione su questi problemi, cruciali per la democrazia nei paesi ricchi e sviluppati. Vorrei richiamare soltanto una riflessione di Zygmunt Bauman: la libertà del cittadino nella nostra società opulenta è basata sull’assenza di limiti, sul disinteresse per il bene comune, sul conformismo, ma è una libertà illusoria per la sua sudditanza ai modelli e ai consumi imposti dal mercato e ha come conseguenza l’aumento dell’impotenza collettiva e la paralisi della politica (La solitudine del cittadino globale, Milano, 1999) Io mi permetto di aggiungere: la paralisi della politica vera, che è fondata sulla partecipazione critica e attiva.

A questo proposito mi piace soprattutto ricordare un ammonimento vecchio di decenni, ma attualissimo nella sostanza. Vorrei ricordare quello che scrive dal carcere Giacomo Ulivi, lo studente di 19 anni fucilato dai fascisti a Modena nel 1944, quando, rivolgendosi ai compagni, sostiene che nel pur legittimo desiderio di quiete, di una laboriosa vita dedicata al lavoro e alla famiglia, è il segno dell’errore “perché in questo bisogno di quiete è il tentativo di allontanarsi il più possibile da ogni manifestazione politica”. E’ il più terribile risultato di un ‘opera di educazione negativa,” che è riuscita a inchiodare in noi molti pregiudizi […]fondamentale quello della sporcizia della politica […].Tutti i giorni ci hanno detto che la politica è un lavoro di specialisti […]. Lasciate fare a chi può e deve; voi lavorate e credete, e quello che facevano lo vediamo ora che nella politica –se vita politica vuol dire soprattutto diretta partecipazione ai casi nostri – ci siamo scaraventati dagli eventi”.

Abbiamo bisogno di contributi come questo di Nardelli e Codovini, realizzato dall’Isuc, per non abbandonare i giovani alla diseducazione politica - per usare le parole di Giacomo Ulivi – che oggi è rappresentata, ad esempio, dagli spettacolini televisivi, dai molti e potenti messaggi che vanno appunto a costruire il distacco e il pregiudizio, per insegnare invece la diretta partecipazione, le sue difficoltà, le sue lentezze, ma il suo irrinunciabile contributo alla costruzione della cittadinanza consapevole.