La riformulazione del paradigma antifascista

G. De Luna e M. Revelli, in un saggio del 1995, hanno cercato di rielaborare i tratti fondamentali del paradigma antifascista. Se l’intento è comune ai due autori, le loro teorie non coincidono del tutto, per cui è opportuna una trattazione separata.

De Luna, tentando esplicitamente di andare oltre ai limiti dell’antifascismo ufficiale e celebrativo, ha coniato il concetto di antifascismo "esistenziale". Il riferimento all’esperienza esistenziale come fondamento dell’antifascismo caratterizza effettivamente l’intera prospettiva di De Luna: non a caso il sottotitolo del libro recita: "le idee, le identità". Questa teoria rappresenta un serio tentativo di ancorare l’antifascismo nell’ambito della cosiddetta "soggettività" individuale, in un territorio collocabile a metà strada tra l’antropologia e la psicologia.

De Luna, contro gli svariati tentativi, posti e riproposti nell'ambito del dibattito, di reperire un comune denominatore tra tutti gli italiani, osserva anzitutto che l’antifascismo non può essere un paradigma unitario per tutti. L’antifascismo è stato opera di una minoranza che si è in un certo senso autoinvestita del proprio ruolo (secondo uno schema tipicamente giacobino), una minoranza che si è costituita e ha operato nella contrapposizione a un avversario: in altri termini, afferma De Luna, si tratta di una identità "contro". Gli antifascisti vengono paragonati a dei "sacerdoti laici", ovvero una minoranza virtuosa che, in nome di un radicato modo di sentire, ha affermato il proprio punto di vista "contro" un altro. L’antifascismo sarebbe in sostanza costituito da una controcultura di parte, che ha radici comportamentali profonde, "esistenziali", una specie di fenomeno che ha radici "pre-politiche".

In termini di origini sociali si tratta di un fenomeno legato ad ambienti contadini, proletari o ad ambienti di intellettuali isolati (forse transfughi dalla propria classe, come voleva Marx). Questa identità "contro" secondo De Luna ha certamente offerto un contributo alla Costituzione (nella Costituzione sono recepiti vari contenuti...), ma non vi si è identificata completamente; essa è rimasta fondamentalmente fedele a sé stessa, non si è compromessa sul piano istituzionale; anzi ha accettato di rientrare puntualmente nell’ombra. Questa identità antifascista esistenziale non si organizza, anche se viene egemonizzata dall’antifascismo politico organizzato; dunque non ha nulla di permanente, riemerge di tanto in tanto nella storia d’Italia, quando la classe dirigente riprende i connotati fascisti (come ad esempio nel luglio del 1960, o nel Sessantotto).

È chiaro che, in tal modo, l’antifascismo esistenziale diventa un elemento caratteristico dell’ethos popolare, viene radicato profondamente a livello antropologico, sottraendolo ai mutamenti politici o al passare del tempo. Tuttavia, concependo la società come strutturalmente conflittuale e divisa in maniera irriducibile fino a livello antropologico, si finisce per perdere di vista qualunque possibilità di fondazione unitaria: l’antifascismo non può pretendere di rappresentare tutti (bisogna schierarsi), anche se è in grado di operare a vantaggio di tutti.

De Luna ritiene che l’antifascismo abbia dato (e sia tuttora in grado di dare) un contributo importante alla cultura nazionale, ma evidentemente riesce a farlo solo se rimane parte, se non rinnega sé stesso, se continua a mantenere la sua funzione di sentinella. È evidente che per De Luna l’identità di classe prevale sempre sulla più ampia e composita identità nazionale. Questa concezione pone un problema: una cultura che teorizza l’esistenza di una divisione costitutiva nel paese, può essere posta a fondamento di una identità collettiva? Evidentemente De Luna pensa che non possa esistere una identità collettiva a fondamento della nazione: avere una identità in termini di antifascismo esistenziale significa dividere sé dagli altri. De Luna tenta in altri termini di recuperare un antifascismo originario, allo stato puro; finisce effettivamente per trovarlo in un complesso di atteggiamenti esistenziali non generalizzati, radicatissimi, ma piuttosto evanescenti.

Da parte sua Revelli, nell'altro saggio contenuto nello stesso libro, conduce la sua analisi seguendo un’impostazione alquanto diversa affrontando, per quello che ci interessa in questa sede, due problemi: la questione della definizione dell’antifascismo e la questione del rapporto tra antifascismo e democrazia.

Per quanto concerne la prima questione, la definizione dell’antifascismo, Revelli mette in evidenza tre livelli diversi di "antifascismo". I primi due avrebbero ormai un interesse soltanto storico, solo il terzo avrebbe ancora oggi un significato di attualità.

Un primo livello è costituito dall’antifascismo di tipo militare: l’antifascismo così inteso consisterebbe cioè in uno schieramento di forze nella lotta armata contro il comune nemico: "Esso costituisce il fugace punto di incontro delle culture liberale, cattolica, socialista e comunista..." (G. De Luna, M. Revelli, 1995: 12). Aggiunge Revelli: "Così definito, in sostanza, l’antifascismo finirebbe per coincidere con il progetto di breve termine dei vincitori della seconda guerra mondiale; e per svanire con il raggiungimento dell’unico obiettivo che li teneva insieme - la sconfitta militare del fascismo..." (G. De Luna, M. Revelli, 1995: 13).

Un secondo livello è costituito dal "patto sui fondamenti", concretizzatosi nella Costituzione: quello antifascista sarebbe stato l’unico "paradigma della legittimazione" proponibile in Italia nel vuoto istituzionale seguito alla caduta congiunta del fascismo e della monarchia sabauda. L’esperienza della collaborazione resistenziale tra forze assai diverse tra loro avrebbe determinato un sostanziale accordo sulle procedure e il carattere parlamentare dell’assetto istituzionale. In base a questo patto sui fondamenti, questo tipo di antifascismo estenderebbe la sua influenza a tutti gli anni ’70 e avrebbe dato origine sostanzialmente a quello che è stato chiamato "arco costituzionale". Aggiunge Revelli: "Unico modello di legittimazione, questo, praticabile in un paese in cui nessuna delle forze politiche in campo (nella loro differenza e conflittualità) era in grado di farsi di per sé portatrice di valori esclusivi legittimanti, ed in cui, dunque, era inevitabile porre in essere meccanismi istituzionali che permettessero una legittimazione reciproca tra le principali forze politiche" (G. De Luna, M. Revelli, 1995).

Un terzo livello sarebbe costituito dal paradigma culturale antifascista, ovvero dall’antifascismo in quanto prospettiva culturale complessiva d’opposizione al fascismo. A questo proposito Revelli analizza il profilo ideologico del fascismo e identifica - rifacendosi a un noto lavoro di N. Bobbio - una serie di caratteristiche tipiche del fascismo (il fascismo sarebbe stato antirazionalistico, antiprogressivo, antimaterialistico, antiindividualistico ...). A partire dalle caratteristiche culturali di fondo del fascismo Revelli, rovesciando il discorso in positivo, ricava le caratteristiche della cultura antifascista. Poiché il fascismo è un insieme di tratti culturali che possono anche ripresentarsi, l’antifascismo, ovvero la negazione di quelle caratteristiche, sarebbe quanto mai attuale.

In altri termini, se abbiamo ben compreso, Revelli, preso atto del superamento dell’antifascismo come pratica contingente di alleanza politica legato all’arco costituzionale, tenta di definire un antifascismo in quanto positiva reazione culturale ai tratti barbarici e regressivi tipici della cultura fascista. Tuttavia Revelli sembra dimenticare che l'antifascismo non è stato semplicemente reattivo: ha sviluppato proposte sociali e culturali ben specifiche. Il problema è costituito proprio dalla obiettiva intrinseca differenza tra le culture che si sono opposte al fascismo: il paradigma liberale e quello marxista, ad esempio, paiono oggi avere sempre meno in comune. Si presenterebbe così il rischio, dopo aver definito un fronte culturale antifascista, di assistere immediatamente alla sua spaccatura.

Per quanto concerne la seconda questione, ovvero la questione del rapporto tra antifascismo e democrazia, Revelli a questo punto si domanda se antifascismo e democrazia non coincidano: cosa possiede di più, o di meno, l’antifascismo rispetto alla democrazia? Secondo Revelli, per il quale l’antifascismo è qualcosa di più della democrazia, l’antifascismo garantisce "quel radicato equilibrio di valori che altrimenti si troverebbero distribuiti lungo un arco eterogeneo, e per molti versi conflittuale, di forze e che invece qui si trovano organicamente sintetizzati in un’unica cultura politica..."; la conclusione è che "Il paradigma antifascista può essere considerato allora, da questo punto di vista, come una sorta di "paradigma democratico" potenziato, integrato dall’elaborazione che le diverse componenti della cultura democratica hanno compiuto circa la propria sconfitta e il proprio fallimento storico" (G. De Luna, M. Revelli, 1995: 31).

Revelli aggiunge due elementi secondo lui significativi, di tipo "esistenziale" che possono caratterizzare positivamente l’antifascismo rispetto alla democrazia:

  1. "una concezione attiva o attivistica della democrazia, intesa quest’ultima non solo come forma di governo, ma come modo di vivere la politica sulla base di un principio di responsabilità personale, di un "impegno" assorbente e totale" (G. De Luna, M. Revelli, 1995: 31).. e
  2. la cultura del conflitto. Osserva a questo proposito Revelli che "È naturale che l’antifascismo abbia risposto con una concezione ... "pacificata" sul piano della politica estera, e "conflittualista" su quello della politica interna. Facendo del contrasto, del dualismo delle posizioni e della libera competizione tra di esse un fattore di sviluppo della vita civile. Di più: una condizione di esistenza della democrazia, la quale vive di posizioni nette, di soggettività collettive liberamente organizzate e liberamente competitive." (G. De Luna, M. Revelli, 1995: 33). Assistiamo qui in altri termini a una sfumata riproposizione della concezione conflittuale della storia che diventa dialettica democratica.

A questi due elementi Revelli aggiunge ulteriormente una caratterizzazione in senso rivoluzionario e progressivo dell’antifascismo considerato nel suo complesso: "Resta il fatto che l’antifascismo, in tutte le sue componenti, si concepì e si visse come portatore di un modello di "rivoluzione democratica": quella che nel processo di formazione nazionale italiano era strutturalmente mancata, e dalla cui assenza erano derivate le debolezze storiche della nostra fragile liberaldemocrazia" (G. De Luna, M. Revelli, 1995: 34). In altri termini, l’antifascismo come completamento della rivoluzione democratica italiana (concezione non dissimile tuttavia dalle concezioni che avevano visto la Resistenza come completamento del Risorgimento nazionale). Secondo Revelli, in questo senso, "È possibile, dunque, identificare un paradigma unitario antifascista - un insieme di valori politici, cementati fra loro da un comune atteggiamento esistenziale -, profondamente radicato nella storia nazionale e capace di esercitarvi di per sé un’azione di lunga durata: di "organizzare" identità e pratiche politiche lungo un arco temporale che trascende ampiamente lo specifico contesto storico in cui esso si definì e si strutturò per contrapposizione; e insieme di offrire risposte via via "attuali" ai problemi radicali che la nostra fragile democrazia è venuta ponendo nel suo accidentato percorso" (G. De Luna, M. Revelli, 1995: 36).

Revelli fa seguire a queste considerazioni un'analisi delle diverse anime dell’antifascismo; secondo la sua interpretazione, tutta giocata sulla politica, l'antifascismo sarebbe costituito da varie componenti: a) una componente liberale (secondo la teoria della parentesi) cui corrisponde l’antifascismo intellettuale, b) una componente radicaldemocratica (secondo una teoria della rivelazione) cui corrisponderebbe un antifascismo etico (Gobetti) e c) una componente socialcomunista (secondo una teoria della reazione di classe) cui corrisponde un antifascismo sociale..

In altri termini Revelli ripropone una specie di paradigma antifascista che mostra uno stretto apparentamento alla tradizione democratico - giacobina rivoluzionaria. L’antifascismo come continua mobilitazione, come continua rivoluzione democratica. Un antifascismo quindi che dimentica la propria natura preponderantemente "contro" e che si decide a impegnarsi "per", anche se la realizzazione dell’obiettivo viene continuamente posticipata: in altri termini una specie di "rivoluzione permanente" nell’ambito della democrazia (questa è condizione necessaria per poter stabilire un terreno comune tra le varie interpretazioni della democrazia, quella liberaldemocratica e quella di tipo marxista).

Questa impostazione conduce tuttavia alla domanda: siamo oggi un paese dove è ancora necessaria una rivoluzione democratica? Chi sono oggi i nemici del popolo e della democrazia? Quando diventeremo un "paese normale"? Oppure si deve essere sempre in una simile condizione di mobilitazione contro il fascismo? È chiaro che una componente di mobilitazione permanente può prestarsi a compiti fondativi, anche se non spiega con chiarezza quale debba essere poi il rapporto tra il momento della mobilitazione e il momento istituzionale (questa concezione sembra anzi trascurare abbastanza la componente istituzionale). Che dire di quelle situazioni in cui una grande mobilitazione popolare realizza poi istituzioni disastrose? Pare che la mobilitazione cui pensa Revelli sia soprattutto una mobilitazione in difesa della democrazia, in situazioni eccezionali, non per rendere la democrazia più efficace sul piano istituzionale.

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