Renzo
De Felice, in un suo libretto - intervista intitolato Il Rosso e il Nero che ha
fatto molto discutere, ha riassunto le sue interpretazioni intorno al fascismo e
allantifascismo e alla questione - recentemente sollevata concernente la
perdita del senso di identità nazionale degli italiani. Le sue argomentazioni sono
piuttosto complesse e derivano dalla sua lunga attività storiografica intorno al
fascismo; le riassumeremo per punti, per quanto attiene al nostro discorso.
a) Secondo De Felice, con l8 settembre 1943 si
sarebbe consumata, nella coscienza popolare degli italiani, una catastrofe ideale, la
perdita dellidea di nazione che avrebbe "minato per sempre la memoria
collettiva nazionale" (R. De Felice, 1995: 33). De Felice non lo dice esplicitamente
nella sua intervista, ma il lettore finisce per intendere che, secondo lui, sotto il
fascismo, gli italiani avessero effettivamente maturato un qualche senso della nazione
(forse proprio per merito del fascismo?). Lo si inferisce da argomentazioni di questo
genere: "il sentimento comune degli italiani, alla fine degli anni Trenta, era di
totale fiducia per Mussolini; controllando bene le cifre, si scopre che la partecipazione
volontaria alla seconda guerra mondiale fu maggiore che nella Grande Guerra" (R. De
Felice, 1995: 35).
b) La Resistenza fu principalmente opera di una
minoranza (ed ebbe oltretutto scarso valore militare). De Felice a questo proposito entra
nel merito delle cifre: "...ho pensato di fare un conto, approssimativo ma
significativo, poter delimitare il numero degli individui coinvolti dalluna o
dallaltra parte: sono arrivato a 3 milioni e mezzo - 4 milioni, mettendo insieme
familiari stretti e parenti lontani, amici vicini. Pochi rispetto a quei 44 milioni di
persone che abitavano allora lItalia" (R. De Felice, 1995: 54). Questa
argomentazione viene usata per contestare il fatto che la Resistenza possa avere
compensato (o riscattato) la disfatta morale dell8 settembre e per sostenere
collateralmente che la retorica della Resistenza è stata creata dai partiti
"antifascisti" del dopoguerra.
c) Secondo De Felice lattendismo fu la
reazione più diffusa degli italiani nel periodo compreso tra l8 settembre e il 25
aprile, dando così luogo alla formazione di una ampia "zona grigia":
l'obiettivo prevalente di costoro era quello di salvare la pelle e aspettare la pace. De
Felice usa il termine "opportunità" invece di opportunismo (R. De Felice, 1995:
59). Scrive lo storico: "La gran massa degli italiani, sebbene pochi furono coloro
che riuscirono a non essere coinvolti, non solo evitò di prendere una chiara posizione
per la Resistenza, ma si guardò bene dallo schierarsi a favore della Rsi" (R. De
Felice, 1995: 59). Persa la fede nella patria, gli italiani sembrano ora, nella visione di
De Felice, una massa informe dalla corta prospettiva morale, pronti per essere
ulteriormente ingannati dai partiti antifascisti.
d) Lo scarso ruolo della Resistenza viene
ulteriormente qualificato e in base agli esiti successivi: "Dopo il 25 aprile, non fu
infatti la Resistenza ad andare al potere, bensì saranno "due partiti nuovi", a
conquistare il consenso delle masse. Dietro di loro due grandi potenze: la Russia di
Stalin e il Vaticano di Pio XII" (R. De Felice, 1995: 68). Indubbiamente De Felice
accusa gli storici dellantifascismo di avere creato di sana pianta il mito della
lotta di popolo.
e) Questo complesso di eventi avrebbe determinato la
mancanza di senso della nazione negli italiani di ieri e di oggi.
In un certo senso anche De Felice concorda con
linsufficienza della forma giuridica nel determinare la fondazione del nuovo patto;
afferma infatti "Il Patriottismo della nazione e il Patriottismo della Costituzione,
per me non sono in contraddizione. Solo che senza la Nazione non ci può essere
Costituzione, vale a dire i valori che danno corpo al Patriottismo della Costituzione sono
dei valori espressi dalla storia, dalla cultura, dalle vicende di un determinato paese non
da una astrazione giuridica" (R. De Felice, 1995: 104). De Felice in un certo senso
difende la Costituzione repubblicana: ciò che è venuto a mancare in Italia - per gli
eventi succintamente prima ricordati - è la nazione: "La Costituzione non ha infatti
in sé i germi di quella democrazia bloccata, con le sue pratiche lottizzatrici e
spartitorie, che ha ingessato la vita politica italiana degli ultimi cinquantanni.
Non sono daccordo con chi vuole individuare nella politica dei costituenti gli esiti
degenerati delletica politica della democrazia italiana di oggi, Non credo che
tangentopoli sia un sottoprodotto degradato del consociativismo delle origini. Se
cè colpa non è della Costituzione. È dello scarso patriottismo dei partiti
italiani, da allora a oggi" (R. De Felice, 1995: 108 - la sottolineatura è
nostra). In sostanza De Felice lamenta la mancanza di un tessuto politico e culturale
orientato alla nazione e imputa ciò, oltre che alla fatalità degli eventi storici, al
prepotere dei grandi partiti dalla Liberazione a oggi (non se la prende con le carenze o
lo scarso impegno degli intellettuali!).
Posizioni molto simili a quelle di De Felice sono
state espresse da Ernesto Galli della Loggia, nel suo libro "La morte della
patria". Con maggior consequenzialità, ma anche con maggiore veemenza polemica.
Galli Della Loggia, anche se i termini patria e nazione gli sembrano intercambiabili,
sostiene quanto segue: "Lespressione "morte della patria" mi sembra
la più adatta per definire la profondità, la ricchezza di implicazioni, in una parola la
qualità tutta particolare che ha avuto in Italia la crisi dellidea di nazione in
conseguenza della guerra mondiale" (Galli Della Loggia, 1996: 4). Si tratta dunque di
una radicalizzazione della visione di De Felice: la "morte della patria" è un
concetto appropriato "perché in essa molti italiani vedono e sentono coinvolto lo
stesso vincolo di appartenenza ad una medesima comunità nazionale, nonché il senso di
tale vincolo". Aggiunge lautore: "Il sentimento di una vera e propria
"morte della patria" fu, infatti ciò che soggettivamente provò, in quel
biennio terribile e immediatamente dopo, chiunque nel proprio mondo etico-politico, o solo
emotivo, custodisse - in una qualunque foggia - lidea di nazione, e dentro di sé
sentisse questa idea irrevocabilmente legata allidea, e allesistenza, di una
nazione italiana" (Galli Della Loggia, 1996: 3).
Quali furono le cause e la dinamica della cosiddetta
"morte della patria"? Galli della Loggia muove dalla premessa secondo cui, nella
storia dItalia, lidea di nazione non si è sviluppata spontaneamente, ma è
stata introdotta attraverso una sorta di nazionalizzazione delle masse prodotta dallo
Stato nazionale, per cui "il concetto e il sentimento di patria" per gli
italiani erano (e forse sono) sono ideologicamente strettamente intrecciati alla presenza
dello Stato.
Due fenomeni convergono dunque nell8
settembre:
a) la crisi e la scomparsa dello Stato (in
conseguenza delle modalità della sconfitta bellica);
b) "la sensazione diffusa in moltissimi
abitanti della penisola che la sconfitta, in realtà, è stata causa e insieme prodotto e
manifestazione, di qualcosa di molto grave e profondo: di una paurosa debolezza
etico-politica (...) degli italiani". In altri punti si parla di "intima
gracilità dellorganismo e della tempra nazionali" (Galli Della Loggia, 1996:
5-6).
Emerge dunque un "dato nella sua sostanza pre o
metapolitico, difficilmente collegabile in modo diretto e significativo al fascismo e ai
guasti della dittatura" (Galli Della Loggia, 1996: 7). La crisi politico militare, in
altri termini, non sarebbe del tutto spiegabile con le sole responsabilità del fascismo,
ma sarebbe spiegabile solo facendo riferimento a un difetto nazionale di origine:
"Qui la crisi politico - militare presenta un aspetto evidentissimo di crisi di
capacità e di efficienza degli apparati amministrativi e tecnici, la quale riflette a
propria volta un deficit di competenza unito a un vuoto spirituale, di carattere, che
trascendono il regime e mettono in gioco, immediatamente e direttamente, la credibilità
della sfera pubblico - statuale del paese..." (Galli Della Loggia, 1996: 7). Nel
precipitare degli eventi fu determinante il comportamento delle Forze armate, di branche
decisive dellamministrazione e dei gruppi dirigenti. Galli Della Loggia ribadisce -
andando contro tra laltro alle posizioni di N. Bobbio (1998) - che la sconfitta non
si spiega con la "guerra fascista": "... per lintera durata della
guerra il complesso dellorganismo militare italiano da un lato sembra incapace di
prestazioni minimamente adeguate, e dallaltro sembra percorso fin dallinizio
da un sentimento di fatalità della sconfitta, così forte da divenire una sorta di
profezia che si autoavvera e di fronte alla quale conviene rassegnarsi" " (Galli
Della Loggia, 1996: 9). Ma cè di più: " ..il nesso Stato - forza militare
affonda le proprie radici nelle culture umane e nelle psicologie collettive..."
(Galli Della Loggia, 1996: 15) "La virtù militare ha un posto di grande rilievo
nella costruzione di questo sentimento di autostima perché essa testimonia in modo
immediato di quelle qualità di carattere, legate al sentimento dellonore e della
libertà (intesa come il rifiuto di porsi volontariamente in balìa altrui), nonché
allobbligo di difendere luno e laltra, che da sempre sono state ritenute
proprie ed essenziali di una compagine politica, di un "popolo" politicamente
organizzato" " (Galli Della Loggia, 1996: 16). In altri termini qui sembra di
capire che anche lo stesso fascismo sia rimasto vittima della mancanza originaria di senso
della patria.
È interessante il fatto che anche Galli Della
Loggia tenta di radicare l'insufficienza identitaria italiana in una dimensione quasi
antropologica, una dimensione profonda, non facilmente aggirabile: "Ciò che viene in
primo piano (...) è un interrogativo radicale sullidentità; sulla propria
identità di individui, e poi di popolo, e infine di comunità nazional - statale. La
domanda evocata è in un certo senso al di qua della politica " (Galli Della Loggia,
1996: 17). La posizione di Galli Della Loggia potrebbe essere probabilmente così
sintetizzata: gli italiani, di fronte al dissolvimento dello Stato, hanno avuto una specie
di "rivelazione" (quante rivelazioni nella storia dItalia!): quello Stato
prima liberale e poi fascista in cui avevano posto per necessità storica tutta la loro
identità era in realtà un bluff (politico, amministrativo, militare, ecc...), per cui si
sono ritrovati orfani e soli ad organizzare la sopravvivenza.
E poi? Della Loggia sembra seguire uno schema simile
a quello di De Felice. Gli italiani traumatizzati dalla rivelazione della debolezza
costitutiva sarebbero caduti nelle mani della partitocrazia che avrebbe costruito la
retorica antifascista, ma non avrebbe posto rimedio alla debolezza.
Il libro di Galli Della Loggia, anche per la vis
polemica che lo pervade e per un certo disordine argomentativo, si presta numerose
osservazioni critiche. Non è del tutto chiaro se lAutore afferma che le esperienze
degli anni 43 - 45 (o forse il culminante 8 settembre) abbiano causato il
senso della "morte della patria" [poiché, se la patria "muore", deve
per lo meno essere dapprima viva]. Sembra che anche Galli Della Loggia pensi
allesigenza di una cultura comune che vitalizzi le istituzioni), anche se la sua
teoria sembra spesso colorirsi di una venatura psicologistica (solo così si spiega la
sottolineatura "traumatica" dellevento 8 settembre). Che dire di fraseggi
di questo genere: "...[la morte della patria] ... si sarebbe depositata tuttavia nel
fondo oscuro della memoria collettiva - dove è rimasta per decenni non rimossa e non
rimovibile..." (Galli Della Loggia, 1996: 8). È davvero difficile comprendere quale
sia lo statuto scientifico di una cosa come "il fondo oscuro della memoria
collettiva"; evidentemente talvolta le esigenze dellaudience prendono il
sopravvento su quelle del rigore concettuale!
Indubbiamente le teorie di De Felice e di Galli
Della Loggia hanno il pregio di individuare un ben preciso evento come spartiacque della
storia italiana e come causa della supposta successiva situazione di assenza del senso
della patria. Tuttavia la scelta dell8 settembre suscita non poche perplessità. Per
lo meno non è del tutto chiaro se gli autori intendano affermare che prima dell8
settembre gli italiani avessero il senso della patria; in tal caso non è chiaro se una
parte del merito della presenza del senso della patria debba o meno essere attribuita al
fascismo; oppure non è chiaro se l8 settembre abbia costituito la dura presa di
coscienza di qualcosa che si credeva di avere, ma che in effetti non cera (ma se il
senso della patria era solo una illusione, non si può certo poi criticare i partiti della
Repubblica per averlo spento!). La spiegazione più probabile è che Galli Della Loggia e
De Felice pensino a un senso della patria completamente slegato dallassetto
istituzionale (dittatoriale o repubblicano), un senso della patria che, in mancanza
dell8 settembre, avrebbe forse potuto essere traslato in maniera indolore dal
fascismo alla Repubblica.
La scelta stessa della data del "trauma"
è stata contestata. Ha affermato ad esempio Norberto Bobbio: "Quando mi è stato
chiesto quale delle due date della storia dItalia, il 10 giugno del 1940 e l8
settembre del 1943, fosse per me la data più tragica, io ho risposto: la data del 10
giugno. L 8 settembre non è altro che una conseguenza del 10 giugno. Ciò dipende
dal fatto che lItalia si è lasciata coinvolgere nella guerra nazista. [...] L
8 settembre è la conseguenza per aver partecipato a una guerra dannata, ad una guerra che
era destinata ad essere perduta."
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