La democrazia oltre l’antifascismo

Lo storico Pietro Scoppola è intervenuto nel dibattito con un libretto dedicato alla ricorrenza del 25 aprile, in cui ha affrontato vari problemi. Due ci interessano in modo particolare: la definizione dell’antifascismo e il problema della fondazione comune della Repubblica. Per quanto concerne il primo problema, Scoppola enuncia esplicitamente una tesi opposta a quella di De Luna e Revelli: sostiene cioè apertamente che non tutto l’antifascismo fosse democratico. L’antifascismo viene cioè inteso come l’alleanza storica tra forze democratiche e forze non democratiche (le forze comuniste) che in Europa ha permesso la sconfitta del fascismo. In questo senso, secondo Scoppola, l’antifascismo sarebbe qualcosa di meno della democrazia: un’alleanza transitoria, una concessione dovuta alle contingenze storiche.

Per quanto concerne il secondo problema, Scoppola ritiene che il 25 aprile possa essere considerato come la data simbolica del ricongiungimento tra nazione e democrazia. Il ricongiungimento avrebbe avuto, Secondo Scoppola, un fondamento nell’esperienza vissuta (anche in questo caso si sottolinea un elemento di tipo "esistenziale") dalla maggior parte degli italiani nel periodo compreso tra il 1943 e il 1945. L’esperienza cui fa riferimento Scoppola non è quella dell’antifascismo militante, bensì l’esperienza del vissuto personale della tragedia della guerra, la volontà di resistere e di sopravvivere. In altri termine il collante sarebbe stato costituito dal complesso delle sofferenze attraversate. Come si comprende, quello di Scoppola rappresenta forse il tentativo più generoso di rivalutare il cosiddetto "attendismo", di dargli una sorta di dignità morale, facendone una sorta di Resistenza non armata.

Scoppola ritiene inoltre che la prima rifondazione de facto della nazione, avvenuta il 25 aprile 1945 nei termini di fondazione morale, abbia trovato poi una piena realizzazione nella Costituzione repubblicana.

Scoppola tuttavia già nel 1991 aveva proposto una lettura complessiva della storia italiana che vale la pena di riprendere. Intanto Scoppola - a differenza di De felice e Della Loggia - ammette esplicitamente la pesante eredità del fascismo: ma questa consisterebbe non tanto nella "morte della patria" o in una caduta del senso della nazione, quanto in uno stravolgimento della cultura democratica. Il fascismo aveva realizzato in Italia una società di massa non democratica. Scoppola evidenzia il ruolo mediocre della classe dirigente e della borghesia italiana e ammette che negli anni del fascismo si sia verificato un consenso di massa. In altri termini, la giovane Italia repubblicana non poteva contare su una borghesia in quanto classe dirigente, non poteva contare su una diffusa capacità democratica.

Le uniche risorse disponibili erano costituite dalle culture sopravvissute al fascismo: una, la cultura liberaldemocratica, era di carattere elitario e non avrà seguito di rilievo; le altre due erano culture di massa ed avranno un rilievo importante nella storia della Repubblica: la cultura cattolica e la cultura social comunista. Purtroppo entrambe le culture dotate di una base di massa - osserva Scoppola - non avevano la democrazia al centro delle loro preoccupazioni politiche, o al centro delle loro elaborazioni teoriche. La cultura social comunista interpretava la democrazia come movimento legato alla rivoluzione e agli schieramenti internazionali: la cultura liberaldemocratica azionista era anch’essa attestata su una versione movimentista del liberalismo (la rivoluzione liberale). La cultura cattolica si preoccupava fondamentalmente di rendere compatibile l’adesione alla democrazia con la preservazione dei valori e della morale cattolica. Va osservato inoltre che i cattolici erano nuovi alla democrazia: la Chiesa, in nome di una visione organicistica della società, aveva sempre avversato i regimi liberali, aveva stipulato concordati con gli stati totalitari (e in Italia aveva finito per sconfessare le esperienze di impegno democratico dei cattolici come quella di Sturzo). La democrazia si apprestava ora a essere considerata non tanto come un valore quanto come uno strumento.

In altri termini nelle tre culture disponibili si mescolavano miti della rivoluzione, forti tensioni utopiche, concezioni organiche della società. Il tutto produceva una scarsa attenzione agli aspetti della tecnica democratica o ad una cultura democratica di per sé. L’esigenza che prevalse fu quella di una pacificazione o composizione tra le tre culture e questo avvenne attraverso la Costituzione della Repubblica. Essa infatti - come è stato più volte osservato - rappresenta più un compromesso tra le culture politiche che la costruzione di un apparato tecnico efficiente. In una situazione diversa, di maggiore omogeneità dal punto di vista della culture civiche e politiche, si sarebbe potuto insistere maggiormente sul lato tecnico del funzionamento costituzionale. È quanto si cerca di fare oggi, tramite il processo di revisione della seconda parte della Costituzione.

Tra il 1946 e il 1948 si ebbe, come è noto, la rottura tra i due partiti di massa elettoralmente sopravvissuti: ciò comportò una spaccatura verticale della società italiana nei due blocchi politico-ideologici. Si svilupparono le imponenti organizzazioni di massa socialcomuniste e cattoliche che tendevano a riprodurre in Italia lo scontro che avveniva a livello mondiale nell’ambito della Guerra fredda. In questa situazione si ebbe una ulteriore degenerazione della cultura democratica: l’appartenenza a uno dei due blocchi politico ideologici è sempre venuta prima della cittadinanza!

La spiegazione che Scoppola fornisce è piuttosto illuminante: il fascismo aveva insegnato agli italiani a partecipare alla politica attraverso il partito unico, un partito capace di organizzare tutti gli aspetti della vita individuale e della società civile; gli italiani stavano forse inconsciamente ripetendo lo stesso rituale (l’unico rituale di cui avevano una qualche conoscenza) in una situazione di pluripartitismo. Gli italiani dunque non vennero organizzati dentro alle istituzioni democratiche, ma vennero organizzati nei partiti, intesi come corpi organici di valori, di esperienze, di senso di appartenenza: solo tramite i partiti si perveniva allo Stato: in altri termini si era realizzata una Repubblica dei partiti.

La democrazia in Italia non nasce come patto tra i cittadini, bensì come patto tra i partiti; secondo questa interpretazione l’arco costituzionale sarebbe consistito essenzialmente di un arco dei partiti. La vita politica italiana è consistita allora di forti appartenenze partitiche e di mediazioni tra i partiti. Secondo Scoppola ciò si rivelò in un primo tempo come qualcosa di utile. Solo in un secondo tempo si ebbero le degenerazioni (clientelismo, separazione tra la base e il vertice, tangentopoli...). La situazione internazionale caratterizzata dai Blocchi determinò la fossilizzazione di questa fragile democrazia dei partiti; solo la sparizione dei Blocchi determinerà la crisi della Repubblica dei partiti.

È interessante il fatto che anche Scoppola in qualche modo faccia appello a una qualche entità più radicata e profonda rispetto alla pura formalità del patto: le culture politiche in fin dei conti rappresentano qualcosa di permanente, un retaggio che gli individui si ritrovano in un certo senso, più che scegliere deliberatamente e razionalmente.

Secondo la prospettiva di Scoppola, solo ora, con la crisi del sistema delle appartenenze organiche (e, quindi con la crisi delle due culture organiche, quella cattolica e quella comunista), diventa possibile riprendere in mano il problema della fondazione e ricostituire un nuovo patto (finalmente un patto stipulato direttamente tra i cittadini e non più tra i partiti mediatori).

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