Una nuova interpretazione della Rsi e dell’ultimo fascismo
di Luigi Ganapini, direttore ISMEC, Università di Bologna
(Schema di intervento al Convegno "I fondamenti dell'Italia repubblicana. Mezzo di secolo di dibattito sulla Resistenza", Vercelli 28-29 gennaio 2000)

Credo non si possa dubitare del fatto che le necessità di una rilettura critica del passato si impongono di regola in presenza di momenti di rottura e di cambiamento nella società e nella cultura di un paese. Questo non significa, spero che nessuno fraintenda, che gli studi di storia debbano piegarsi a ogni stormir di fronda partitico-parlamentare; è invece unanimemente riconosciuto che, nella congiuntura degli anni ’90, era necessaria una seria e rinnovata riflessione sulle correnti interpretazioni della storia dell’Italia nel secolo ventesimo e soprattutto sul tornante cruciale degli anni finali del secondo conflitto mondiale. A queste osservazioni di per sé banali vorrei aggiungere subito tuttavia che la storiografia promossa e coltivata dagli Istituti per la storia della Resistenza ha costituito spesso una felice eccezione: nel corso della mia ricerca sulla Rsi ho rinvenuto nelle ricerche, nei convegni, nelle pubblicazioni degli Istituti una forte tensione innovativa, anche se talora non pienamente esplicitata. Certamente il Saggio storico sulla moralità nella Resistenza di Claudio Pavone è stato lo stimolo determinante per un dibattito molto ampio e coinvolgente, che ha messo in discussione certezze e identità; ma - senza nulla togliere all’originalità del suo intervento, anzi aggiungendo merito a merito - bisogna ricordare che Pavone ha fatto circolare, con straordinaria generosità e coraggio, le sue proposte interpretative all’interno della rete degli Istituti a partire almeno dalla metà degli anni ‘80.

Il problema che restava da affrontare, per quanto riguarda l’ultimo fascismo e la Repubblica sociale italiana, può essere riassunto nell’interrogativo concernente l’identità centrale di questa formazione politico-statale, la cultura e l’ideologia dei suoi aderenti, gli obiettivi politici che essa si proponeva. Una ventata di pietà postuma ha peraltro complicato il problema: in interventi ben noti alcuni esponenti politici hanno auspicato una conciliazione nazionale in nome della "buona fede" di entrambe le parti in causa. Poiché non sono uno scienziato della morale, ma solo uno studioso di storia, credo che questo non riguardi il nostro modo di operare. La buona fede del soggetto che noi studiamo è il presupposto necessario per analizzare tanto i suoi atti quanto le sue dichiarazioni. Altra è la questione di valutare la coerenza e la rispondenza di un comportamento con la fede e le ideologie professate, la collocazione di una cultura rispetto a un contesto più generale.

Nella "memoria divisa" coltivata dagli italiani in merito alla Repubblica sociale si contrapponevano e si contrappongono, com’è ben noto, una visione demonizzante e una cantata epica e tragica. Nel corso del cinquantennio della Repubblica democratica questi referenti centrali hanno comunque conosciuto declinazioni varie, soprattutto sul versante del rapporto tra società politica fascista e società civile. Attraverso un lungo percorso di autogiustificazioni e di rimozioni è stato conseguito lo straordinario risultato di far apparire come centrale l’area di coloro che, alieni da ogni estremismo, avevano concesso al fascismo repubblicano il loro silenzioso appoggio in nome della salvezza della patria comune, a tutela di un patrimonio morale e materiale che l’occupazione tedesca minacciava di distruggere con la violenza del suo fanatismo.

Queste tesi coincidono, come ben sappiamo, con parte delle tesi sostenute dal Mussolini stesso e da numerosi suoi fedelissimi; ma il punto centrale non è questo. Alla sua origine questa tesi ha due motivazioni: da una parte l’autogiustificazione di tutti i gruppi sociali "collaborazionisti", che invocarono - contro gli intenti "persecutori" della rinascente democrazia - lo "stato di necessità" e che in un secondo tempo (non molto lontano dal primo) la eressero a motivo di merito, come una strategia perseguita con coraggio e sprezzo del pericolo ai fini della salvezza del patrimonio nazionale. A queste motivazioni (che in molti casi non mancano di un loro fondamento e di una loro dignità) se ne aggiunge un’altra, che viene proprio dalla parte che ci aspetteremmo più intransigente: gli antifascisti stessi furono costretti a dichiarare fin dagli inizi della guerra la presunta innocenza del popolo italiano rispetto al fascismo, così che chiunque non avesse vestito la camicia nera nel 1943-1945 venne automaticamente arruolato tra gli oppositori del regime. Per quanto questa convinzione abbia radici e caratteri diversi rispetto al patriottismo attribuito alle scelte dei fascisti repubblicani, finisce per convergere nella stessa direzione. In realtà questa era stata una scelta obbligata per l’antifascismo: quella di costruire un’immagine del popolo italiano trascinato al conflitto dalla dittatura, per nulla partecipe delle illusioni e della retorica imperiale, bellicista, antisemita. Ne il più giacobino dei partiti - quello d’azione - né una formazione bolscevica e leninista come il partito comunista avevano potuto far altro che introdurre deboli distinzioni. Nel momento della sconfitta e dell’occupazione tedesca nessuno avrebbe potuto alzare la voce a rimproverare agli italiani il loro passato, pena un rifiuto e un ripudio che sarebbero stati letali per le formazioni politiche dell’antifascismo, indubbiamente deboli e quasi sconosciute ai più in quella congiuntura; furono casomai i neofascisti a ricordare con amarezza i momenti del trionfo e della massima adesione al fascismo per rimproverare al popolo italiano la tepidezza della sua fede, il suo opportunismo e la sua vigliaccheria. Per gli antifascisti, viceversa, la presunzione d’innocenza fu la premessa per il riscatto nazionale.

Una nuova lettura dell’ultimo periodo della storia del fascismo in Italia non può prescindere da queste considerazioni. Per comprendere la portata della presenza della repubblica sociale nella storia italiana dobbiamo riconoscere l’ampiezza e, in un certo senso, anche la legittimità di scelte tra loro profondamente divaricate (neofascisti, antifascisti militanti, cittadini che rifiutano di scegliere per motivazioni che spaziano dalle più nobili alle meno dignitose e commendevoli); ma dobbiamo soprattutto tener presente che per quanti avevano operato una "scelta etica" (qualunque essa fosse) la decisione di impugnare le armi era una conseguenza sovradeterminata, dolorosa e tragica: perché senza quel conflitto l’Italia del dopoguerra non avrebbe avuto un destino scelto dai suoi cittadini, ma solo una forma politica calata dall’esterno. E in questa prospettiva il tema su cui la storiografia oggi è chiamata a pronunciarsi è costituito dal contenuto delle opposte scelte che nel conflitto civile si vengono delineando: tra lo stato neofascista repubblicano, mascherato sotto le insegne della "patria invasa" ma sempre più colorato di totalitarismo e segnato da una corposa componente razzista; e lo stato nuovo agli italiani prospettato pur in forme tra loro diverse dagli antifascisti.