Credo non si possa
dubitare del fatto che le necessità di una rilettura critica del passato si impongono di
regola in presenza di momenti di rottura e di cambiamento nella società e nella cultura
di un paese. Questo non significa, spero che nessuno fraintenda, che gli studi di storia
debbano piegarsi a ogni stormir di fronda partitico-parlamentare; è invece unanimemente
riconosciuto che, nella congiuntura degli anni 90, era necessaria una seria e
rinnovata riflessione sulle correnti interpretazioni della storia dellItalia nel
secolo ventesimo e soprattutto sul tornante cruciale degli anni finali del secondo
conflitto mondiale. A queste osservazioni di per sé banali vorrei aggiungere subito
tuttavia che la storiografia promossa e coltivata dagli Istituti per la storia della
Resistenza ha costituito spesso una felice eccezione: nel corso della mia ricerca sulla
Rsi ho rinvenuto nelle ricerche, nei convegni, nelle pubblicazioni degli Istituti una
forte tensione innovativa, anche se talora non pienamente esplicitata. Certamente il Saggio
storico sulla moralità nella Resistenza di Claudio Pavone è stato lo stimolo
determinante per un dibattito molto ampio e coinvolgente, che ha messo in discussione
certezze e identità; ma - senza nulla togliere alloriginalità del suo intervento,
anzi aggiungendo merito a merito - bisogna ricordare che Pavone ha fatto circolare, con
straordinaria generosità e coraggio, le sue proposte interpretative allinterno
della rete degli Istituti a partire almeno dalla metà degli anni 80.
Il problema che restava da affrontare, per quanto riguarda
lultimo fascismo e la Repubblica sociale italiana, può essere riassunto nellinterrogativo
concernente lidentità centrale di questa formazione politico-statale, la cultura e
lideologia dei suoi aderenti, gli obiettivi politici che essa si proponeva.
Una ventata di pietà postuma ha peraltro complicato il problema: in interventi ben noti
alcuni esponenti politici hanno auspicato una conciliazione nazionale in nome della
"buona fede" di entrambe le parti in causa. Poiché non sono uno scienziato
della morale, ma solo uno studioso di storia, credo che questo non riguardi il nostro modo
di operare. La buona fede del soggetto che noi studiamo è il presupposto necessario per
analizzare tanto i suoi atti quanto le sue dichiarazioni. Altra è la questione di
valutare la coerenza e la rispondenza di un comportamento con la fede e le ideologie
professate, la collocazione di una cultura rispetto a un contesto più generale.
Nella "memoria divisa" coltivata dagli italiani in
merito alla Repubblica sociale si contrapponevano e si contrappongono,
comè ben noto, una visione demonizzante e una cantata epica e tragica. Nel corso
del cinquantennio della Repubblica democratica questi referenti centrali hanno comunque
conosciuto declinazioni varie, soprattutto sul versante del rapporto tra società politica
fascista e società civile. Attraverso un lungo percorso di autogiustificazioni e di
rimozioni è stato conseguito lo straordinario risultato di far apparire come centrale
larea di coloro che, alieni da ogni estremismo, avevano concesso al fascismo
repubblicano il loro silenzioso appoggio in nome della salvezza della patria comune, a
tutela di un patrimonio morale e materiale che loccupazione tedesca minacciava di
distruggere con la violenza del suo fanatismo.
Queste tesi coincidono, come ben sappiamo, con parte delle tesi
sostenute dal Mussolini stesso e da numerosi suoi fedelissimi; ma il punto centrale non è
questo. Alla sua origine questa tesi ha due motivazioni: da una parte
lautogiustificazione di tutti i gruppi sociali "collaborazionisti", che
invocarono - contro gli intenti "persecutori" della rinascente democrazia - lo
"stato di necessità" e che in un secondo tempo (non molto lontano dal primo) la
eressero a motivo di merito, come una strategia perseguita con coraggio e sprezzo del
pericolo ai fini della salvezza del patrimonio nazionale. A queste motivazioni (che in
molti casi non mancano di un loro fondamento e di una loro dignità) se ne aggiunge
unaltra, che viene proprio dalla parte che ci aspetteremmo più intransigente: gli
antifascisti stessi furono costretti a dichiarare fin dagli inizi della guerra la presunta
innocenza del popolo italiano rispetto al fascismo, così che chiunque non avesse vestito
la camicia nera nel 1943-1945 venne automaticamente arruolato tra gli oppositori del
regime. Per quanto questa convinzione abbia radici e caratteri diversi rispetto al
patriottismo attribuito alle scelte dei fascisti repubblicani, finisce per convergere
nella stessa direzione. In realtà questa era stata una scelta obbligata per
lantifascismo: quella di costruire unimmagine del popolo italiano trascinato
al conflitto dalla dittatura, per nulla partecipe delle illusioni e della retorica
imperiale, bellicista, antisemita. Ne il più giacobino dei partiti - quello dazione
- né una formazione bolscevica e leninista come il partito comunista avevano potuto far
altro che introdurre deboli distinzioni. Nel momento della sconfitta e
delloccupazione tedesca nessuno avrebbe potuto alzare la voce a rimproverare agli
italiani il loro passato, pena un rifiuto e un ripudio che sarebbero stati letali per le
formazioni politiche dellantifascismo, indubbiamente deboli e quasi sconosciute ai
più in quella congiuntura; furono casomai i neofascisti a ricordare con amarezza i
momenti del trionfo e della massima adesione al fascismo per rimproverare al popolo
italiano la tepidezza della sua fede, il suo opportunismo e la sua vigliaccheria. Per gli
antifascisti, viceversa, la presunzione dinnocenza fu la premessa per il riscatto
nazionale.