Toynbee e la storia delle donne

Roberta Fossati

 
Io ringrazio Anna Beltrametti e vorrei proseguire aggiungendo qualcosa a quello che ha detto, che condivido in gran parte. Seguivo molto volentieri il suo flusso di pensiero, la sua esposizione, perché mi ritrovavo in parecchi punti della sua riflessione. Mi ricollego proprio a una sua affermazione, a proposito di Toynbee come del protagonista di una storiografia capace di presagire in qualche modo quella che noi definiamo storia delle donne. Mi limiterei alla storia delle donne, e non alla storia di genere, perché quest’ultima ci conduce un passo ancora più in là. "Storia delle donne" mi pare un concetto più semplice, più chiaro, più accogliente in qualche modo. Con la o le "storie di genere" entriamo in un campo che ci porta dentro e fuori la storia, che ci porta al confine e oltre il confine con altre discipline, soprattutto forse con la filosofia, con cui nascono poi rapporti complessi.

La domanda che Toynbee si pone è dunque quale sia stata per le donne la migliore epoca della storia. Mi chiedo se negli ultimi trent’anni — anni settanta, anni ottanta, anni novanta del Novecento, in cui si è affermata la storia delle donne — le storiche si siano poste questa domanda. Direi di sì, ma non come interrogativo centrale. Mi pare che si tratti di un interrogativo che ha percorso la storia delle donne e la riflessione della cultura femminista per vie trasversali, emergendo di tanto in tanto per poi essere di nuovo sommerso. Faccio un esempio: in Italia non c’è stata una grande riflessione su un’età dell’oro matriarcale, sull’esistenza, vera o presunta, di un matriarcato primitivo. Ci sono state negli anni settanta e ottanta singole riflessioni, per esempio quelle di un’antropologa come Ida Magli, orientate a confutare la tesi del matriarcato primitivo. Forse più nell’ultimo decennio si è fatta strada invece una decisa rivalutazione di questo concetto non tanto da parte delle storiche, quanto piuttosto da quei filoni della cultura femminile/femminista del nostro paese che provavano grande interesse per la psicanalisi soprattutto junghiana; era molto apprezzata, per esempio, Esther Harding, che mi pare sia stata una delle più creative allieve di Jung, e dalla quale molte donne hanno ricavato in parte questa idea di una ipostatizzazione del "femminile"1.

Si trattava comunque di una riflessione nata un po’ al di fuori di quello che è l’ambito storico in senso stretto, dentro un filone di psicoanalisi che, almeno per un po’ di anni, fra l’altro, anche nel nostro paese, è stato considerato eretico rispetto al più classico filone freudiano. Ne sono risultate così trasposizioni spesso troppo semplicistiche dalla psicanalisi alla storia. Si sono affermate, in altre parole, quelle ipotesi femministe "essenzialiste" che ci costringono, diciamo, a una serie di precisazioni, di ricerca di cautele, nel parlare del passato remoto delle donne, a cui Anna Beltrametti si richiamava quando denunciava alcuni pericoli di questa impostazione.

Si è già ricordato che l’anno di stesura del testo di Toynbee è il 1969 e potremmo interrogarci anche su questa data: è scritto a ridosso di un fenomeno europeo e "mondiale", almeno per quanto riguarda i paesi occidentali, che è il Sessantotto, e con alle spalle la presenza sul mercato culturale di alcuni libri dirompenti sulla condizione femminile che non vengono citati dallo storico inglese (per esempio quello di Betty Friedan, The Feminine Mystique, che esce nel 1963 ed è quasi immediatamente tradotto in italiano2). Nell’atmosfera postsessantottesca, dunque, si comincia a parlare in termini non solo di condizione della donna, ma nasce una nuova ondata di vero femminismo come fenomeno anche politico, che allarga il discorso a una possibile "liberazione" delle donne.

L’altro punto che anche a me aveva estremamente colpito all’interno del testo è questo senso di praticità, questo senso di concretezza che lo storico manifesta quando costruisce il suo discorso sul contrasto tra quelli che sono i diritti legali e quello che è il piano della reale capacità di esercitare un potere. E mi sembra questo un discorso estremamente moderno, attuale, pieno di interesse per noi, nel senso che sa parlare a una contemporaneità come la nostra. Toynbee insiste su questa situazione in cui, perlomeno a livello formale, si cominciano a enunciare e riconoscere come universalmente validi alcuni principi, soprattutto sul terreno dei diritti e dell’eguaglianza, ma poi la realtà dei giochi di potere si rivela estremamente più complessa e non sempre a sfavore delle donne, tra l’altro. Perché il discorso sul potere, come sappiamo, è un discorso delicatissimo, che tocca non soltanto il livello politico, ma anche quello che è il livello dei rapporti interpersonali nel micro e nel macro.

Ho accennato dunque a questi punti del testo di Toynbee che mi hanno colpito. Vorrei proporre ancora però tre elementi del suo discorso che vedo al centro di questa sua "lezione" e che mi sembra rappresentino anche il punto di convergenza con alcune istanze espresse dalla storia delle donne in questi anni.

Prima di tutto, la sua capacità di coniugare una grande visione complessiva con il piano dell’esperienza personale mi sembra una lezione valida, che può "funzionare", anche se nella disciplina storica appare difficile da realizzare; molti tentativi di questi ibridismi, lo sappiamo, sono destinati a produrre ambiguità, confusione, insuccessi. In questi tentativi forse si gioca la capacità di ricerca degli storici di oggi e soprattutto delle donne storiche, le quali vanno in questa direzione in un certo senso costrette dai postulati stessi della storia delle donne.

Riguardo a Toynbee, osare una scrittura fluida, una scrittura capace di essere confidenziale mantenendo però un livello alto della ricerca, mi sembra oltretutto uno dei grandi meriti della storiografia anglosassone. Una scrittura fluida di questo genere rivela un tratto in comune con la storia delle donne: vuol dire spesso aver adottato una metodologia fluida, una metodologia di confine, utilizzando magari anche incroci complessi tra le fonti, che osano lavorare, quando appare necessario, sulla lunga e sulla lunghissima durata.

Sto pensando, per esempio, al richiamo a un testo di Eric A. Havelock, La musa impara a scrivere3, che Luisa Passerini fa in un suo libro metodologico, Storia e soggettività4, quando parla della sua "acuta percezione del rapporto tra vicende autobiografiche e scoperte scientifiche". Questa capacità di tenere assieme molte discipline però lavorando con la strumentazione della disciplina storica, questo far ricorso a un incrocio tra tecniche qualitative e quantitative così da creare ricerche "contestuali, coinvolte, socialmente rilevanti, ricerche inclusive di emozioni e di eventi sperimentati"5, mi pare che sia abbastanza confortante per noi, quasi legittimante, ritrovarla anche in uno storico della portata di Toynbee, uomo e appartenente a generazioni precedenti la nostra.

Sono andata a rivedere alcuni suoi testi, in cui parla della sua visione della storia; qui le donne non c’entrano, ma ho ammirato la sua capacità di lavorare tenendo presente il suo sguardo di ricercatore e la sua vicenda umana personale. In un suo libro, in particolare, ci racconta di quando, ragazzino, aveva assistito a una manifestazione celebrativa della cultura vittoriana al suo apice; davanti ai suoi occhi scorreva un mondo che poi era destinato a mutare profondamente e a entrare in crisi, ma che, in quel momento, esprimeva delle certezze oggettive e soggettive per ogni cittadino britannico, che nessuno sembrava mettere in dubbio. Mi piace molto pensare a questo storico ormai maturo, che va indietro nel tempo e rivede il suo sguardo di bambino, con la consapevolezza di aver saputo mantenere dentro di sé per anni quel ricordo e soprattutto di aver trovato il modo di interrogarlo.

In altre parole, il suo ricordo conservato nel tempo diventa capace di produrre ricerca, questo mi sembra il punto davvero intrigante della faccenda. E, in fondo, anche una delle lezioni significative della storia delle donne più recente forse non è stata soltanto quella di uscire dal vittimismo e trovare strategie e forme di protagonismo femminile nel passato, quanto quella di far riaffiorare voci femminili considerate ormai perse, dando ascolto a un "partire da sé", a dialoghi autocoscienziali, ad andirivieni fra esperienze di oggi e interrogativi rivolti al passato: utilizzare, come si va dicendo in questi anni, "sguardi diversi" per fare dei passi avanti, per creare dei movimenti di ricerca non banali.

Un altro punto riguarda l’utilizzo dello studio comparato delle civiltà, per cui Toynbee venne in qualche modo considerato uno storico "eretico" e fu da più parti accusato di operare generalizzazioni eccessivamente vaste e imprecise. Questa esigenza può essere oggi riscoperta e rivalutata, almeno come esigenza? Vorrei ricollegare anche questa domanda ad alcune considerazioni relative alla storia delle donne. Alcuni anni fa Gianna Pomata, studiosa di storia moderna, ha formulato l’ipotesi che l’allontanamento delle donne dalla ricerca storica si sia consumato nel momento in cui la storia, verso la metà dell’Ottocento, ha man mano definito il suo statuto disciplinare staccandosi definitivamente dalla letteratura e, in particolare, dal romanzo, adottando canoni rigidi6. Dove sono rimaste allora le donne intellettuali? Sembra in altri campi di ricerca, come il folklore, o l’etnologia.

Faccio un esempio italiano, che ho incontrato nel mio lavoro, citando il professor Angelo De Gubernatis, studioso delle teorie comparativiste, infaticabile viaggiatore, che si recò in India più volte, seguace delle teorie di Muller. Molte emancipazioniste italiane e straniere attive tra la fine dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento collaborarono con questo personaggio simpatico, e considerato anche un po’ bizzarro; alcune scrissero di folklore, tradizioni popolari, miti e leggende, nella "Revue Internationale" da lui fondata. In effetti si ritrovano negli ultimi due secoli diverse esperienze culturali che si collocano a cavallo tra la storia e l’antropologia. In queste ricerche che adottano metodologie fluide, comparative, ardite nel muoversi sulla lunga se non sulla "lunghissima durata", molta cultura femminile ha trovato un suo spazio di indagine, di espressione, ieri come oggi. Bisognerebbe capire le ragioni per cui anche la cultura femminista del secondo Novecento si è in parte riconosciuta, quasi aggrappata, a questi filoni, spremendo il pensiero e le ipotesi di autori e autrici non sempre pienamente "ortodossi", il cui pensiero spesso eclettico, sincretistico, può, fra l’altro, portare in più direzioni.

Un terzo punto riguarda pericoli e legittimità nella creazione di una filosofia della storia, con tutte le generalizzazioni, le "congetture" che essa comporta. Ci si chiede oggi, per esempio, quanto attraverso l’affermarsi della "storia di genere" non si stia scivolando verso la creazione di una o di tante filosofie della storia. Tuttavia, fermi restando i gravi rischi in cui si incorre nel cercare un assoluto cui ancorare la storia, resta legittima l’esigenza di fare una storia non sganciata da interrogativi di largo respiro.

Guardando al dibattito attuale nella cultura femminista sul rapporto tra la storia delle donne e la storia di genere, si può dire che il rischio, non tanto della prima quanto, sembra, della seconda, è forse quello di arrivare a una destoricizzazione tale della "storia" tradizionalmente intesa che la vediamo sfumare man mano in altre discipline, così che alla fine quasi non sappiamo più quali siano gli oggetti e i soggetti della nostra ricerca. Ciò avviene, e questo è curioso, mentre assistiamo, come a un processo tipico della nostra epoca, a una storicizzazione progressiva di altre discipline. Oggi tutti, a livello giornalistico come a livello scientifico, mettono a fuoco, proprio nel senso cronologico, la storia dei viaggi spaziali, come la storia degli elettrodomestici o la storia degli occhiali, e via dicendo.

Infine Toynbee nel suo scritto fa anche cenno a un’esperienza personale familiare che riguarda una donna, sua nuora, madre di sei bambine, e che, pur non avendo un aiuto domestico, continua a esercitare, seppur a tempo parziale, la sua professione di medico. L’autore intende richiamarci al limite del moderno, al limite dell’emancipazione, e questo è molto interessante. C’è questa ricerca del senso delle cose, e del benessere reale nel vivere, che neanche il moderno con la sua idea di "progresso" sembra in realtà soddisfare e garantire. Nello scritto aleggia un tono rousseauiano, quando l’autore dice che "fu un giorno nero per la donna quando l’uomo inaugurò la seconda fase dello sviluppo dell’agricoltura, strappando la zappa dalle sue mani e trasformandola in un aratro"7. Mettere assieme la nuora e la preistoria rivela un modo di procedere che non mi sembra lontano dai nostri interrogativi di oggi e che rappresenta una scommessa non facile. Noi siamo in effetti in un momento in cui la ricerca sulle donne oscilla tra un empirismo crescente, che produce ricerche specifiche, spesso approfondite, ma anche troppo analitiche e "ristrette", come le numerose tesi di laurea che le studentesse richiedono ai docenti nelle università, anche in quelle non particolarmente aperte alla questione femminile, e le grandi visioni teoriche, come si diceva, che ripropongono l’esaltazione di un mito del "Femminile" con la effe maiuscola.

Infine, come storica che si occupa del rapporto tra donna e Cristianesimo, sono molto interessata al Toynbee cattolico medievalista, per stare alla definizione che di lui diede Delio Cantimori, che analizza la figura del sacerdote come baluardo simbolico della Chiesa, la quale tiene ben distinte e non interscambiabili le immagini del maschile e del femminile. "Quest’ultimo caposaldo maschile è, inoltre, chiaramente condannato. Alcune intrepide donne hanno già scalato i suoi muri divisori e si sono installate in maniera definitiva su una torre o due, qua e là", afferma verso la fine del suo scritto8. Su questo tema bisognerebbe trovare un altro suo inedito...

NOTE
1
Ida Magli, La donna un problema aperto, Firenze, Vallecchi, 1974; Id. (a cura di), Matriarcato e potere delle donne, Milano, Feltrinelli, 1978; M. Esther Harding, I misteri della donna. Un’interpretazione psicologica del principio femminile come è raffigurato nel mito, nella storia e nei sogni, Roma, Astrolabio-Ubaldini, 1973. Un commento al formarsi di queste diverse tendenze nella cultura femminista in R. Fossati, La dea ebraica, "Ricerche bibliche e religiose", 1980, n. 4. torna su

2 Betty Friedan, La mistica della femminilità, Milano, Edizioni di Comunità, 1964. torna su

3 Eric A. Havelock, La musa impara a scrivere, Roma-Bari, Laterza, 1986. torna su

4 Luisa Passerini, Storia e soggettività. Le fonti orali, la memoria, Firenze, La Nuova Italia, 1988. torna su

5 L. Passerini, Storie di donne e femministe, Torino, Rosenberg & Sellier, 1991. torna su

6 Gianna Pomata, Commento alla relazione di P. Di Cori, in Maria Cristina Marcuzzo e Anna Rossi-Doria (a cura di), La ricerca delle donne. Studi femministi in Italia, Torino, Rosenberg & Sellier, 1987, pp. 112-122. torna su

7 A.J. Toynbee, La vita della donna in altre epoche, cit., p. 422. torna su

8 A.J. Toynbee, La vita della donna in altre epoche, cit., p. 427. torna su