Il passato come posta in gioco

 

Nella prima parte della scheda sono state sintetizzate molte, forse troppe, questioni. Non è possibile affrontarle tutte adeguatamente in questa sede; mi limito perciò a qualche sottolineatura e precisazione.

Se consultiamo un dizionario, troviamo che il termine "storia" viene definito in almeno tre modi diversi:

  • il passato, gli eventi storici;
  • i discorsi sul passato: la ricostruzione, l’interpretazione, la narrazione del passato;
  • la materia scolastica.

Soffermandoci sulle prime due accezioni, rileviamo che, con il termine storia, si può fare riferimento sia al passato sia ai "discorsi sul passato". Ma "discorso sul passato" è anche la definizione corrente del termine storiografia. Nella lingua italiana dunque, "storia" e "storiografia" sono spesso usati con significati del tutto simili, quasi fossero sinonimi.

Il linguaggio è una spia degli atteggiamenti mentali: da un lato li esprime e dall’altro contribuisce a condizionarli e a plasmarli.

L’assenza di una rigida distinzione sul piano linguistico tra "storia" e "storiografia" induce a immaginare la storiografia come qualcosa che coincide con la storia; buona storiografia sarebbe dunque quella che riporta alla luce il passato oggettivamente inteso.

Sul piano scolastico, questa convinzione si traduce nell’idea che buon insegnante di storia sia quello che padroneggia la storiografia ed è in grado di tradurla in termini accessibili per gli allievi; la qual cosa, nel quadro educativo suggerito dalla seconda parte della scheda, costituisce invece solo una condizione indispensabile ma non sufficiente per un buon insegnamento.

Le proposte di definizione qui suggerite portano invece a distinguere nettamente tra storia e storiografia: "storia" è il passato; "storiografia" è rappresentazione del passato. In quest’ottica, il risultato del lavoro degli storici andrebbe dunque posto nel campo delle "memorie": una collocazione raramente teorizzata in modo esplicito, difficile da accettare specie se percepita come una ridefinizione in termini riduttivi – ma vedremo che così non è - del ruolo degli storici.

In ogni caso, mi preme sottolineare un aspetto accennato nella scheda: il passato oggettivamente inteso (la storia) è morto e non è conoscibile nella sua multiforme complessità, mentre la memoria è invece viva e in continua rielaborazione.

Con questo, intendo anche prendere le distanze dal significato spesso attribuito al binomio "storia e memoria" – dove storia sta presumibilmente per storiografia e memoria sta per ricordi personali - quando viene usato per alludere al complesso rapporto che si instaura tra storici e testimoni; un uso che mi sembra sostanzialmente "conservatore" per quanto riguarda sia il mestiere di storico che quello di insegnante.

E passiamo ad un altro aspetto evidenziato nella prima parte della scheda.

Parafrasando Maurice Halbwacs, ho ricordato che il passato è una posta in gioco contesa da giocatori che perseguono in realtà l’obiettivo finale di condizionare i comportamenti sociali nel presente. Tra i "giocatori", ho elencato una serie di soggetti, molti dei quali non avrebbero certo difficoltà a riconoscersi nel ruolo loro attribuito. I più restii sarebbero forse gli storici. O meglio: la maggior parte degli storici riconoscerebbero tranquillamente il ruolo politico-ideologico svolto dai loro colleghi predecessori, ma tenderebbero a escludere la cosa per se stessi.

Difficile, ad esempio, negare che la storiografia fascista abbia inteso rileggere il passato – quello recente della Vittoria mutilata o quello antico della Roma dei Cesari - al fine di radicare una memoria collettiva adatta a recepire e ad alimentare le aspirazioni espansionistiche ed imperiali di Mussolini.

E non è solo un problema di regimi totalitari. Nel secondo dopoguerra, nel Veneto ad esempio, hanno attivamente operato per decenni due scuole storiografiche contrapposte – quella moderata cattolica e quella laica di sinistra – che producevano interpretazioni del passato regionale spesso molto diverse tra loro, pur nel rigoroso rispetto del metodo scientifico della ricerca.

Parallelamente, tra gli insegnanti di storia, si discuteva accanitamente, appena 15-20 anni fa, se adottare un libro di testo di un certo colore anziché di un altro, che so… un "Camera Fabietti" invece che un "De Rosa"; e c’erano anche quelli che proponevano un manuale "neutro".

Insomma, non c’è dubbio che molti ottimi storici e insegnanti di storia hanno assolto, più o meno consapevolmente, anche a compiti di natura politico-ideologica. Sono cioè scesi in campo come giocatori, usando l’ "oggettività scientifica" come strumento per imporsi sugli avversari, in un torneo avente come posta in palio la conquista della memoria del passato.

Nel contesto attuale, tutto questo mi sembra perlomeno anacronistico; e in ogni caso la costruzione della memoria è un processo troppo delicato e importante perché ci si possa permettere, in una società democratica, di sottrarlo al controllo collettivo, affidandolo all’abilità, alle astuzie o alle lotte di potere di pochi specialisti.

E’ necessario invece arrivare a riconoscere, con uno sforzo di superamento dell’intolleranza storiografica per le "storie" altrui, la pluralità delle rappresentazioni del passato e il diritto di ciascuno di partire dalla propria storia.

A tal fine, auspico che gli storici assumano, accanto allo loro funzione specifica di ricercatori, un ruolo da "garanti della memoria", una specie di authority delle rappresentazioni del passato: non più dunque, come nelle antiche società autoritarie, incontrollabili e misterici "sacerdoti della memoria", ma intellettuali esperti, oltre che delle tecniche della ricerca, anche dei meccanismi di funzionamento della memoria collettiva; disposti, in quanto tali, a farsi appunto "garanti" del pluralismo storiografico e pronti a individuare e denunciare strumentalizzazioni, distorsioni, assolutizzazioni, rimozioni, usi arbitrari e dannosi del passato.

Sappiamo tutti quanto possano essere pericolosi certi meccanismi, come hanno dimostrato ancora una volta le recenti "pulizie etniche" della ex Jugoslavia propiziate anche da uno spregiudicato uso massmediatica del passato.

Qualcuno potrebbe obiettare che, a parte il caso "balcanico" della ex Jugoslavia, il ragionamento di Halbwacs sulla "storia come posta in gioco" può risultare anacronistico nel contesto delle società occidentali postmoderne, tendenzialmente appiattite sul presente..