ITALO FIORIN

Buongiorno e grazie per questo invito, che è anche un’occasione bella di scambio e di confronto tra persone appassionate alle vicende della scuola.

Brevemente, tre tipi di considerazione di carattere molto sintetico:

  • la prima riguarda un po’ il contesto, che offre dei criteri di lettura;
  • la seconda riguarda un po’ più da vicino l’insegnamento della storia, quindi il testo;
  • la terza riguarda quello che secondo me rappresenta il possibile, cioè quello che si può fare in una situazione di questo tipo.

Io prendo in particolare riferimento non tanto la legge 53, che è stata appena richiamata, e sulla quale il quadro è già stato offerto (un quadro che nel quale, ahimé, è fin troppo facile riconoscersi…) ma prendo più come riferimento documenti ancora non ufficiali, ma significativi: le indicazioni, le raccomandazioni, specialmente con relazione alla sperimentazione in atto.

Allora, qual è l’idea di scuola che viene proposta?

Secondo me c’è in primo luogo una dissonanza tra le "parole" e le "cose" della riforma, intendendo per "parole" le affermazioni di principio, e per "cose" le condizioni di praticabilità di queste "parole".

Riguardo alle "parole", ce ne sono alcune che noi riteniamo particolarmente importanti, impegnative, fondanti addirittura, peraltro non nuove, per la verità addirittura riprese quasi alle lettera dal testo dell’autonomia scolastica ed anche dalla legge ex 30, ed anche dagli indirizzi, per esempio la centralità della persona.

E’ espressa quasi con le stesse parole questa affermazione fondativa: si dice che tutto il sistema di istruzione e di formazione "... è finalizzato alla valorizzazione ed alla crescita della persona umana nelle sua varie età e condizioni". Questa è un’affermazione che non è originale (alle volte certe affermazioni si spacciano per originali perché questo cattura il consenso, ma in verità c’erano alla lettera così…). Da qui discende l’idea di competenza, che è legata all’idea di persona, e discende l’idea di personalizzazione, che si tratta di esplorare.

Quindi sono "parole" importanti, che non possiamo non riconoscere come tali, dal momento che le abbiamo apprezzate precedentemente e che fanno parte di valori di riferimento condivisi.

Però il problema sono le condizioni di praticabilità di queste parole, perché se ci sono delle dissonanze, io credo che poi alla fine contino le "cose" più che le parole, che dicono altro. Allora ci sono degli indicatori abbastanza interessanti, che io cito solamente in questa prima introduzione, ma che si potrebbero approfondire:

  • la logica degli anticipi, per esempio;
  • la visione di tipo funzionalista che caratterizza tutta una serie di indicazioni di carattere organizzativo;
  • la prescrittività minuta degli obiettivi specifici.

Gli anticipi sono di vario tipo e sono anche diversi: il bambino di due anni e mezzo che va alla scuola dell’infanzia pone problemi diversi dal bambino di cinque anni e mezzo che va alla scuola primaria, e ancora diverso è l’anticipo molto secco nella scelta che un ragazzino di dodici anni o poco più farà rispetto ai due canali dell’istruzione.

Senza entrare in un’analisi che dovrebbe rilevare delle differenze, c’è però un denominatore comune in una logica di tipo anticipazionistico che ha come punto di riferimento indubbiamente l’output del sistema scolastico, secondo una finalizzazione che poi da lì, in maniera deduttiva, definisce i percorsi secondo una logica "top down".

Allora noi vediamo di che cosa c’è bisogno all’uscita, vediamo qual è il bisogno tipo economico (che viene letto secondo me in maniera anacronistica, ma comunque questo è un altro discorso…) che viene ad essere la chiave dominante, e da lì definiamo dei percorsi, secondo una logica di "modernizzazione" che privilegia certi saperi rispetto ad altri saperi. Per cui la metafora delle "tre i" è una metafora significativa, sicuramente valida, e significa che l’alfabetizzazione da culturale diventa funzionale, e quindi i linguaggi, sia nei termini dell’alfabetizzazione (leggere, scrivere e far di conto), sia delle nuove tecnologie, sia dell’inglese, sono privilegiati rispetto ad altri saperi, ma sono privilegiati nella loro connotazione funzionalista, non nella loro connotazione culturale, perché uno può anche studiare l’inglese e incontrare in maniera critica ed anche in maniera interessante un’altra cultura, o invece imparare l’inglese solo per imparare a muoversi in maniera funzionale nella realtà.

La seconda è quella che invece riguarda tutta una serie di provvedimenti che riguardano, ad esempio, l’organizzazione degli insegnanti nella scuola primaria. Il tutor, con funzioni da un lato di super-insegnante e, per altri aspetti, di tuttologo (perché è evidente che è tale uno che insegna tutte le discipline eccetto qualcosa), riprende una funzione che era stata abbandonata dalla scuola, ma che non era stata abbandonata perché ne fosse stato imposto l’abbandono.

A volte ci si dimentica che la legge 148 in verità suggeriva nelle prime classi l’insegnante prevalente, e non i moduli, ma di fatto la scuola non li ha scelti, e potendo avere l’insegnate prevalente ha scelto diversamente; non c’era ancora l’autonomia, e nessuno ha avuto nulla da ridire, quindi di fatto quella si è imposta non come la regola, ma come l’orientamento dominante (poi ci sono anche realtà che hanno avuto ancora l’insegnante prevalente).

Un’altra idea che secondo me appare molto pericolosa, è quella della classe considerata come un retaggio burocratico vecchio, una forma organizzativa da superare. Mi sembra molto pericolosa perché non è che la classe sia un’organizzazione del lavoro scolastico immutabile e dogmaticamente ferrea: già nel passato non è stato così, tutti hanno praticato vari modi di apprendimento collaborativi di diverso tipo, sia all’interno della classe (l’aiuto reciproco, il tutoring, gruppi di cooperative learnig) sia tra le classi. Certamente non è una novità questa, era possibile prima, è un buon suggerimento oggi….

In realtà quello che si dice ora è che i gruppi sono definiti, disegnati secondo logiche molto funzionali in relazioni ad obiettivi che sono poi tarati in maniera molto privatizzata. Questo porta ad una sorta di gruppo "usa e getta", che rispetto ad una costruzione di identità e di relazioni sociali che richiede permanenza e stabilità, non sta in piedi. Peraltro c’è una contraddizione molto forte tra immaginare un insegnante prevalente e dire che c’è bisogno di un riferimento fisso, e impostarlo sull’idea di classe, mentre contemporaneamente si smantella la classe.

Ma tutto questo è, secondo me, non legittimato, perché, se si parla a livello di sperimentazione, tutto può essere (a parte ogni considerazione sulla natura di questa sperimentazione), ma tutto può essere perché si sperimenta, e ognuno può sperimentare quello che vuole. Se però questo dovesse essere generalizzato, allora si pongono dei problemi molto seri, perché in realtà sull’organizzazione c’è ancora autonomia dell’istituzione scolastica, e quindi non spetta a nessuno dire come si organizza la scuola.

Si possono dare criteri, si possono dare suggerimenti, si può dire quello che si vuole, però alla fine è la scuola che ha la responsabilità piena, tuttora riconosciuta, rispetto all’organizzazione, e quindi anche di questo secondo me sarebbe bene cominciare ad essere consapevoli e ad esercitare il proprio diritto su questo spazio che la scuola ha, e non si vede perché se lo veda portar via.

L’ultima riflessione di questa parte del mio intervento, riguarda la prescrittività minuta degli obiettivi specifici. Ora, che gli obiettivi specifici siano un compito che il ministero deve in qualche modo svolgere è vero: anche con De Mauro si erano fatti gli indirizzi. Che gli obiettivi specifici abbiano una natura prescrittiva anche questo è vero, discende dal regolamento sull’autonomia. Ma, appunto, discendendo da quel regolamento, deve rispondere ad una logica di autonomia della scuola, che è autonomia didattica, oltre che organizzativa.

E’ evidente che se io faccio una lista di 648 obiettivi prescrittivi, incateno la scuola in un letto di Procuste, per cui ogni autonomia è negata. Se poi si andasse a vedere, come tutti hanno fatto puntualmente alcuni di questi cosiddetti obiettivi, si vede che in realtà dentro c’è ancora un grappolo di obiettivi, quindi di fatto sarebbero anche molti di più. Allora è evidente che questo è una negazione nelle cose di quanto si afferma con le parole, ma anche di quanto si afferma con la legge.

In questo sfondo c’è l’insegnamento della storia, che evidentemente vive male dentro questo habitat.

Anche qui ci sono secondo noi degli spunti condivisibili nelle affermazioni, ci sono delle cose interessanti. Per esempio, nelle raccomandazioni pare particolarmente interessante, e in fondo è il riconoscimento di fatto di tante cose che si sono già realizzate nella scuola, l’idea di disciplina che viene vista sotto la duplice struttura della sintassi e della sostanza, per usare l’espressione di Schwab (qui dicono l’aspetto sintattico e l’aspetto semantico, ma è la stessa cosa), e cioè la disciplina non è l’insieme delle conoscenze semplicemente, cioè la sua sostanza, o la sua materia, ma è anche tutta una serie di metodi attraverso i quali si scoprono, si elaborano o si falsificano le conoscenze. Quindi c’è questo aspetto di ricerca che viene affermato, e secondo me è importante ricordarselo, perché dopo si tratta di vedere che cosa è possibile fare. Comunque questo viene affermato, e riguarda tutte le discipline e quindi deve riguardare anche la storia. Peraltro se andiamo a vedere anche la lista degli obiettivi vediamo che nella lista degli obiettivi ce ne sono diversi che hanno dei riferimenti anche agli aspetti di tipo metodologico, e quindi in qualche modo riconosciamo come elementi interessanti.

Interessante secondo me anche questa idea (non nuova, ma si tratta di linee su cui si può ragionare, si può forse anche lavorare) di questo duplice aspetto della memoria, e quindi della narrazione, e della problematicità e quindi della ricostruzione. Non tutto ha a che fare con la ricerca, che noi coltiviamo molto volentieri, ma certamente c’è anche un aspetto che sarebbe da esplorare, quello della narrazione, e quindi vengono identificati questi due punti di riferimento.

Ma rispetto agli stessi programmi dell’85 vediamo varie carenze: innanzi tutto la perdita dell’idea di area. Nei programmi dell’85 (mi riferisco a questi, comprendendovi anche la scuola media, pensando che i programmi di riferimento ultimi erano non tanto quelli del ’79, ma quelli dell’85, che in qualche modo erano già orientanti per la scuola media, in un’idea di continuità) io trovavo molto interessante il fatto che (non sono un esperto di storia, ma di didattica, poi mi conforterete voi…) e anche preciso dl punto di vista della natura della disciplina, l’identificazione dell’oggetto formale: l’oggetto di queste discipline è lo studio degli uomini, delle società umane nel passato nel presente, nel tempo e nello spazio, ecc… Così cominciava il programma per l’insegnamento di storia, geografia e scienze sociali. Ora l’idea di area è interessante perché suggerisce un certo approccio: intanto è vero, la storia è importante ma dialoga con altre discipline, non è male, non è retorico suggerire questa impostazione all’inizio, pur riconoscendo poi elementi di specificità. Quindi perdere questo significa rafforzare un’idea molto settoriale, per intanto.

Secondo: c’è la perdita dell’attenzione alla dimensione del quadro di civiltà o del quadro sociale, che non è certamente l’unico modo per fare storia, ma se noi collochiamo questa riflessione almeno per adesso nel quadro di una scuola primaria, di una scuola di base, di una scuola iniziale, pensiamo che l’approccio migliore sia quello di dare un taglio di carattere sociale, di carattere molto ampio, nel quale gli aspetti cronologici, gli aspetti degli avvenimenti, della fitta serie delle cose che si squadernano nel tempo, magari lungo l’asse della politica, non sono quelle che in questo momento dovrebbero occupare il primo piano.

Quindi questo viene molto attenuato, ci sono dei riferimenti nell’insieme, ma sono molto annacquati, e per giunta sono più considerati come un piccolo sfondo rispetto ad una visione ancora molto di storia politica, di storia delle figure, addirittura con delle inquietanti connotazioni di tipo "figure esemplari anche sotto il profilo dei valori". Ora, questo cosa poi voglia dire non lo so: l’esempio di Muzio Scevola, la storia degli aneddoti…? Lo dico ora un po’ polemicamente: di fatto è difficile leggere qualche cosa di serio dietro questa aggiunta di valori. Questi valori aggiunti in realtà sono dei disvalori, perché non c’è bisogno di aggiungere valore ad una disciplina che è in sé formativa.

Poi, anche qui, questa minuta prescrittività che poi finisce per riprodurre un percorso estremamente tradizionale (uso quasi con imbarazzo questa parola), con un rischio (io non entro nel merito, non faccio tutta l’analisi che ho visto fatta nell’articolo del Professor Mattozzi e nei vostri documenti, non entro in queste cose…) che per la didattica possa derivarne quantomeno la banalizzazione. Al di là di tutte le altre considerazioni, se anche uno prendesse sul serio tutto quello che c’è scritto, come può riuscire a farlo? Banalizzando rispetto ai contenuti ed ai problemi da un lato, dall’altro lato evidentemente con una didattica di tipo estremamente espositivo, nonostante i richiami, che condivido, agli aspetti euristici, agli aspetti di ricerca, agli aspetti di ricostruzione critica. Tutte queste cose, che pure vengono affermate, nei fatti vengono negate.

A me sembra che sia questa una chiave di lettura.

Ancora: l’incapacità di individuare un soddisfacente equilibrio tra due tensioni che sono importanti: da un lato la localizzazione, con una grande attenzione alla dimensione della specificità territoriale e culturale nella quale si vive, dall’altro la mondialità. Tra questi due poli che sono dialettici, che possono essere risolti anche male, ma che esistono, c’è un galleggiare mediocre, una sorta di storia "quasi patria", di vecchia impostazione. C’è mancanza di coraggio, di innovazione, rispetto a questo aspetto, mentre c’erano anche tante possibilità, non dico da sposare, ma da incentivare, da proporre, da lanciare, perché anche la scuola si appassionasse a qualcosa, e invece c’è una notarile esposizione di cose abbastanza scontate.

Poi ci sono degli errori grossolani, che avete rilevato voi certamente molto meglio di me, ma c’è la "storia della terra", il fatto che si insegni ad usare l’orologio, che non c’entra nulla col tempo della storia: sono delle banalità incredibili, e non sono, purtroppo, gli errori peggiori, ma ci sono anche questi.

Che cosa si può, che cosa si potrebbe fare?

Intanto far prevalere le ragioni dell’autonomia, che esiste, che c’è, che è legge sovraordinata anche alla legge Moratti. Non dimentichiamo che le stesse indicazioni discendono, e solo così di devono leggere, dall’articolo 8 del dpr 275 vigente e in realtà dalla legge sull’autonomia. Non dimentichiamo noi quello che il ministro ha dimenticato, che il titolo di quel capitolo è "il curricolo", che la perdita del curricolo è una grave perdita per la scuola, perché il curricolo è lo strumento della professionalità docente, come il programma è lo strumento dell’esecutività: perdere l’idea del curricolo non è perdere una parolina, è perdere una cultura professionale molto interessante, che rende l’insegnante un protagonista, ed un professionista, piuttosto che un impiegato esecutivo.

Inoltre, ricordarsi che la stessa autonomia offre degli anticorpi interessanti: per esempio l’autonomia è didattica, organizzativa, ma anche di ricerca e di sviluppo. Quindi la scuola è autorizzata a sperimentare: se anche avesse già tutto il diritto di fare diversamente nella logica dell’autonomia, può aggiungere questo, che al limite decide di sperimentare, e non ha bisogno di chiedere autorizzazioni a nessuno, per il momento. A meno che, quando si accorgeranno di questo, non intervengano anche sulla legge dell’autonomia, ma per il momento non è così.

Bisogna far prevalere le richieste di qualità, che ci sono nel testo: secondo me è opportuno leggere il testo, vederne anche gli aspetti positivi, e poi usarli, perché quando gli aspetti positivi sono in contraddizione con altri, allora si fanno prevalere i primi.

L’idea di qualità significa l’idea della storia come ricostruzione, tutte le cose che sapete meglio di me: non si può fare tutto e il contrario di tutto, bisogna scegliere, e in forza dell’autonomia possiamo scegliere.

Per esempio la logica dell’essenzializzazione rispetto alla logica dell’enciclopedia del sapere, che è un’altra cosa: allora fare un discorso sull’essenzializzazione, provare a ragionare anche su questo, privilegiare la storia di tipo sociale, rispetto ad altri tagli di tipo storiografico, da parte almeno della scuola di base, e rendere più esplicita e forte una prospettiva che possiamo definire interculturale della storia, che ha senso sia per leggere il locale, sia per leggere il globale.