La Stampa, 2 giugno 2001
I dieci comandamenti del
buon repubblicano
Gustavo ZAGREBELSKY
LASCIAMO da parte gli avvenimenti che portarono
alla Repubblica, attraverso la sconfitta del fascismo, la resistenza e la
guerra di liberazione, la messa in gioco delle responsabilità di Casa
Savoia nel referendum istituzionale del 2 giugno 1946. E, con gli
avvenimenti, lasciamo qui da parte anche le contese storiografiche su quel
periodo della nostra storia, diventato negli ultimi anni oggetto di una
lotta per la memoria il cui significato è nel George Orwell di 1984:
"Chi controlla il passato, controlla il futuro; chi controlla il
presente, controlla il passato". Intendo invece porre una duplice
questione che può essere esaminata indipendentemente da quella
controversia e dalle sue ipoteche ideologico-politiche: che cosa è la
repubblica e come essere repubblicani. Una questione di "conoscenza
pratica", in cui la definizione di un concetto ci suggerisce dettami
su un modo d'essere e di agire. Tra le varie classiche partizioni delle
forme di governo cui rivolgerci per mettere ordine in una selva piuttosto
oscura, quella di Montesquieu è una delle meno ovvie e più illuminanti
perché non si limita a elementi esteriori, come ad esempio il numero dei
governanti (tutti, alcuni, uno, cui corrispondono, rispettivamente,
democrazia, aristocrazia, monarchia ovvero demagogia, oligarchia,
tirannia), o a pur importantissime regole procedurali (il voto, invece che
la violenza, per cambiare i governanti, da cui i regimi della ragione o
quelli della forza), ma penetra nel loro intimo, svelandone il principio
etico o, secondo l'espressione ch'egli impiega, il ressort, cioè la molla
che dà loro vita e movimento. Nel terzo libro dell'Esprit des lois, le
forme di governo sono distinte in (a) dispotiche, (b) monarchiche e (c)
repubblicane. (a) Il despota è colui che sta fuori della legge, anzi
colui la cui volontà o arbitrio sono legge per gli altri. Il regime della
prepotenza si tiene sulla paura. Alimenta scontento e indignazione e
proprio per questo occorre che il terrore spenga il coraggio e prevenga
ogni minima ambizione di libertà. Il dispotismo è il regime
dell'insicurezza, delle delazioni, degli informatori e delle spie, del
sospetto. Chi ha l'animo costantemente occupato dal timore primordiale di
perdere la vita e i propri beni non può permettersi il lusso di alzare la
testa e pretendere rispetto e libertà. Montesquieu scriveva nella metà
del XVIII secolo e i suoi esempi erano i "despoti orientali" o i
crudeli cesari di Roma, come Diocleziano. Noi possiamo guardare appena
alle nostre spalle, ai regimi totalitari del XX secolo che, in maniera
scientifica e pianificata, si sono retti sull'uguaglianza del terrore. (b)
Della monarchia, la forza vitale sono gli onori: gli onori e i privilegi
che il re distribuisce in cerchie concentriche per legare a sé i sudditi
in un vincolo di fedeltà. La società è una gerarchia. Si sta in alto o
si sta in basso a seconda degli onori ottenuti dalla fonte regale
benefattrice. L'aspirazione al privilegio rafforza l'autorità del re e
tanto più i privilegi sono estesi, ramificati e differenziati, tanto più
saldo è il regno. Montesquieu aveva di fronte a sé l'esempio vivente di
questo genere di società, la monarchia francese con le sue
differenziazioni in "stati", "ordini" nobiliari ed
ecclesiastici, in ceti professionali, in città che godevano di esenzioni
più o meno ampie. E certamente non poteva non vedere - come vedevano i
letterati del suo tempo - che gli onori alimentavano, in chi non ne godeva
o ne godeva in misura minore di altri, un sentimento come l'invidia
sociale che, raggiunto il limite di sopportazione del "terzo
stato", avrebbe distrutto quella società. (c) Nello "stato
popolare" o democrazia - che Montesquieu tratta come primo paradigma
di stato repubblicano (nella sua classificazione, c'è posto anche per la
repubblica aristocratica) - coloro che fanno le leggi, direttamente o
tramite propri magistrati, sono gli stessi che le subiscono.
Quest'identità comporta il rischio che le leggi siano influenzate da
interessi particolari. Le leggi possono essere piegate al fine di
sottrarsi ai doveri verso lo stato, di saccheggiare la ricchezza pubblica,
di soddisfare il piacere e il lusso personale e anche, appena possibile,
di obbedire allo spirito di fazione, origine dell'ingiustizia e
dell'oppressione. Ecco allora che, in uno stato popolare, esposto al
rischio di questa corruzione, occorre un principio etico in più, la
virtù: una nozione che il repubblicanesimo giacobino ha reso sospetta,
per il carattere intollerante che le ha conferito, e che quindi dobbiamo
utilizzare con cautela, ma che, in una forma o in un'altra,
inevitabilmente fa capolino in ogni discussione sulla democrazia. Quale
sia il contenuto di questa virtù, possiamo cercare di ricavarlo, oltre
che dagli esempi storici che Montesquieu trae dall'Inghilterra, da Roma,
Atene o Cartagine, dai mali da cui la repubblica deve essere preservata.
Innanzi tutto, per evitare che lo stato, che è bene di tutti, possa
apparire un bottino allettante, la sobrietà degli stili di vita
personali. Per garantire la forza dello stato, l'osservanza scrupolosa del
dovere di contribuire con la propria opera e i propri beni alla sua
prosperità. Per difendere la libertà pubblica e difendersi
dall'ingiustizia e dall'oppressione, il senso dell'intangibilità della
propria dignità e dei propri diritti. Per preservarsi dal male maggiore,
il flagello delle fazioni, infine, l'amor di patria: un sentimento
politico che supera le divisioni e impone la concordia in ciò che davvero
è essenziale nella vita collettiva. Che cosa si deve intendere per
patria, nel senso repubblicano? Se si considera che la repubblica è
l'insieme degli apporti che ciascuno dà alla vita collettiva - i doveri -
e dei benefici che ne trae - i diritti -, possiamo dire che la patria è
un modo di stare insieme, una visione della convivenza, una specifica
comunità di diritti che vengono riconosciuti in restituzione dei doveri.
La patria, intesa come una concezione della vita collettiva, è certo il
prodotto di una terra e di una storia comuni ma non è essa stessa terra,
storia e, magari, sangue. L'idea repubblicana di patria appartiene alla
cultura e non alla natura; è costruita sull'impegno degli uomini di ogni
generazione che adempiono il dovere di trasmetterla migliore a quella
successiva; è selettiva, perché impone di tenere le distanze verso chi
abusa dei diritti che gli sono riconosciuti e viola o elude i doveri che
deve adempiere; è inclusiva ed espansiva, perché permette di accogliere
chi accetta la medesima concezione della vita, pur non venendo dalla
stessa terra e dalla stessa storia; è aperta, perché si può combinare e
allargare ad altre comunità di esseri umani in vista della costruzione di
patrie più vaste. Il significato che può avere oggi quest'idea culturale
di patria si comprende nel confronto con l'idea naturalistica, basata
sulla comunanza di terra, stirpe, storia. Questa, al contrario di quella,
è un dato che segna come un destino; comprende il buono, il meno buono e
il peggio, tutto giustifica e tutti acquieta nell'accettazione passiva,
insieme alle virtù, dei patri vizi; è chiusa su se stessa, ostacolando
la costruzione di comunità umane progressivamente più vaste. Comporta
infine un potenziale pericolo per la pacifica convivenza tra gli
individui, i gruppi sociali e i popoli, data la carica di aggressività
che essa contiene e legittima nei confronti di chi non appartiene alla
stessa comunanza. Fin qui, che cosa è la repubblica. Ora, che cosa
implica, nel modo d'essere e di operare dei cittadini, quella virtù con
la quale la repubblica vive e cresce, ma senza la quale muore. 1.
L'atteggiamento altruistico, come disponibilità a mettere in comune
qualcosa di noi stessi, capacità, tempo, risorse materiali, per il bene
di tutti: e in primo luogo per il bene di coloro che più hanno bisogno.
E' contraria all'uguale appartenenza alla repubblica e dunque non è
repubblicana l'idea di un darwinismo sociale che abbandona i deboli alla
condanna della selezione naturale. 2. La disponibilità all'accettazione
nella comunità dei diritti di tutti coloro che lealmente si riconoscono
nella comunità dei doveri, senza intolleranza nei confronti di quanti,
per qualsiasi ragione storica, etnica, personale, possano apparire
diversi. L'idea repubblicana ammette una sola ragione di diversità alla
quale possa seguire un'esclusione: la violazione dei doveri che dei
diritti rappresentano il corrispettivo. 3. L'apprezzamento e la
valorizzazione della pluralità delle opinioni, e quindi anche delle
opinioni divergenti dalle proprie, come espressione di un atteggiamento
che non si rassegna, contentandosi di quel che collettivamente siamo, ma
promuove il miglioramento cercando di correggere i difetti. 4. Lo spirito
del dialogo, con ciò che ne discende nella pratica: procedure,
istituzioni deliberative, tempo e anche frustrazioni e lentezze. 5. Il
rigetto della politica come dogma, ciò che, contrapponendo
irrimediabilmente i cittadini tra loro, pregiudica l'unità, crea
repubbliche (o meglio, chiese) che dividono la repubblica. 6. La
diffidenza verso le decisioni estreme e irretrattabili, non solo perché
anch'esse dividono irrimediabilmente, ma anche perché contraddicono
l'inesauribile diritto al libero confronto, essenza dello spirito
repubblicano. 7. La cura della propria personalità, il senso della
dignità e la gelosa difesa dei propri diritti, a garanzia di beni che non
sono solo individuali ma riguardano l'interesse di tutti. 8. La
sostituzione dell'idea lamentosa, molto nostrana ma poco patriottica, che
tutto sia dovuto dall'alto, con l'idea opposta che, fin dove è possibile,
ciascuno è responsabile della soluzione dei propri problemi, senza
gravare sugli altri. 9. La sperimentazione pratica di ciò che significa
vivere repubblicanamente, prestandosi personalmente, fin dalla prima
giovinezza, a svolgere attività nella politica e nel servizio sociale. Mi
accorgo che inevitabilmente, dalla repubblica e dalle sue regole, mi sto
spostando sul terreno contiguo della democrazia. Ma ancora un ultimo
punto, per completare il decalogo e ricollegarlo all'inizio, dove si
diceva della paura e dell'invidia come i tratti di psicologia collettiva
che caratterizzano i dispotismi e le monarchie: due sentimenti tetri,
avvilenti e distruttivi. Dello spirito repubblicano è propria invece
l'allegria, che nasce dall'ottimismo, dalla fiducia reciproca e dallo
spirito creativo che scaturisce dal coinvolgimento in imprese comuni,
importanti per la vita di tutti. Così è in tutti i tipi di società
umane, anche le più piccole e le più semplici: tra compagni di scuola,
tra studenti e professori, tra professori tra loro e tra professori e
preside, se manca l'allegria, manca lo spirito repubblicano. Vuol dire
che, al posto, prevale lo spirito dispotico con le sue paure o lo spirito
monarchico con la sua invidia.
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