Nel titolo della relazione che
mi è stata affidata si affollano parole - chiave, ad alta densità concettuale - fonti,
memoria, guerra - ciascuna delle quali presuppone e implica complesse questioni di
vario ordine. Complessità e implicazioni ancora aumentano, richiedendo specifiche
coniugazioni e necessarie distinzioni di approccio e di sviluppo, se le rapportiamo sia
all'ambito della didattica della storia che all'orizzonte della storia del Novecento e
dell'esperienza della contemporaneità, con le conseguenti questioni connesse al nodo
della trasmissione - comunicazione tra le generazioni. Questa precisazione non è una
specie di esordio obbligato, o di espediente comunicativo, quasi a giustificare il poco
che si dice rispetto al molto che si potrebbe o dovrebbe dire; intendo piuttosto chiarire
subito che anche in campo didattico ogni riflessione sull'uso delle fonti conduce
all'incontro ( e allo scontro) con nodi problematici di grande spessore. L'educazione
all'uso delle fonti - come tutti sappiamo - è stato elemento costitutivo del rinnovamento
della didattica della storia, un punto focale nel dibattito che l'ha accompagnato a
partire dagli ormai lontani anni Settanta e rimane oggi al centro della pratica del Laboratorio
di storia (1). La stessa
"paura della storia contemporanea "- evocata nel dibattito sull'introduzione
dello studio della storia del Novecento (2)-
ha parecchio a che fare con il problema delle fonti. Non alludo soltanto al ben noto
gigantismo, all'allargarsi smisurato di quantità, forme, linguaggi, supporti, al
vertiginoso aumento della produzione di documenti e informazioni, ma soprattutto alle
nuove connotazioni che assume il problema della selezione, della scelta, vale a dire
dell'interpretazione delle fonti: "E' l'interpretazione - scrive Marcello Flores
analizzando appunto la paura della storia contemporanea - cioè la scelta selettiva del
passato e delle domande da porgli, il necessario intreccio tra la loro selezione e
spiegazione, a essere resa difficile nella storia del Novecento" (3). Questa mi pare la ragione fondamentale per la quale, se
si vuole realizzare un corretto approccio alle fonti nella didattica della storia
contemporanea e si vuole cogliere la portata essenziale dell'innovazione insita nella
concezione del Laboratorio di storia, non basta un generico aggiornamento metodologico,
una sorta di riduzione di scala rispetto alle operazioni messe in campo dagli storici. I
necessari processi di semplificazione non possono appiattire o annullare le questioni di
fondo della scelta, dell'interpretazione, della responsabilità, e, inoltre, le domande e
le esigenze della didattica e della ricerca scientifica rimangono diverse e richiedono
diverse strategie metodologiche.
Tutto ciò è doppiamente vero per le fonti di memoria, che, aprendo il campo della
ricerca e della didattica ai piani della soggettività, dell'autobiografia, alla
magmatica materia esistenziale, mettono definitivamente in crisi una vecchia concezione,
superata in sede storiografica, ma sopravvissuta a lungo nella scuola, nella storia
materia, secondo la quale a garantire l'"oggettività", quindi la
"verità" è solo il documento scritto, ufficiale, una volta appurata la sua
autenticità. Impossibile evitare il nesso storia e memoria, irto di rapporti
complessi e conflittuali: qualsiasi riflessione sulle fonti di memoria , qualsiasi
operazione didattica si intenda compiere con esse, comporta la consapevolezza di questa
dimensione problematica.
Anna Rossi Doria distingue con grande chiarezza tra due usi della memoria oggi
in atto, "uno molto pericoloso, l'altro molto positivo". Si tratta
rispettivamente della memoria "come strumento di quelle terribili "passioni
della politica dell'identità", come la ha chiamate Eric Hobsbawm, che per
definizione si contrappongono le une alle altre, fino ai fondamentalismi e alle guerre
etniche; dall'altro lato, invece, la stessa memoria diventa strumento di coscienza civile
nel presente"(4). E' su questo
secondo versante che dobbiamo soffermare la nostra attenzione. Anna Rossi Doria ha
perfettamente ragione quando sostiene che il mancato inserimento del fenomeno delle
deportazione nella memoria collettiva e lo scarso interesse a lungo prestatogli dalla
ricerca storica indicano la carenza di tale assunzione di responsabilità e comportano una
grave mutilazione della coscienza civile nel presente. L'assunzione di responsabilità sul
quel passato non è solo faccenda degli storici, riguarda direttamente proprio i docenti
di storia. .Non giova aggirare l'ostacolo, tentando, come fa qualcuno, di negare
legittimità al piano della memoria e della soggettività nell'insegnamento della storia (5); è molto meglio, anzi necessario,
affrontare i problemi connessi e impegnarsi, insieme agli studenti, su qualcuno dei temi
caldi legati alla memoria delle guerre del Novecento.
Le parole con cui Annette Wievorka conclude un suo recente saggio, senza nascondere
alcuna delle difficoltà a cui ho accennato, mi pare servano da stimolo e da conforto non
solo per gli storici impegnati a studiare il "buco nero" della deportazione e
della shoah, ma anche per i docenti di storia: " Qual'è allora il dovere
degli storici, di coloro che producono un racconto storico, e quello degli insegnanti di
storia che iniziano i giovani a tale racconto? Devono forse, come talvolta li vediamo
fare oggi, dichiarare guerra alla memoria e ai testimoni e contendere loro lo spazio
editoriale, mediatico e associativo, con il rischio di dedicare a ciò una parte
importante dello loro energia? Non credo. Lo storico ha un unico dovere, quello di fare il
proprio mestiere, anche se i risultati del suo lavoro alimentano il dibattito pubblico o
la memoria collettiva o vengono strumentalizzati dall'istanza politica. E ciò perchè.
quando il tempo scolorisce le tracce, resta l'iscrizione degli eventi nella storia che è
l'unico avvenire del passato"(6).
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Note
1. La lunga battaglia culturale condotta in questo campo dagli
Istituti storici della Resistenza, dal Movimento di cooperazione educativa, da singoli
studiosi, pur nella diversificazione dei metodi e dello stile di lavoro, si caratterizzava
per una serie di obiettivi didattici largamente condivisi: far capire che la conoscenza
del passato, del nesso passato - presente e l'interpretazione del presente sono possibili
grazie all'uso delle fonti , che le conoscenze organizzate (anche dei libri di testo, dei
media) provengono in origine dal lavoro, corretto o scorretto, rigoroso o disinvolto,
sulle fonti., che il prodotto storiografico è produzione consapevole di memoria storica.
Per la ricostruzione del dibattito e il suo raccordo con i primi contributi sul
Laboratorio di didattica della storia, si veda M. Gusso, Didattica della storia:
ricerca e laboratorio. Il dibattito italiano (1967 - 85). Bibliografia ragionata, in La
storia insegnata: Problemi, proposte, esperienze, a cura di O. Clementi, G. Marcialis,
T. Sala, Milano, Bruno Mondadori, 1986, pp. 270-283. torna
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2. La paura della storia contemporanea è il titolo
dell'intervento di Marcello Flores ne "il Mulino", 1, 1997, pp. 65- 71. La
difficoltà ad affrontare la storia del Novecento non è prerogativa soltanto di
insegnanti, che si sentono impreparati a tale compito; è vista principalmente dall'Autore
come dato strutturale della situazione europea, ma soprattutto italiana, e coinvolge gli
storici, l'organizzazione della ricerca, l'università. torna
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3. M. Flores, La paura della storia contemporanea, cit., p.70. torna su
4. A. Rossi Doria, Memoria e storia: il caso della deportazione,
Soveria Mannelli, Rubbettino, 1998, p.21. Osserva Mariuccia Salvati: "Le ricerca
diffusa di conservazione della memoria è rivendicazione di un'identità comunitaria che
richiede garanzie di rispetto istituzionale e che proietta sul futuro una volontà di
partecipazione democratica. Essa denota tuttavia anche la paura che il passato possa
ripetersi e sfiducia nel presente se lasciato nelle mani esclusive degli storici
ufficiali: è una risposta a un contesto storico dominato da stragi e flussi migratori di
intere popolazioni rispetto alle quali siamo privi di strumenti di comprensione. Ci si
aspetta tutto allora dalla memoria: al passato non si chiede ragione, critica, ma modi di
identificazione" (Il Novecento, in '900. I Tempi della storia, a cura
di C. Pavone, Roma, Donzelli, 1997, p. 25). torna su
5. Si veda ad esempio D. Parisi, Come si deve insegnare ( e fare)
la storia?, "Contemporanea", a. I, n.2, aprile 1998. La memoria è vista
come nefasta radice di pericolosi processi di costruzione di identità diverse, da bandire
dalla scuola in quanto sorgente di intolleranze, nazionalismi, integralismi. torna su
6. A. Wieviorka, L'era del testimone, Milano, Cortina, 1999, p.
159. torna su