Il «Grande Fratello» dei prof

di Antonino Criscione

 

      A più di un mese dall'avvio delle iniziative sui libri di testo di storia da parte di alcune Amministrazioni regionali o provinciali guidate dallo schieramento politico di centrodestra credo sia possibile tracciare un bilancio provvisorio della vicenda. Una prima precisazione va fatta: non tutte le iniziative di cui stiamo parlando hanno avuto un carattere deliberatamente censorio. La Provincia di Milano, ad esempio, ha bandito un concorso tra i docenti milanesi per la produzione di un libro di testo di storia ed educazione civica. Al vincitore del concorso andranno £ 50.000.000, mentre la commissione giudicatrice sarà formata da: Stefano Zecchi, Robi Ronza, Mario Cervi, e dal prof. Giorgio Rumi. Questi, stando alle ultime notizie in circolazione, ha declinato l'invito a far parte della commissione. Niente di censorio ma qualcosa di inquietante, comunque, per l'incongruità di una commissione giudicatrice la cui composizione vede, se verrà confermata la rinuncia del prof. Rumi, l'assenza degli storici nonché della pluralità di orientamenti culturali e politici che caratterizza la società milanese. Il carattere inquietante dell'iniziativa si accentua se si considera il fatto che nella conferenza stampa in cui essa veniva presentata dall'Assessore alla P.I. della Provincia, un esponente di "Azione giovani", movimento giovanile di A.N. e nota organizzazione che si occupa di diritto allo studio, annunciava l'apertura di un sito web per segnalare "episodi di inaccettabile faziosità" da parte di insegnanti di storia. "Sarà un enorme "grande fratello" dei prof", commentava in diretta l'entusiasta on.le Ignazio La Russa, dimostrando riferimenti culturali ampi e raffinati. A quanto pare il sito web contenente le liste di proscrizione degli insegnanti di storia "faziosi" non è stato ancora aperto, forse per i "motivi tecnici" non meglio precisati dall'on.le La Russa, implacabilmente intervistato qualche giorno dopo.

        Prima di entrare nel merito delle questioni può essere utile analizzare la strategia di comunicazione messa in atto dai soggetti politici promotori di questa o di altre iniziative, come il caso della moschea di Lodi, che hanno fatto scalpore in questi ultimi mesi. Nella fase iniziale di questa strategia una forza politica dello schieramento di opposizione lancia, a proposito di un tema "caldo", proposte destinate a suscitare clamore per la loro manifesta incompatibilità con i principi costituzionali e dello Stato di diritto. Successivamente, mentre tutte le forze politiche, nessuna esclusa, prendono le distanze, viene riproposto con successo da varie parti il consolidato schema retorico "soluzione sbagliata per un problema reale". In una terza fase varie forze politiche e culturali convergono nella definizione del problema, la discussione si sposta sul terreno indicato nella fase iniziale, vengono delineate idee e soluzioni che recepiscono la sostanza delle proposte che tanto scandalo avevano suscitato al loro apparire.

       Se questo è vero, risulta evidente che lo scopo reale dell'iniziativa adottata dalla maggioranza del Consiglio della Regione Lazio non è stato l'imposizione di una censura di Stato (o di Regione?) sui libri di testo di storia. Nel corso del tempo e nel fuoco delle polemiche sono emersi altri obiettivi che a mio parere stavano e stanno molto più a cuore ai promotori di questo tipo di iniziative. Non mi riferisco qui ai discorsi su fascismo, antifascismo, revisionismo storico, ma a qualcosa di più preciso e concreto: a) mettere in discussione l'indicazione contenuta nel Decreto Berlinguer del novembre '96 di dedicare all'insegnamento della storia del Novecento l'ultimo anno della scuola media e delle superiori, delegittimare in quanto "faziosa" ogni iniziativa di studio e di approfondimento in questa direzione; b) aprire un fronte di battaglia culturale sul tema dell'insegnamento della storia per assecondare e sostenere l'introduzione del buono-scuola. Se l'insegnamento della storia è per forza di cose "fazioso", ogni famiglia deve avere il diritto di poter iscrivere i propri figli nella scuola che presenta la storia, e in particolar modo la storia del Novecento, nel modo più consono alla propria visione del mondo. Allo Stato toccherebbe il compito di finanziare, attraverso l'erogazione di buoni-scuola, le scelte autonome delle famiglie italiane. La prima vittima di questo processo di "libanizzazione" del sistema scolastico italiano sarebbe, inevitabilmente, la libertà d'insegnamento.

        Mi pare che su entrambi i fronti gli abili strateghi di questa "campagna" abbiano conseguito risultati consistenti, atteso che la richiesta di censura dei libri di testo di storia si scontra con alcuni principi costituzionali da tutti ribaditi. Nè d'altro canto chi denuncia una supposta "faziosità" dei manuali di storia può evitare di rispondere alla domanda: come mai, visto che gli studenti vengono selvaggiamente indottrinati da insegnanti di storia faziosi e manuali di storia "rossi", molte recenti inchieste sugli orientamenti politici dei giovani vedono ai primi posti nelle loro preferenze le forze politiche di destra o di centrodestra?.

      Come esempio del successo ottenuto dai promotori della "campagna" sui libri di testo sulla questione della storia del Novecento a scuola basti citare la perfetta omogeneità di vedute sul tema tra Storace e Mario Pirani, autorevole opinionista de "la Repubblica", emersa nel corso della trasmissione televisiva "Porta a Porta" dedicata alla "querelle" sui libri di testo. Per evitare equivoci Pirani ribadiva poi in un articolo su "la Repubblica" del 20 novembre, Scuola, la Storia vista da sinistra e da destra, la sua posizione: non si deve studiare a scuola la storia della seconda metà del secolo scorso. Per arricchire ed articolare questa posizione Pirani specificava nell'articolo un'originale proposta di periodizzazione del Novecento "a geometria variabile": per la storia d'Italia bisogna fermarsi alla Costituzione, all'adesione alla NATO e alla Comunità europea (qui forse c'è qualche problema di date); per il quadro internazionale ci si ferma al crollo del colonialismo mentre per la storia dell'Urss si arriva fino alla caduta del Muro di Berlino. In poche righe veniva così brillantemente tagliato il nodo gordiano della periodizzazione del Novecento, questione sulla quale sono stati versati fiumi d'inchiostro e tanti illustri storici hanno discusso e continuano, ignari, a discutere in Convegni e seminari o sulle pagine di prestigiose riviste.

         Al di là di questo una considerazione va fatta sugli effetti che una discussione così male impostata e condotta ha avuto nell'opinione pubblica in ordine al tema della legittimità del sapere storico e del suo insegnamento/apprendimento. Da una parte si è avvalorata l'opinione che, non potendo la storia essere "obiettiva" in quanto legata al punto di vista e agli interessi conoscitivi del ricercatore nonché frutto di un continuo travaglio interpretativo, il sapere storico sia inevitabilmente "di parte". Tutto questo ha fatto dimenticare che la differenza reale non è tra storici "di destra" e storici "di sinistra", bensì tra chi fa lo storico di professione e chi fa altre cose. La cura della documentazione raccolta e scientificamente analizzata e il rifiuto di omissioni e deformazioni evidenti di problemi ed eventi accertati sono infatti parte integrante e fondativa del "mestiere" di storico (cfr: Alberto De Bernardi, La memoria come campo di battaglia; Claudio Pavone, L'uso politico della storia; Paola Di Cori, Il giuramento di Clio. A proposito di manuali di storia e di altre calamità innaturali, ). Dall'altra parte lo stesso insegnamento della storia contemporanea nella scuola è stato messo sotto accusa in quanto potenziale veicolo di indottrinamento: alla fine di novembre un trafiletto di cronaca su "la Repubblica" informava che i genitori degli alunni di una scuola media di Lipari hanno proposto di far tenere le lezioni di storia sul secondo dopoguerra a dei "testimoni" i quali, a differenza dell'insegnante di storia, sarebbero gli unici a poter raccontare "le cose come sono effettivamente andate". In questo richiamo al rankiano "wie es eigentlich gewesen ist", paradossalmente affidato ai testimoni oculari, c'è probabilmente più di uno dei problemi che l'insegnamento/apprendimento della storia del Novecento deve affrontare nel contesto determinato dalla discussione sui manuali di storia.

       Si può certo stendere un velo pietoso sulla qualità dei discorsi che hanno accompagnato la sgangherata iniziativa di Storace e dei suoi sostenitori, ma è difficile sottrarsi all'impressione che il livello del dibattito sull'insegnamento/apprendimento della storia si sia bruscamente abbassato. La stessa discussione sui manuali di storia, che in altri momenti ha visto svilupparsi un confronto attento alla riflessione epistemologica e di metodo riguardo alla storia e alla didattica della storia, si è ristretta, per esempio, al computo delle citazioni di questo o quel fatto storico nonché dello spazio ad esso riservato nei libri di testo incriminati, secondo un'interpretazione casereccia di ciò che dovrebbe essere politically correct. Tutto questo è avvenuto non a caso nel momento in cui, con l'avvio del riordino dei cicli, si pone l'ineludibile necessità di costruire un curricolo verticale che consenta all'insegnamento della storia di uscire dalla condizione di crisi in cui per molto tempo si è trovato. La ripresa di questo confronto e il rilancio delle ipotesi di innovazione sono la risposta più adeguata ai polveroni di volta in volta strumentalmente sollevati da chi osteggia il cambiamento.