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La resistenza nelle fabbriche e l’insurrezione
Claudio Dellavalle
Uno dei
caratteri distintivi del movimento di liberazione italiano, nella
comparazione con i movimenti di resistenza europei che si opposero al
fascismo italiano e tedesco, è certamente l’intreccio
tra lotta armata e varie forme di resistenza civile, sia nelle
campagne, sia nelle città. In particolare gli scioperi e le
agitazioni, che coinvolsero molte fabbriche del centro nord con un’
intensità e continuità che non hanno confronti nei
comportamenti degli operai di altri paesi occupati. Intensità
e continuità che hanno appunto portato, nel corso stesso della
lotta di liberazione, a definire la resistenza italiana come un
risultato originale e particolarmente efficace. Inoltre la presenza
rilevante di operai tra le fila della resistenza armata, il
coinvolgimento delle fabbriche nella fase conclusiva della lotta, in
particolare nelle vicende insurrezionali delle maggiori città
del nord, ha costituito un ulteriore elemento di caratterizzazione.
Quando si
parla di resistenza nelle fabbriche non si parla in termini di
contributo, ossa come di un elemento che integra un percorso di
opposizione, ma si indica una specifica forma di resistenza, che pure
nel quadro complessivo del movimento, ha spazi autonomi e dinamiche
differenziate che non a caso sono stati oggetto di valutazioni
politiche e di ricerche storiografiche importanti. Può non
essere inutile ricordare che la riflessione più complessa
dedicata alla resistenza italiana da Claudio Pavone ha richiamato
accanto alla dimensione della guerra di liberazione dai tedeschi e
della guerra civile contro i fascisti della RSI, la guerra di classe
che si svolse parallelamente nelle campagne e nelle fabbriche. Anche
se lo stesso Pavone ritorna più volte sul concetto di guerra
di classe per definirne i contorni, che risultano molto più
sfumati di quanto la definizione lasci intendere, possiamo in prima
approssimazione ricondurre sotto questa categoria le molteplici
manifestazioni di conflitto che videro negli anni 1943-1945 come
protagonisti componenti delle classi subalterne e in primo luogo
contadini e operai. Va anche detto che questo protagonismo ha avuto
una sorte non troppo felice dal punto di vista dell’elaborazione
storiografica per molte ragioni, la principale delle quali è
la sovraesposizione che quelle lotte ebbero nel discorso politico nel
corso stesso della guerra e possiamo dire in quasi tutti i passaggi
significativi della storia della Repubblica. Gli sforzi condotti per
consegnare alla conoscenza storica un terreno molto carico di
tensioni politico partitiche, hanno portato a risultati certamente di
notevole interesse, ma, va anche detto, senza giungere ad una
valutazione di insieme, ad una sintesi che renda pienamente conto del
rilievo di quell’esperienza nel quadro complessivo della storia
dell’Italia in guerra. Anzi, in tempi relativamente recenti,
quasi a sottolineare quanto le tensioni appena richiamate non abbiano
cessato di agire, molti sforzi sono stati impiegati in direzione
opposta, per svalutare quell’esperienza e ricondurla ad una
condizione di marginalità. Tralasciando ogni intento polemico,
in questa lezione si cercherà di individuarne i caratteri
fondanti, scontando com’è inevitabile, una maggiore
attenzione alla realtà torinese, anche se sarà
necessario, per non perdere l’orizzonte complessivo
dell’esperienza, richiamare anche altre realtà, e in
primo luogo, le realtà milanese e genovese, che allora
costituivano con Torino i punti di massima concentrazione degli
operai di fabbrica.
L’esercito
in tuta blu.
Quando il
5 marzo 1943 si ebbero a Torino i primi scioperi che nel giro di un
mese avrebbero coinvolto molte fabbriche della città, del
circondario, e in successione altre fabbriche piemontesi per
estendersi a Milano e a molte fabbriche lombarde, l’Italia
stava concludendo il terzo anno di guerra. Con esiti disastrosi su
tutti i fronti. Ora con gli scioperi si apriva la prima grave
frattura in quello che era considerato il fronte interno, quello più
delicato per la tenuta del regime. E’ bene considerare la
crucialità di questo passaggio. In una guerra moderna e in una
guerra totale come era divenuta la guerra scatenata da Hitler gli
apparati deputati alla produzione contano quanto gli eserciti messi
in campo: contano le risorse umane, materiali, e finanziarie che si
possono investire, il potenziale delle strutture produttive e la
capacità di orientarle efficacemente alla produzione bellica,
il livello tecnologico raggiunto nei settori chiave in comparazione
con i livelli che il “nemico” può mettere in
campo, e infine la capacità organizzativa di portare tutti
questi diversi elementi ad alimentare, mantenere e far crescere la
macchina bellica. In tutti i punti dell’organismo produttivo
orientato alla guerra l’Italia fascista non è in grado
di esprimere livelli superiori al nemico con cui deve confrontarsi.
Senza entrare in un’analisi che porterebbe troppo lontano,
possiamo fare un esempio sufficiente a far cogliere le contraddizioni
in cui si muove la mobilitazione bellica dell’Italia. Nel
settore aeronautico, settore decisivo nella guerra moderna, le cure
del regime, anche per ragioni di immagine, hanno fatto acquisire,
livelli tecnologicamente rilevanti, ma questa qualità non può
essere tradotta in una scala di produzione neppure lontanamente
avvicinabile a quanto saranno in grado di fare paesi nemici. Questo a
prescindere da ogni discorso relativo alle infelici scelte
strategiche adottate nella conduzione della guerra parallela voluta
da Mussolini in concorrenza alle iniziative delle forze armate
tedesche. Questo significa che c’è una debolezza
strutturale inscritta nel destino bellico dell’Italia fascista.
Quando lo stereotipo della guerra breve e quello immediatamente
successivo della guerra parallela, non a caso condotta contro paesi
che si potevano presumere più deboli (la Jugoslavia, la
Grecia, l’Africa settentrionale) si riveleranno poco più
di speranze mal riposte, allora emergerà con evidenza non solo
l’impossibilità dell’Italia a reggere il confronto
con le economie e con le capacità di mobilitazioni di risorse
delle altre potenze, ma anche la dipendenza per molti versi umiliante
dall’ l’alleato tedesco. Il regime a partire dall’autunno
1942 si dovrà misurare con l’impatto devastante della
superiorità aerea degli Alleati, e nello stesso torno di tempo
con la superiorità sul terreno delle divisioni di Stalin.
Allora la verità apparirà in tutta la sua brutale
evidenza alle popolazioni civili colpite dai bombardamenti, e, in
modo più pregnante, a coloro che stanno al centro del sistema
che alimenta la guerra, ossia le centinaia di migliaia di operai, che
fanno funzionare la macchina della produzione bellica.
E’
già stato notato che la sollecitazione che deriva all’apparato
industriale dai provvedimenti assunti dal governo fascista per
sostenere la guerra risulta complessivamente inferiore a quello che
ci sarebbe potuti attendere da un regime che nel corso degli anni
Trenta è venuto rinforzando i suoi tratti totalitari con un
controllo crescente sulla società civile e con marcati
processi di militarizzazione della società, soprattutto delle
generazioni più giovani, che dovranno realizzare gli obiettivi
di espansione dell’Italia. Lo sforzo iniziale è
rilevante e produce una canalizzazione delle risorse, in primo luogo
finanziarie, verso i settori più moderni, secondo una linea
che era già stata impostata nel corso degli anni Trenta e che
le imprese belliche del regime (Etiopia, Spagna) e l’autarchia
avevano rinforzato. Guardando a cosa questo andamento significhi per
l’occupazione operaia si possono registrare alcuni mutamenti
significativi: la crescita degli occupati tra il 1939 e il 1942 e il
loro rapido decremento già verso la fine del 1942; una
concentrazione territoriale ancora più marcata che accresce il
peso relativo del triangolo industriale; una concentrazione per
settori con spostamenti significativi a vantaggio dei settori più
moderni(siderurgico, meccanico, chimico); la crescita relativa delle
aziende maggiori. In termini numerici gli operai di fabbrica sono
circa 1 milione e ottocentomila in tutto il nord all’inizio
della guerra, pari a due terzi dell’intero universo operaio
nazionale; crescono rapidamente di almeno quattrocentomila addetti
tra il 1940 e il 1942, ma nel 1943 sono ritornati sulle cifre
iniziali. Gli operai delle grandi fabbriche possono essere valutati
in circa 200 mila; costituiscono una frazione della massa operaia, ma
molto concentrata nei grandi stabilimenti delle città del
triangolo, Torino, Milano, Genova. Sotto il profilo della qualità
professionale dentro questo insieme c’è un nucleo
costituito da operai specializzati, risultato di una formazione di
anni di lavoro, che sono il perno del sistema produttivo del tempo. I
processi di standardizzazione che pure sono cresciuti, non possono
però prescindere da questo strato operaio, che è però
una risorsa limitata e non sostituibile. Per esemplificare che cosa
questo dato significhi si può considerare la realtà
della Fiat Mirafiori. Inaugurato nel 1939 il moderno stabilimento è
stato adibito alla produzione bellica raccogliendo una serie di
produzione prima sparse in varie officine. Lavorano a Mirafiori circa
14 mila operai la cui composizione è varia: accanto a operai
comuni, a donne e giovani adibiti tutti a produzioni di serie stanno
circa 2000 operai raccolti nelle officine ausiliarie, ossia quelle
officine che forniscono gli strumenti e le attrezzature che
consentono alle altre officine di funzionare. Si tratta di 2000
operai di alta qualificazione ottenuta in anni di apprendistato e di
scuola. In tutte le aziende metalmeccaniche del tempo, a Milano come
a Genova, questa presenza di specializzati è un dato costante,
che corrisponde ad un determinato livello dell’evoluzione
dell’organizzazione produttiva, che resterà inalterata
in Italia fino alla metà degli anni Cinquanta. Questi nuclei
operai, minoranze elitarie del mondo del lavoro del tempo di guerra,
avranno un ruolo spesso decisivo negli sviluppi della contestazione
operaia, perché sottoposti ad uno sforzo produttivo
esasperato, finiranno per assumere consapevolezza del proprio ruolo e
diverranno i più determinati sostenitori delle esigenze
operaie. Il processo è relativamente lento perché,
finchè la guerra è lontana, la domanda di forza lavoro
perla produzione bellica fa crescere l’occupazione; il
controllo dei prezzi e dei salari funziona abbastanza, così
come l’organizzazione della distribuzione dei viveri,
specialmente nelle città industriali. Ma all’inizio del
terzo anno di guerra la situazione è destinata a mutare con
molta rapidità per tre principali fattori: le sconfitte
militari, di cui la campagna di Russia costituisce l’ultima
disastrosa esperienza , l’avvicinarsi del fronte di guerra al
territorio nazionale, l’esaurirsi delle risorse che il paese
riesce a mettere in campo, a cominciare dal rapido abbassarsi delle
quantità e della qualità delle razioni alimentari.
Infine, fattore dirompente, i bombardamenti che dall’autunno
1942 incominciano a colpire con sistematicità le città
italiane e in particolare le città industriali del nord. La
guerra, che sembrava lontana, arriva sulle case e sulle fabbriche,
diventa un’esperienza quotidiana.
L’effetto
è sconvolgente: le coordinate dell’esistenza di milioni
di persone vengono travolte, così come il tessuto connettivo
delle città, i collegamenti interni e le vie di comunicazione.
Le città si svuotano: lo sfollamento significa il dimezzamento
della popolazione delle grandi città, dove però devono
restare quanti concorrono alla produzione, tra questi ovviamente gli
operai. Dunque gli operai dei maggiori centri industriali si
ritrovano nel giro di poche settimane in prima linea e non più
nelle forme metaforiche ampiamente utilizzate dal regime per
sottolineare l’importanza dell’apporto operaio. Le
fabbriche diventano delle trappole, i rifugi antiaerei si rivelano
insufficienti, spesso inadeguati, i tempi di lavoro sono scanditi
dall’urlo delle sirene che segnalano l’arrivo degli
aerei. Dalla minaccia che arriva dal cielo, non è possibile
difendersi, né il regime è in grado di attivare una
difesa adeguata. Tutto l’apparato propagandistico gestito dal
partito e dal sindacato per motivare gli operai a sostegno dello
sforzo bellico si svuotano di fronte all’evidente
incapacità-impossibilità del regime di difendere
l’esercito del lavoro. Alle domande di attenzione e di
sostegno da parte degli operai non ci sono risposte né da
parte dell’apparato politico, che oppone alle domande degli
operai la necessità di sostenere comunque lo sforzo di guerra,
perché non può riconoscere in alcun modo che la partita
è persa. Né può riconoscerlo l’apparato
sindacale, che pure nelle strutture più vicine agli operai ha
avvertito e raccolto l’allarme e la domanda di tutela dei
lavoratori, delle fabbriche militarizzate, ossia la maggior parte
delle fabbriche importanti. Tale domanda non può essere
esplicitata perché suonerebbe come un attacco al regime e alla
guerra fascista. Questo punto è importante perché fa sì
che mentre non ci sono risposte in positivo, ogni atto non
riconducibile alle logiche comunicative e di controllo del regime, è
un atto politico ostile: perché è insubordinazione al
potere costituito, perché è tradimento del paese in
guerra nel momento in cui l’unità del fronte esterno e
interno è l’assioma che garantisce l’unità
e la lealtà delle forze armate e dell’esercito della
produzione, l’esercito delle fabbriche. Si può solo
osservare che questa impostazione inevitabilmente riporterà
sotto la categoria di comportamento antinazionale e quindi
antifascista qualunque atto e comportamento che non sia di
accettazione del ruolo assegnato dal regime.
La
guerra entra di prepotenza nei discorsi operai e finisce per
costituire il punto attraverso cui si valutano le coordinate della
propria esistenza; si valuta l’abbassamento repentino della
qualità di una condizione fino a pochi mesi prima
relativamente protetta, ma anche e soprattutto la minaccia diretta
all’esistenza di ognuno. Si tratta di un passaggio che taglia
le esistenze di centinaia di migliaia di persone e che da questo
punto in poi sta sullo sfondo di ogni scelta e comportamento
collettivo, un passaggio da cui non si può prescindere nella
valutazione del protagonismo operaio espresso dagli scioperi. Gli
operai sono contro la guerra perché la guerra è contro
di loro.
Gli
scioperi
La
situazione descritta fa da sfondo alle iniziative di protesta
operaie, che in forma sporadica si manifestano nei primi mesi del
1943, e che ai primi di marzo si coagulano in una protesta generale
coinvolgendo molte fabbriche prima di Torino, poi Milano e di varie
aree di vecchia industrializzazione, soprattutto piemontesi e
lombarde. E’ il primo di una sequenza di scioperi dei
lavoratori dell’industria, delle fabbriche del centro nord. La
sequenza può essere così sintetizzata: marzo 1943,
luglio agosto 1943, novembre dicembre 1943, marzo 1944, aprile 1945.
Le date indicano le punte alte delle agitazioni, quando il movimento
assume una dimensione generale e quindi un significato politico. In
tutti i punti della sequenza si producono effetti così ampi da
costituire un problema di rilevanza nazionale qualunque sia la forma
del potere con cui gli scioperanti si misurano: il regime fascista
alle sue ultime battute, il governo tecnico militare di Badoglio,
voluto dal re dopo la caduta del fascismo tra il 25 luglio 1943, e
dopo l’8 settembre il potere degli occupanti tedeschi e, in
forma subordinata, il governo collaborazionista della Repubblica
sociale italiana.
La
sequenza sembra suggerire una tendenza lineare alla crescita dei
movimenti di sciopero che di passaggio in passaggio accrescono la
loro capacità di “tenere il campo”. In realtà
non è così, non solo perché mutano
significativamente i contesti in cui avvengono le agitazioni operaie,
ma anche perché all’interno delle singole manifestazioni
di sciopero si danno condizioni diverse, a cominciare dal diverso
esito che in esse hanno gli elementi di spontaneità e di
organizzazione della protesta operaia.
Il punto
di riferimento inevitabile è lo sciopero del marzo 1943. Per
le modalità con cui si manifesta la protesta operaia è
difficile da decifrare perché le interruzioni del lavoro
procedono per inneschi improvvisi, con coinvolgimenti e
partecipazioni di fabbriche e settori che il velo organizzativo dei
militanti antifascisti non è in grado di gestire, ma che è
in grado di assecondare. Per valutarne l’impatto va ricordato
che lo sciopero, l’interruzione del lavoro è qualcosa
che è stato espunto dalla dimensione politica del regime, un
evento che non dovrebbe accadere e che nel momento in cui accade va a
colpire uno dei presupposti costitutivi del regime fascista: la
collaborazione tra le classi garantita dal sistema politico
autoritario, per definizione esclude il conflitto sociale, che in
ogni momento potrebbe scardinare il principio di autorità e
gerarchia che definisce il regime. Di qui le ire di Mussolini per le
insufficienze dell’intervento politico e sindacale, le
incertezze nella repressione, ma anche le incertezze dei sindacalisti
che non possono negare le ragioni della protesta operaia. Non a caso
alla repressione dei primi giorni faranno seguito nel mese di aprile
alcune indennità a vantaggio di tutti gli operai. E’ una
modalità che tende da un lato a punire e dall’altro a
recuperare il consenso. Ma dal punto di vista degli operai è
anche una modalità che riconosce che lo sciopero paga e
produce vantaggi per tutti. Qualche tempo dopo Mussolini minimizzerà
l’impatto dello sciopero, perché gli effetti sembrano
riassorbiti. In realtà è a parabola del regime che si
sta concludendo: gli scioperi di marzo hanno semplicemente anticipato
degli scenari nuovi, evidenziando la crisi irreversibile del regime.
Se ora
facciamo un salto temporale e guardiamo allo sciopero “finale”
dell’aprile 1945, a due anni di distanza, possiamo misurare la
distanza tra i due eventi. La proclamazione degli obiettivi
insurrezionali dello sciopero, il coinvolgimento programmato degli
operai ma anche di altri soggetti sociali, la presenza organizzativa
dei partiti antifascisti e delle strutture sindacali e paramilitari,
perfino le armi in mano agli operai e il coordinamento ricercato e
voluto con le formazioni partigiane, fanno dello sciopero un progetto
politico dispiegato, consapevole degli obiettivi che si intendono
conseguire. La natura “eversiva” dello sciopero,
implicita nei comportamenti degli operai nel marzo 1943, è ora
non solo dichiarata, ma anche controllata nei suoi esiti da una
volontà politica che stabilisce le modalità dell’azione
e anche i confini non superabili dell’azione contro tedeschi e
fascisti.
Visto
nell’insieme il percorso sembra procedere da una conflittualità
inconsapevole ad una maturità politica che si fa programma e
progetto. In realtà non è così semplice, perché
il percorso è tutt’altro che lineare, e quindi vanno
messe in conto incertezze e difficoltà che ci parlano di un
processo faticoso, a volte contraddittorio, con assenze a volte
vistose e viceversa con presenze inattese, soprattutto con
significati che di volta in volta si ridefiniscono. E tuttavia è
riconoscibile in tanto mutare di situazioni e contingenze un tratto
di fondo, che dà unità al movimento complessivo: è
la domanda di riconoscimento, che viene riproposta in forme mutevoli
dalle agitazioni operaie a interlocutori, che resistono o si
oppongono e che tuttavia sono costretti di volta in volta a fare i
conti con la pressione operaia. Inoltre, ed è un secondo
elemento di fondo, la dinamica degli scioperi si muove sempre tra due
poli distinti: da un lato si pongono come fatti politici, come eventi
interpretabili prevalentemente attraverso le categorie della politica
e del conflitto di potere, e dall’altro si pongono come atti di
difesa e tutela delle condizioni di vita e di lavoro, come atti
interpretabili secondo le categorie della relazione sindacale e
quindi dello scambio e della contrattazione. In realtà le due
dimensioni si presentano sempre intrecciate e il significato dello
sciopero non è tanto dato dalla preminenza delle parole
d’ordine politiche su quelle sindacali, ma dal contesto in cui
di manifesta la domanda operaia. Ed essendo il contesto
caratterizzato dalla condizione bellica, dai vincoli e dalle rigidità
che essa produce, inevitabilmente anche la rivendicazione salariale,
o di viveri, o di difesa del posto di lavoro, non appena supera la
soglia della rivendicazione locale, e innesta un processo a catena di
rivendicazioni che esprimono un disagio generalizzato, assume una
valenza politica al di là delle intenzioni iniziali di chi la
pone.
Alla luce
delle categorie ricordate, in prima approssimazione si potrebbe dire
che gli scioperi che caratterizzano il 1943 sono segnati dalla
dimensione rivendicativa, mentre lo sciopero generale del marzo 1944
e quello insurrezionale dell’aprile successivo sono segnati
dalla cifra politica. Ma a parte quest’ultimo, la cui natura di
scontro finale non lascia spazio ad altre letture, per tutti gli
altri la distinzione non funziona.
Nel
marzo 1943, quando si apre la vicenda, le richieste operaie
riguardano la tutela delle condizioni di vita e dunque le richieste
vengono poste alle direzioni aziendali in forme molto differenziate,
mentre l’istanza politica è espressa da una domanda di
pace che compare, e neppure in tutte le situazioni, in forma
generica: un desiderio, un’attesa piuttosto che un obiettivo.
Ma la dimensione politica dello sciopero è data dalla modalità
con cui si manifesta, per l’estensione che assume, per la
circolazione imprevedibile del movimento. E a consacrarne il
carattere politico c’è il dato evidente per cui le
risposte non vengono né dalle aziende, né dalla
mediazione del sindacato fascista, ma dal governo che da un lato
concede provvedimenti salariali connessi alla situazione di guerra
(indennità di presenza) e dall’altro procede alla
repressione di un nemico che per altro fa fatica a identificare. Non
a caso vengono arrestati un certo numero di militanti antifascisti
accanto ad un numero cospicuo di operai, uomini e donne, per i quali
lo sciopero è stata la prima manifestazione di protesta. Si
tratta dunque di una dimensione politica particolare, implicita, che
se è raccolta e dilatata dalla stampa antifascista e in
particolare da quella di orientamento comunista, non è però
gestita da un’organizzazione, che quando compare attraverso la
presenza di vecchi militanti è ad uno stadio aurorale. Questa
dimensione particolare ha fatto molto discutere sugli elementi di
spontaneità e organizzazione degli scioperi del marzo. Nella
lettura più estrema spontaneità equivaleva ad
autonomia, autonomia dai partiti antifascisti, e quindi come luogo di
origine dei comportamenti conflittuali di classe che non si lasciano
incorporare in visioni politiche fornite dall’esterno.
Autonomia come nucleo strutturante di un operaismo tanto radicale
quanto astratto che ha le sue fortune maggiori a partire
dall’autunno caldo del 1969. Organizzazione era invece la
parola che rivendicava ai partiti antifascisti, in particolare al
partito comunista, un ruolo decisivo nella promozione e nello
sviluppo degli scioperi. Due letture contrapposte che davano conto
ciascuna solo di una parte della realtà che nel marzo 1943 non
aveva, non poteva avere una declinazione politica netta e definita.
Allora prevalse la cifra della sperimentazione, in cui il caso e
l’iniziativa di gruppi o di singoli si mescolarono in forme
inattese, come ad esempio, la scarsamente riconosciuta iniziativa di
gruppi di donne attive, e in alcune situazioni decisive, fin dalle
prime battute nello sciopero. Al carattere di sperimentazione si
accompagna l’incertezza perché, come diranno molti
testimoni, non si sapeva bene che cosa volesse dire fare sciopero,
quali fossero le conseguenze di un atto illegittimo rispetto alle
regole del regime, quali comportamenti fosse opportuno assumere di
fronte alle direzioni aziendali e ai funzionari fascisti, politici o
sindacali, che a loro volta si trovavano ad affrontare un’esperienza
sconosciuta. Certamente l’esperienza produce nella fabbrica una
discriminante tra chi sostiene o approva o semplicemente non ostacola
la protesta degli operai e chi si pone contro. Anche questa è
una discriminante piena di sorprese, di fascisti che decidono di
stare con i compagni di lavoro, di industriali (non molti, ma ci
sono) che difendono le scelte dei propri operai, di sindacalisti che
scoprono di stare dalla parte sbagliata. Dunque l’evento
sciopero produce le sue conseguenze inattese, distrugge in un colpo
solo la costruzione corporativa fascista, produce scelte e lealtà
che spesso dureranno una vita. Apre uno spazio di libertà in
cui la storia si incanala abbandonando un percorso che fino a pochi
momenti prima sembrava segnato da confini insuperabili. Il dato più
rilevante, rispetto al quale il resto, tutto il resto passa in
subordine, è la ricomparsa del conflitto sociale. E’
dunque veramente un inizio sia per i soggetti che ne sono coinvolti,
sia come primo momento di un percorso complesso che alimenterà
discorsi politici, identità sociali e comportamenti
collettivi. Alimenterà anche il mito degli scioperi del marzo
1943, nell’accezione positiva che la parola può
assumere, perché sta all’origine di una nuova fase della
storia del movimento operaio italiano e della società
italiana, perché così viene presentato dalla stampa
clandestina e poi dagli storici militanti che ne riprenderanno il
racconto nel dopoguerra.
Se il
carattere di novità, di stato nascente degli scioperi del
marzo 1943 ne fa un momento unico e irripetibile, anche negli
scioperi successivi si manifestano importanti elementi di
originalità. Nel corso dello stesso anno due altri momenti si
impongono con forza e sono gli scioperi dell’agosto e del
novembre dicembre. I primi trovano l’innesco nella protesta
piena di rabbia contro i bombardamenti terroristici che colpiscono
città,fabbriche e quartieri operai per costringere il re e
Badoglio alla resa. La richiesta pressante di porre fine ad una
guerra persa, che comporta prezzi insopportabili viene nell’agosto
1943 da alcune fabbriche torinesi. Un tentativo sanguinoso di
repressione innesta una protesta generale molto dura. In questa
occasione sono gli operai di Torino a interpretare la condizione che
tocca milioni di Italiani, mettendo in difficoltà un governo
autoritario, che non sa prendere l’unica decisione importante
che ne giustifica e legittima l’esistenza: uscire dalla guerra.
I partiti antifascisti, meglio quegli embrioni di partito tenuti
sotto tutela da Badoglio perché non mettano in discussione
appunto la questione della guerra e della pace, non hanno né
la forza né gli strumenti per potere intervenire. E tuttavia
l’iniziativa operaia costringe Badoglio a reprimere, ma anche a
trattare e a concedere finalmente la liberazione dei prigionieri
politici. L’armistizio arriverà con le modalità
devastanti che conosciamo a pochi giorni di distanza. Può
essere importante rilevare che nelle confuse giornate che seguono l’8
settembre, l’unica presenza significativa sotto il profilo
sociale nelle piazze delle grandi città è quella degli
operai, che richiedono, invano, un atteggiamento fermo alle autorità
militari di fronte all’occupazione tedesca.
Nell’autunno, in regime di occupazione, a partire dalla metà
di novembre, ci sarà il terzo momento delle lotte operaie. Di
fronte agli operai di Torino, di Milano e di Genova che protestano
per le pesanti condizioni di lavoro e di vita non ci sono le
direzioni aziendali , che scaricano, non senza un calcolo di
opportunità, la pressione operaia verso l’appena nata
Repubblica di Salò e, soprattutto, verso i tedeschi. E’
un braccio di ferro duro e prolungato che porta i tedeschi a cercare
la via dell’accordo attraverso concessioni significative in
cambio della pace sociale e della regolarità della produzione.
In questa occasione la rilevanza dello sciopero va cercata nella
capacità di negoziare con una forza di occupazione che non è
abituata a gesti di mediazione. Infatti i tedeschi, attraverso il
loro rappresentante, il generale Zimmermann, accettano di trattare e
alla fine anche di concedere molto, poiché intendono
recuperare la normalità produttiva a sostegno della loro
guerra. L’obiettivo principale è portare la gestione
delle risorse dell’industria italiana nel quadro generale della
guerra di Hitler, che come sappiamo sta producendo il massimo sforzo
produttivo per cambiare gli esiti del conflitto. La modalità è
lo scambio: concessioni salariali e di viveri contro pace sociale e
regolarità produttiva. Ma la scelta nel novembre dicembre 1943
arriva tardi, quando da un lato la situazione di emergenza e di
difficoltà generale è difficilmente recuperabile e
richiederebbe ben altri impegni e risorse di quelle che i tedeschi
vogliono o sono in grado di concedere; e dall’altro il processo
di integrazione delle esigenze operaie e l’individuazione di
interessi generali è andato troppo avanti.
Ritornando
all’intera sequenza degli scioperi nel corso del 1943 dal punto
di vista dei comportamenti operai possiamo rilevare, oltre alla
dimensione politica di cui si è cercato di individuare il
profilo innovativo, altri elementi che sono il portato di processi di
mutamento dentro la realtà operaia. Intanto la disponibilità
alla mobilitazione di quote rilevanti di operai soprattutto, ma non
solo, nei grandi centri industriali, che spiega la rapidità
con cui le iniziative di sciopero che hanno uno scarso tasso di
organizzazione si estendono con modalità imprevedibili. La
rapidità della mobilitazione insiste su alcune motivazioni di
fondo comuni, che si evidenziano dopo l’occupazione tedesca e
che hanno progressivamente unificato verso il basso, le condizioni di
via e di lavoro degli operai: le differenze di qualifica e di salario
sono assorbite dall’aumento dei prezzi dei beni, le condizioni
generali di esistenza delle famiglie dei lavoratori si fanno pesanti
per tutti: i viveri razionati non bastano più mentre i prezzi
al mercato nero diventano inavvicinabili per i salari operai. Nelle
fabbriche il deterioramento progressivo delle condizioni di vita si
accompagna o con un accresciuto rischio di licenziamenti o con una
intensificazione dei ritmi e allungamento degli orari di lavoro, a
cui si aggiunge il dissesto generale dei trasporti, la necessità
per molti di abbandonare ogni sera i centri soggetti ai
bombardamenti, sottoponendosi a fatiche di trasferimenti in
condizioni gravemente disagiate.
Un
secondo elemento caratterizzante è dato dal fatto che in tutti
e tre i momenti di conflitto aperto l’iniziativa operaia si
scontra direttamente con l’autorità dello stato,
fascista nel marzo, monarchico militare nell’estate, tedesco e
fascista nella versione repubblicana nell’autunno. Gli
strumenti di mediazione o non ci sono o non funzionano e dunque la
partita si fa immediatamente politica. Il dato interessante è
che in tutte e tre le situazioni gli operai non escono sconfitti, ma
in qualche modo il potere deve cedere perché non ha soluzioni
diverse, anche se la via della repressione verrà perseguita.
In marzo con numerosi arresti, nell’agosto con interventi
dell’esercito di fronte ad alcune fabbriche, con atti di
repressione ancora sporadici nell’autunno, ma che porteranno
all’uccisione di due operai a Genova e altrettanti nel
Biellese, segno di una tendenza alla radicalizzazione dello scontro,
che nei mesi successivi crescerà con le prime deportazioni
operaie nel gennaio febbraio 1944 da Genova e da Torino.
Dunque
per il 1943 la politicizzazione del conflitto non sta nelle parole
d’ordine degli scioperi, ma nel fatto che gli scioperi
costituiscono una sfida, un atto di volontà che il potere,
nelle tre varianti ricordate, contrasta, perché li sente come
atti di insubordinazione. E’ la natura del contesto in cui
maturano gli scioperi che fa loro assumere la valenza di atti
politici, ma c’è un dato generale che li accomuna: è
la dimensione della guerra( la guerra di Mussolini, la guerra di
Badoglio, la guerra di Hitler) che li rende eversivi perché
potenzialmente rappresentano la dissociazione di una componente
sociale necessaria alla guerra dalle priorità strategiche di
chi detiene il potere. Questo dato ci dice che dentro i comportamenti
operai sono avvenuti dei mutamenti che vanno nella direzione della
crescita della solidarietà tra le componenti del mondo
operaio. Sono le stesse richieste operaie a confermare questo dato
perché puntano su aumenti uguali per tutti, quando non sulla
distribuzione diretta di viveri per aggirare l’effetto
dell’inflazione che taglia la capacità d’acquisto
dei salari. E le risposte che vengono date finiscono per riconoscere
questa condizione comune. Ma il riconoscimento per gli operai
comporta di volta in volta la crescita della consapevolezza del
proprio ruolo e quindi anche la possibilità di giocarlo con
più forza. D’altra parte nella sequenza degli scioperi è
identificabile una capacità crescente di gestire lo spazio di
contrattazione: le incertezze del marzo 1943 nell’autunno
diventano capacità notevoli di gestire il conflitto e di
portarlo a esiti che nelle condizioni date sono rilevanti, fino al
risvolto inedito dell’autorità tedesca che tratta con
gli operai , perché sarebbe controproducente procedere con la
forza in un paese che si cerca di presentare recuperato con Mussolini
alla causa della guerra contro gli anglo americani. La conclusione
positiva degli scioperi è certamente il risultato di una
congiuntura eccezionale per cui sia la RSI, sia i tedeschi per
ragioni diverse sono alla ricerca di un rapporto positivo con gli
operai: i secondi per portarli a produrre per il Reich, la prima per
recuperare sostegni aduna scelta radicale che ha tagliato i ponti con
le vecchie alleanze sociali. Ciò non toglie che l’impressione
di fronte all’estensione, alla durata e alla determinazione
degli scioperanti sia grande. In particolare per i partiti
antifascisti è la scoperta di uno spazio di opposizione dalle
potenzialità enormi. Qualche cosa di diverso e lontano
dell’antifascismo motivato da opzioni politiche consapevoli o
da scelte di vita radicali come la scelta armata, che non possono
essere che di minoranze, ma un antifascismo diffuso, che ha una base
sociale estesa e identificabile, connesso alle condizioni di vita e
di lavoro, ma anche motivato da una spinta di ribellione nei
confronti di ciò che rende l’esistenza insopportabile:
una condizione che, come facile prevedere, peggiorerà.
E’
un antifascismo che sorprende le componenti politiche clandestine,
che hanno qualche presenza nelle fabbriche: i comunisti certamente,
ma anche gruppi di azionisti e socialisti. Tutti devono ammettere di
non avere né previsto, né guidato il movimento di
sciopero, ma nei casi migliori di averlo al massimo assecondato a
posteriori, senza poter svolgere un ruolo guida. Di più, nella
riflessione dei quadri comunisti più consapevoli viene messa
in discussione la strategia del partito che dopo l’8 settembre
ha orientato la quasi totalità degli sforzi organizzativi per
la costituzione delle bande partigiane, senza avvertire la
disponibilità alla mobilitazione di un fronte di opposizione
dentro il cuore delle città, dove più forte era
lapresenza di tedeschi e fascisti. Per i comunisti diventa un punto
d’onore il recupero di un rapporto pieno con gli operai, che
sono o dovrebbero essere il referente sociale di ogni elaborazione
politica e ideologica. Lo faranno proponendosi come promotori ed
organizzatori dello sciopero generale del marzo 1944.
Dal
marzo 1944 all’insurrezione
Nel lungo
ciclo delle lotte operaie, lo sciopero del marzo 1944 è stato
definito il primo sciopero politico, nel senso che questa
caratterizzazione non è data solo dal contesto in cui esso
avviene, ma è un atto di scelta e di volontà, che
comporta la definizione di un programma, la preparazione, la
conduzione dell’azione e, infine, la conclusione e insieme la
gestione del significato dell’azione condotta. E’ uno
sciopero politico perchè come tale lo percepiscono tutte le
componenti, sia antifasciste (i partiti antifascisti, anche con gradi
diversi di coinvolgimento e l’organo politico della resistenza,
il CLN), sia fascisti e tedeschi, che giocano tutte le carte
disponibili per impedirne l’attuazione o per attenuarne
l’impatto, dalle ferie anticipate in molte fabbriche alle
minacce di repressione dura, all’attuazione di tali minacce con
arresti e deportazioni. E’ infine uno sciopero politico perché
prevede per la prima volta degli interventi armati a sostegno
dell’azione operaia, non solo dei gap, già attivi nelle
maggiori città, ma di forze esterne, prefigurando, sia pure
con modalità sperimentali, il modello di una possibile
strategia insurrezionale che deve muovere insieme le forze interne
alle città e le forze esterne. Nel marzo 1944 il modello è
appena abbozzato; gli interventi esterni risulteranno limitati. Ciò
non toglie che la possibilità metta in grande allarme
tedeschi e fascisti. Così, ad esempio, a Torino al termine del
secondo giorno di sciopero, spaventati dall’attivismo
partigiano nelle valli attorno alla città, i tedeschi stanno
per attivare un piano di repressione su larga scala, piano che
rientrerà per l’attenuarsi della tensione. Comunque lo
sciopero è un successo per le forze antifasciste, malgrado la
propaganda fascista ne sottolinei il sostanziale fallimento. Che lo
sciopero annunciato porti al blocco simultaneo dell’attività
di centinaia di fabbriche in tutto il nord e anche al centro è
un risultato, che anche la stampa internazionale non mancherà
di rilevare come un segno della crisi del potere di fascisti e
tedeschi. L’assenza di alcune aree( le più significative
saranno Genova e il Biellese, per la pesante repressione subita nel
mese precedente) è ampiamente compensata dalla estensione
dello sciopero a località e fabbriche non coinvolte in
precedenza; nè le incertezze riscontrabili in più
situazioni e i limiti evidenti dell’intervento delle formazioni
partigiane non mettono in discussione il risultato. Giustamente la
stampa clandestina, comunista socialista, azionista, sottolineano ed
esaltano la valenza antifascista generale dello sciopero, ma forse i
segnali più interessanti dal punto di vista delle reazioni
interne vengono da alcuni industriali, che nella prova dello sciopero
colgono l’anticipazione di un esito ormai possibile della fase
dell’occupazione e del braccio di ferro interno tra fascismo e
antifascismo.
Senza
entrare in un’analisi dello sciopero e degli aspetti anche
critici rilevati nelle giornate immediatamente successive, è
opportuno riprenderne alcuni aspetti sia generali che specifici che
produrranno sviluppi importanti. Su un piano generale va rilevato che
lo sciopero di marzo si pone come uno spartiacque nell’evoluzione
del movimento di resistenza e nella strategia di contenimento e
repressione condotta da tedeschi e fascisti. L’azione di
repressione condotta nelle fabbriche brucia ogni residua possibilità
di rapporto con la RSI, definisce i limiti della disponibilità
tedesca alla trattativa, mette in imbarazzo le direzioni aziendali
nelle cui fabbriche avvengono atti repressivi. Per converso produce
una spinta alla crescita della solidarietà tra gli operai,
apre spazi all’iniziativa dei partiti antifascisti, accresce le
attese nei confronti della lotta armata partigiana. Che il passaggio
abbia una valenza di ordine generale è fuori di dubbio. I
timori di una saldatura tra movimento antifascista nelle fabbriche e
movimento partigiano esterno per la prima volta concretatisi nelle
iniziative per quanto limitate verificatesi nel corso dello sciopero,
portano alla definizione di una strategia repressiva guidata dai
tedeschi, ma che coinvolge le forze della RSI in una catena di
rastrellamenti e di violenze su partigiani e civili senza fine.
La
radicalizzazione dello scontro è percepibile in ogni contesto
dell’Italia occupata ed è un fattore da tenere in conto
perché scava un fossato sempre più ampio tra
popolazione, forze occupanti e fascisti della RSI, mentre il fronte
della guerra si rimette in movimento e nelle le file partigiane
entrano quote delle leve giovani chiamate alle armi dalla RSI. Siamo
di fronte ad una passaggio di fase su più piani che
ridefinisce i contorni complessivi dell’esercizio del potere
nei territori controllati da tedeschi e fascisti.
Interessante
è anche lo sviluppo della elaborazione interna al movimento
antifascista. I risultati dello sciopero producono due elementi
apparentemente contraddittori: da un lato la crescita di attenzione
da parte di tutte le forze antifasciste nei confronti della fabbrica:
si genera una concorrenza positiva nella ricerca del consenso operaio
alle varie opzioni di partito. Lo sciopero ha fatto scoprire o
riscoprire la fabbrica come il luogo della politica anche a
componenti antifasciste fino a quel punto marginali o comunque poco
attive; si è capito che in esse si gioca un’importante
partita che influenzerà sia l’uscita dalla guerra sia le
scelte del dopoguerra. Nello stesso tempo, lo sciopero ha anche detto
che sarà difficile se non impossibile ritentare una prova
generale come quella appena condotta se non come parte di un atto
conclusivo, l’insurrezione, che andrà preparata in ogni
suo aspetto. E’ già stato osservato che tra lo sciopero
del marzo e lo sciopero insurrezionale dell’aprile 1945 non ci
sarà più una prova di pari estensione; il che non vuol
dire che non ci siano più agitazioni, scioperi; anzi, a
partire dall’estate ci sarà una catena ininterrotta di
iniziative, ma in forma frammentata, non più coordinata da un
progetto generale. Nei punti in cui si tenta la generalizzazione sul
piano cittadino e provinciale, come avviene a Milano nell’autunno,
l’esito è deludente. Sembra di essere tornati indietro,
ai momenti in cui prevaleva la protesta spontanea su quella
organizzata. In realtà non è così e la verifica
puntuale delle situazioni delle fabbriche ci dice che rispetto
all’anno precedente ora le agitazioni hanno un elevato tasso di
organizzazione, ma un basso tasso di coordinamento generale perché,
di fronte ai radicali mutamenti nella produzione di guerra, alla
posizione sicuramente meno rilevante della forza operaia in un
contesto di declino produttivo, diventa più importante,
difendere l’occupazione, il salario, le condizioni di vita
sempre più dure situazione per situazione, fabbrica per
fabbrica piuttosto che tentare un confronto a tutto campo. Il calo
dell’attività produttiva si fa marcato dalla fine
dell’estate 1944, quando appare possibile una rapida avanzata
alleata fino alla pianura padana. I tedeschi diminuiscono il flusso
delle materie prime a aumentano la pressione per trasferire uomini e
macchinari, beni e materiali in Germania.
. In
questa situazione difficile e confusa gli operai non sono più
soli: non solo perché la spinta partigiana è cresciuta
nel corso dell’estate, ma perché altri soggetti sono
entrati nel confronto politico e sociale: i contadini, braccianti e
mezzadri, e, sia pure in forme non clamorose, una quota di
industriali, di quadri alti dell’economia interessati a
difendere la propria forza lavoro e le imprese così come ad
acquisire benemerenze antifasciste da spendere in un’Italia che
sarà liberata in tempi ormai non troppo lontani.
L’antifascismo
degli operai
Da parte
delle autorità fasciste i comportamenti degli operai che
protestano e scioperano, poiché non possono essere spiegati
come atti che hanno alla loro origine la guerra e gli effetti che
essa produce sull’esistenza degli operai e delle loro famiglie,
verranno quasi sempre attribuiti alle manovre e all’attività
disgregatrice dei nemici principali del fascismo, ossia i comunisti.
Il complotto comunista diventa così, nell’immaginario
fascista, la spiegazione, ma anche il luogo comune, lo stereotipo che
impedisce di capire cosa sta succedendo nella società
italiana. La semplificazione politica per cui l’operaio che
sciopera o è un comunista o è un ingenuo irretito dalla
cospirazione comunista, in realtà è il risultato di una
diffidenza mai superata da parte del regime nei confronti degli
operai, la componente sociale con più fatica ricondotta sotto
il controllo politico del regime. Ne deriva una dilatazione non
voluta, ma non per questo meno efficace, del ruolo che effettivamente
ebbe la presenza dei comunisti negli scioperi del marzo 1943.
L’impossibilità di riconoscere le ragioni della protesta
come un atto di conflittualità sociale, non riconducibile
sotto la categoria dell’eversione comunista, produce l’effetto
di politicizzare tale conflittualità al di là delle
intenzioni e dei progetti che sono riconoscibili nei gruppi operai
attivi nella protesta. Chi scorra la comunicazione tra i responsabili
del sindacato fascista nelle fabbriche e nelle strutture periferiche
e il centro resta colpito dallo scarto tra la capacità di
rilevazione della concreta realtà della condizione operaia,
l’approfondimento analitico delle condizioni di lavoro, delle
retribuzioni, delle qualifiche professionali e infine delle
condizioni di vita compromesse dalla guerra, e l’incapacità
di formulare una qualunque proposta di soluzione. Ai sindacalisti di
base non resta che appiattirsi sulle scelte di partito, anche quelle
più duramente repressive, o uscire dal ruolo passivizzandosi o
addirittura sostenendo le richieste operaie, scelta tutt’altro
che infrequente, come ci dicono le cronache del marzo 1943.
A
confondere le valutazioni di parte fascista sulla presenza comunista
nelle fabbriche sta infine un fattore rilevante, ossia la crescita
tra gli operai del mito dell’Unione sovietica e di Stalin.
L’uno e l’altro alimentati dai successi ottenuti
dall’Armata rossa sul fronte orientale, dalla vittoria di
Stalingrado in poi, all’avanzata che pare inarrestabile verso
il cuore del Reich. In realtà la gran parte degli operai sa
poco o nulla dell’Unione sovietica se non filtrato dalla
propaganda fascista. La simpatia per i sovietici non è di tipo
ideologico se non nelle minoranze esigue politicizzate; è
piuttosto il fascino di una realtà, che sembrava condannata e
che si rivela in grado di mettere in difficoltà la potente
macchina da guerra tedesca. Ma se la spiegazione del complotto
comunista non spiega granchè dei comportamenti operai e se i
riferimenti a Mosca non sono nei discorsi operai il risultato di
indottrinamenti ideologici, allora che cosa mette gli operai contro
il fascismo? Esiste un antifascismo operaio e che cos’è?
A queste domande è stata data una risposta che identifica
nell’antifascismo esistenziale l’opposizione al fascismo
come esito del divaricare degli interessi del regime da quelli della
classe operaia. E’ una risposta certamente importante perché
da un certo punto in poi individua nel fascismo l’origine delle
difficoltà, e nella guerra la condizione, da cui è
necessario uscire. E’tuttavia un antifascismo diffuso,
condiviso da ampie categorie e settori di popolazione e non solo
dagli operai, anche se questi ultimi sono quasi i soli per un lungo
tratto a tradurre in atteggiamenti e scelte attive questi sentimenti.
E tuttavia nei comportamenti operai si riscontrano degli ulteriori
elementi che concorrono a rendere più complesso il concetto di
antifascismo. Intanto c’è un elemento di ordine generale
che si attiva quando gli operai si trovano a dover rispondere a
comportamenti impositivi da parte di tedeschi e fascisti e poi da
comportamenti repressivi sempre più pesanti. E’ quanto
avviene all’interno dell’esperienza degli scioperi che
spesso vedranno fronteggiarsi fascisti e operai. Questo trovarsi
faccia a faccia con i fascisti di Salò che da una parte
invocano la collaborazione, ma dall’altra minacciano,
reprimono, arrestano, deportano, importa poco se per conto proprio o
come più spesso avviene per conto dei tedeschi, produce
inevitabili reazioni di rifiuto e di conflitto. Questa violenza
programmata e deliberata alimenta un antifascismo che scopre nei
comportamenti fascisti quell’ostilità di classe che era
nel dna del fascismo delle origini, che nel ventennio era rimasta
coperta e orientata contro l’opposizione politica al fascismo,
ma che la situazione esasperata ed esasperante della guerra riporta a
galla. I costi di questo antifascismo sono elevati : forse non si
considera adeguatamente il fatto che delle migliaia di deportati
politici e razziali, soprattutto nel corso del 1944, la quota
assolutamente più alta è costituita da operai. Una
parte, più fortunata, finirà nei campi di lavoro e
nelle fabbriche tedesche, ma molti conosceranno il campo di sterminio
e di questi molti non torneranno. Questo antifascismo ha una valenza
universale perché accomuna i perseguitati operai ai deportati
politici e razziali.
Ma c’è
da considerare anche un’altra componente su cui forse non si è
riflettuto adeguatamente ed è data dal fatto che le difficoltà
della guerra e poi le tensioni generate dalle iniziative di
autodifesa producono una crescita della percezione della fabbrica
come comunità, come luogo in cui si attivano forme diffuse di
solidarietà. La fabbrica di per sé è una
struttura funzionale finalizzata agli obiettivi della produzione, ma
se fattori esterni allentano il controllo che è necessario per
garantire il funzionamento dell’organizzazione produttiva,
emergono allora comportamenti e forme relazionali non finalizzate
all’obiettivo funzionale, ma piuttosto orientate alla difesa e
alla protezione degli appartenenti alla comunità di lavoro. E’
quanto avviene in molte fabbriche e particolarmente a partire dalla
seconda metà del 1944 quando gli obiettivi produttivi, già
ridotti, non possono più essere perseguiti perché
mancano le materie prime da lavorare. Nelle testimonianze operaie
emerge questa dimensione della solidarietà tra i compagni di
lavoro orientata a perseguire un obiettivo: salvaguardare, anche con
il coinvolgimento delle direzioni aziendali, le possibilità di
sopravvivenza delle maestranze. Ne derivano comportamenti e modalità
di rapporto dentro la fabbrica che in qualche modo definiscono
un’identità di fabbrica differenziata da situazione a
situazione e spesso fortemente connessa con il contesto che sta
attorno alla fabbrica. Ne deriva anche uno spazio di intervento dei
partiti antifascisti, che costruiscono, è il caso dei
comunisti, forti relazioni dentro la fabbrica nella misura in cui si
rivelano capaci di interpretare le esigenze della comunità
operaia e di offrire soluzioni alternando momenti di conflitto a
momenti di mediazione e di contrattazione con le direzioni aziendali.
Il linguaggio radicale e classista che spesso si ritrova nella stampa
clandestina dell’epoca, nasconde in realtà un ampio
spazio di mediazioni complesse e articolate, anche su questioni che
possono apparire marginali (distribuzioni di viveri, di materiali di
consumo, dai vestiti al sapone alle gomme delle biciclette), ma che
nelle condizioni date sono preziose e consentono di tirare avanti. E’
in questa difficile situazione che caratterizza le fabbriche del nord
nella fase finale della guerra che si genera il terreno di coltura in
cui si salda il rapporto tra partito comunista e classe operaia (per
esprimersi con una sintesi stereotipata) o il rapporto tra una
componente operaia che si politicizza facendo propri obiettivi e
progetti del partito comunista e la massa operaia che le fornisce un
consenso crescente(per usare una descrizione più complessa, ma
più vicina ai processi reali che portano alla nascita del
partito di massa).
Il
partito e la questione nazionale
Come è
noto il partito comunista inizia la sua esperienza nella guerra come
un organismo minoritario di poche migliaia di militanti, di cui una
parte piccola attiva e una parte più consistente in carcere,
pesantemente provato da una lunga e sfortunata storia di opposizione
attiva al fascismo e la conclude come un’organizzazione che si
è trasformata in un partito di massa, con centinaia di
migliaia di iscritti, migliaia di militanti e di quadri e soprattutto
un solido insediamento nella società italiana, in particolare
tra gli operai delle fabbriche, i braccianti e i mezzadri nelle
campagne. Di qui l’immagine di una organizzazione che alla
testa degli scioperi nelle fabbriche e a partire dalla primavera
1944, delle lotte dei braccianti e mezzadri nelle campagne del nord e
del centro oltre che componente forte della lotta partigiana
raccoglie i frutti di questa eccezionale battaglia politica.
L’eccezionalità della battaglia produce l’eccezionalità
del risultato. In realtà questa immagine è appunto
un’immagine che non dà conto né della complessità
del percorso durante il ventennio e delle contraddizioni che l’hanno
segnato, né della complessità del percorso negli ultimi
anni della guerra, né del processo straordinario che realizza
la trasformazione del partito. Sulle difficoltà del rapporto
con gli operai si è già detto qualcosa nella
valutazione degli scioperi e di come esso sia stato almeno fino al
marzo 1944 assai problematico. Tanto che il salto al partito di massa
risulta a prima vista quasi inspiegabile.
Da questo
punto di vista si può ragionevolmente sostenere che per un
lungo tratto, grosso modo dagli scioperi del marzo 1943 fino alla
preparazione dello sciopero generale del marzo successivo, quindi per
un anno, il partito non è in grado di strutturare una presenza
nelle fabbriche che lo renda promotore e avanguardia delle iniziative
di sciopero e di gestirne i risultati. Nelle fabbriche i militanti
sono pochi ed esposti alla repressione, come avviene pesantemente
negli scioperi di marzo 1943. Grazie alla liberazione dei militanti
comunisti da parte del governo Badoglio alla fine di agosto 1943, il
partito può improvvisamente fruire della risorsa preziosa di
dirigenti e di militanti di verificata esperienza. Nessuna altra
componente antifascista può disporre di una riserva di energie
comparabile. Tuttavia l’innesto di questa risorsa nel partito
non è senza problemi sia per la situazione di emergenza che si
crea con l’8 settembre, sia per le incertezze di linea politica
che ne derivano: nella scelta della lotta armata, delle alleanze
necessarie per condurla, degli obiettivi da perseguire in una
situazione complessiva difficile. Significativi sono i contrasti
anche dentro le fabbriche tra una scelta di partito che sostiene la
necessità di ricostituire le commissioni interne e
l’atteggiamento di prudenza sia dei militanti, sia degli operai
che non vogliono esporsi in una situazione che presenta incognite
drammatiche, in primo luogo per quanto riguarda la conclusione della
guerra. Il governo Badoglio accetta di rilasciare i politici, ma non
gli operai arrestati durante gli scioperi del marzo, perché il
reato di cui sono accusati è di attività antinazionale,
in altre parole di tradimento. Nè va dimenticato che i quadri
rilasciati devono prendere confidenza con le situazioni in cui sono
inseriti, nelle quali il lavoro organizzativo è da riprendere
dalle basi, spesso andando a sostituire compagni che per imperizia o
debolezza non hanno dato grandi prove di sé nella fase
precedente. Infine, va anche detto che fino agli scioperi che
scoppiano a Torino, Milano, Genova tra novembre e dicembre il fronte
della fabbrica è considerato secondario rispetto a quello
della lotta armata, perché l’occupazione tedesca rendeva
molto improbabili conflitti sociali significativi dentro le grandi
città del nord. Gli scioperi di novembre e dicembre
costituiscono una smentita clamorosa di una tale impostazione per cui
il gruppo dirigente clandestino, che a Milano coordina l’attività
di partito, avvia un mutamento di rotta che lo porterà a
mettere in discussione il profilo del partito come partito di quadri,
di pochi militanti selezionati, uno strumento efficace forse per
sopravvivere alle durezze della lotta clandestina, ma inefficace nel
governare processi di massa, che richiedono una strumentazione
organizzativa complessa e diversificata. Nella situazione di cui
stiamo parlando non si tratta di riflessioni teoriche, ma di
conclusioni a cui il gruppo dirigente di Milano arriva sull’onda
di un’esperienza amara a cui cerca di mettere riparo innovando
metodi e forme dell’attività di partito, in primo luogo
promuovendo da subito un rapporto con quegli operai che si sono
rivelati naturali guide nelle agitazioni degli operai. Non più
la preparazione politica ideologica e la verifica dell’orientamento
dei militanti da iscrivere nel rispetto del canone marxista
leninista: in primo piano viene la capacità di iniziativa e di
mobilitazione. La politica prima dell’ideologia e
dell’organizzazione. Si tratta di un salto teorico e pratico
che rovescia la concezione del partito quale si era definito nel
primo dopoguerra. Può essere interessante rilevare che questa
riflessione sul partito avvenga quasi contestualmente
all’elaborazione che porterà Togliatti a quel passaggio
decisivo nella vita del partito costituito dalla svolta di Salerno.
Senza riprendere una discussione che ha avuto in sede storiografica
uno sviluppo adeguato, qui ci importa registrare come per una strada
completamente diversa da quella seguita dal segretario del partito
comunista italiano, si determini l’esigenza di un mutamento
organizzativo e politico, della strategia del partito. Nelle
fabbriche del nord, i militanti comunisti e dirigenti del partito
clandestino, che si erano posto il problema di recuperare un rapporto
attivo con le masse operaie, sono in qualche modo costretti ad
anticipare alcuni elementi sostanziali della svolta di Salerno, da un
lato aprendosi ad un rapporto con quanti sono disponibili a battersi
subito contro tedeschi e fascisti, dall’altro strutturando
nella fabbrica e nei contesti di socializzazione operaia forme
organizzative in grado di coinvolgere la massa operaia. L’aver
sottovalutato il potenziale di contestazione rivelato dagli scioperi
costituisce un errore politico gravissimo per chi ama definirsi come
avanguardia del proletariato: di qui il ripensamento dell’intero
percorso compiuto e la definizione della necessità di
canalizzare il malcontento espresso dagli scioperi. Il problema è
come riversare il potenziale di contestazione degli operai contro il
regime di occupazione, fino alla scelta estrema dell’insurrezione
armata. Il dato interessante è che questa riflessione viene
prima delle indicazioni di Togliatti e matura tra la fine
degli scioperi del dicembre 1943 e la proclamazione dello sciopero
generale del marzo 1944, in polemica esplicita con le scelte che la
direzione romana del partito sta compiendo nello stesso torno di
tempo.
Quando
arriva l’autorevole indicazione di Togliatti a costruire il
partito nuovo, nelle fabbriche del nord il processo è già
avviato attraverso due strumenti principali, la costituzione dei
comitati di agitazione e l’articolazione periferica dei cln. I
comitati di agitazione sono lo strumento che raccoglie un numero
rilevante di operai, per lo più giovani non bruciati da
militanze politiche precedenti, che in tutte le fabbriche nelle prove
degli scioperi del 1943 sono emersi come i leader naturali nel
sostenere le rivendicazioni, nella contrattazione con le aziende e
con i tedeschi, senza lasciarsi inquadrare, come vorrebbero i
fascisti, in forme di rappresentanza stabili. I comitati di
agitazione sono strutture aperte in cui si entra sulla base della
credibilità acquisita nei confronti della base operaia senza
vincoli politici; non sono organi sindacali, ma agiscono per tutelare
gli interessi operai, non sono organi politici, ma nelle condizioni
date portano dentro di sé una carica di contestazione agli
assetti di potere costituiti, di fatto una carica antifascista e
antitedesca. I quadri migliori, così selezionati, vengono
invitati ad assumere responsabilità politiche nelle strutture
di partito che si vogliono rinnovare. Il travaso di energie funziona,
non senza i mugugni di una parte dei vecchi militanti che diffidano
dell’inesperienza dei nuovi arrivati, ma che non possono fare a
meno di riconoscere la spinta propulsiva indotta dai “nuovi”,
che è esattamente quanto la direzione del partito si
aspettava. Il dato importante di questi passaggi, che si concentrano
in tempi relativamente brevi, è che sono i movimenti operai,
le logiche interne alla fabbrica a dare forma nuova alle strutture
politiche, a condizionarne l’impostazione e la crescita. Si
tratta di un punto di straordinario rilievo perché nella
relazione classe partito, per dirla con una formula sintetica oggi in
disuso, è il primo elemento, la classe, che conta di più.
Per altro questa torsione è verificabile anche in altre
esperienze di costruzione o di rifondazione di quei partiti, che
hanno riferimenti nel mondo delle fabbriche. Così avviene per
il partito socialista, costretto sotto la pressione della concorrenza
dei cugini comunisti, a ripensare almeno in alcune sue componenti il
suo rapporto con il mondo operaio; un analogo processo tocca anche il
partito d’azione, che non a caso nelle realtà in chi è
più vicino alla esperienza di fabbrica, subisce una torsione,
che come avviene con più evidenza nella esperienza torinese,
ne marcherà gli sviluppi successivi.
Il
partito nuovo
Nei mesi
che vanno dalla fine dell’estate 1944 alla liberazione prende
forma il partito di massa. La costruzione del partito assume nel
contesto della fabbrica un carattere che ne marcherà a lungo
l’identità e ne condizionerà la capacità
di presa sulla società italiana. Gli elementi che stabiliscono
una connessione operativa tra la parola d’ordine del partito
nuovo e la sua realizzazione nelle fabbriche del nord, sono numerosi
e in una sequenza tutt’altro che lineare. Vi concorrono la
dimensione sindacale come la difesa delle esigenze elementari degli
operai; le forme di protezione dalle minacce di deportazione fino
alla strutturazione di strumenti di autodifesa, la neutralizzazione
di nemici politici e l’attività di propaganda, la
strutturazione di squadre armate e la connessione con le forze
partigiane; la dimensione politica con la costruzione di strumenti di
coinvolgimento di altri componenti sociali e politiche, stimolate da
una spinta concorrenziale, non priva di frizioni, ma efficace nel
promuovere l’attività di ogni componente.
Il tutto
in una situazione di contesto che registra due fatti importanti: da
un lato il passaggio di fase costituito dalla liberazione di Roma e
dalle ripercussioni generali che fanno intravedere una conclusione
della guerra non lontana e dunque la necessità di prepararsi
al dopo; dall’altra, a rinforzo, la spinta derivante
dall’estate partigiana che vede crescere rapidamente le proprie
forze e aumentare la propria attività e pericolosità.
L’approssimarsi della guerra alle regioni settentrionali muta
le prospettive di sfruttamento della produzione industriale italiana
da parte dei tedeschi e li spinge a smantellare alcuni impianti, a
portare via beni e semilavorati, e anche la risorsa viva costituita
dagli operai e particolarmente dagli operai specializzati da
impiegare nelle fabbriche del Reich.
Così
alle preoccupazioni di licenziamenti e trasferimenti si accompagnano
la deportazione, in alcuni casi portata a termine (vedi il caso di
Genova nel giugno 1944), in altri solo tentata, di migliaia di
operai. Di qui la ricerca di strade di difesa attiva sia per impedire
ulteriori attacchi, sia per difendere chi deve pur lavorare per
vivere. E’ in questo nodo di problemi, di rischi, di pericoli
che si attiva l’iniziativa di quanti non accettano di subire la
situazione. E poiché i militanti comunisti si espongono in
prima persona per dare voce alle difficoltà operaie, per
contrastare i pericoli, per attivare la solidarietà di
industriali interessati a salvaguardare i propri lavoratori, a
suggerire forme di organizzazione che fanno perno sulla comune
condizione che riduce ogni differenza nelle gerarchie di fabbrica,
per tutto questo e per molto altro il riferimento ai comunisti
diventa naturale per gran parte dei lavoratori. Ed è ciò
che dà senso all’operare di molti, per i quali la scelta
di partito diventa il naturale completamento di ciò che stanno
già facendo. Ciò che si intende sottolineare è
l’eccezionalità del contesto dentro cui matura la scelta
politica di quella che sarà chiamata la “leva
dell’insurrezione” e nello stesso tempo la capacità
di stare vicino e dentro la condizione operaia in una situazione in
cui l’orizzonte ultimo è la fine della guerra, e
l’insurrezione la conclusione di una condizione di esistenza
insostenibile, un atto finale di liberazione.
Ma sul
piano del partito l’immissione nelle strutture sindacali e
negli altri organismi presenti nella fabbrica di quote rilevanti di
giovani produce l’inevitabile effetto di una polarizzazione tra
le istanze di direzione del partito, che restano nelle mani dei
dirigenti più provati e sperimentati sul piano politico e
ideologico, e le istanze di base, (di partito, ma anche unitarie) in
cui è dominante la presenza di quadri operai, il cui tratto
principale è la capacità di interagire con la massa su
questioni che riguardano la quotidianità e la capacità
di agire malgrado e a volte contro le minacce di tedeschi e fascisti.
L’antifascismo di questi giovani quadri si alimenta della
condizione di classe, ma non ne è il portato esclusivo se non
in situazioni, sempre più rare, in cui il padrone o il
dirigente di fabbrica sposa la causa di un fascismo ormai destinato
alla sconfitta. Ovviamente tra queste due polarità convivono
sfumature diverse, come la presenza di quadri più maturi, più
sensibili alle esigenze della base che al richiamo dell’ideologia,
o viceversa quadri di base più rigidi nella salvaguardia dell’
identità di classe e delle formulazioni ideologiche
dell’ortodossia di partito. Ma il punto è che sugli uni
e sugli altri agisce la lezione dei fatti e dell’esperienza
quotidiana, che stabilisce priorità e indica scelte in un
rapporto continuo con la realtà e la condizione operaia.
Questo elemento dà all’iniziativa dei comunisti un
carattere di concretezza e di capacità operativa che anche i
concorrenti politici in fabbrica sono costretti a riconoscere e in
qualche modo a imitare o comunque a sostenere. Su un piano più
generale questo elemento di fondo ci dice che la costruzione del
partito di massa è un processo complesso in cui le direttive
dall’alto certamente forniscono le coordinate generali, ma che
vengono adattate da un continuo e progressivo allineamento alle
esigenze operaie. Con alcune conseguenze di rilievo: la prima è
che il carattere del partito nuovo è quello di un partito
operaio, che si porta dentro un elemento di forte omogeneità,
ma anche di forte caratterizzazione sociale e culturale. Le denunce
sui caratteri operai eccessivamente marcati del partito in
costruzione vengono da dirigenti di primo piano, anche da quelli più
nettamente orientati da impostazioni ideologiche tutt’altro che
interclassiste.
Il
problema affiora esemplarmente nelle difficoltà a costruire
all’interno delle fabbriche o nei quartieri operai gli
strumenti politici che dovrebbero elaborare la politica dell’alleanza
antifascista. La costruzione dei cln di fabbrica o di quartiere, in
effetti, trova molte difficoltà; solo raramente questi
organismi politici unitari riescono ad esprimere un’attività
significativa. Il rifiuto o la scarsa disponibilità degli
operai a entrare e a operare in questi organismi è stata letta
come un segno della radicalizzazione in senso classista delle
posizioni operaie. In parte è così, ma, forse, non è
stato valutato adeguatamente un altro fattore e cioè che il
mondo operaio nella realtà delle città industriali
costituisce un qualcosa di separato, fisicamente nella struttura
delle città dove i quartieri operai hanno confini ben
delimitati, e ancora di più sul piano delle gerarchie sociali.
E’ un dato culturale, che ha una storia non breve, certamente
rinforzato dalle ribadite differenze gerarchiche del fascismo, ma
esistente da prima, tanto da costituire un elemento identitario, che
segna un’appartenenza. Il modo di vestire, di abitare, di
parlare, in una parola di vivere ne fanno una componente separata
dal resto della società, in qualche modo fiera della propria
identità e poco disposta a confrontarsi con altri. La
differenza non sta solo dentro i rapporti di produzione, ma esiste
anche al di fuori di essi, e dunque va rilevata con strumenti
culturali e non solo politico economici.
Il
rapporto con la lotta armata
Il
problema dell’insurrezione è il problema della
definizione del rapporto tra iniziativa operaia e lotta armata. Per
gli operai il rapporto con la lotta armata ha almeno due diverse
configurazioni e diverse varianti: l’operaio che porta le armi
nelle formazioni partigiane, oppure anche nella fabbrica nelle
squadre di azione patriottica (le SAP); in questo secondo caso si
tratta di minoranze per lo più selezionate da percorsi
particolari; infine l’operaio che condivide la lotta armata e
la sostiene non in forme dirette, ma fornendo supporto e sostegno a
chi impugna le armi.
L’operaio
che sceglie la strada della montagna, che fa il partigiano è
un dato importante dell’esperienza resistenziale italiana.
Intanto sotto il profilo numerico. Non è facile fare
valutazioni precise, ma certamente la componente operaia è
numericamente la più rilevante almeno per le aree partigiane
contigue agli insediamenti industriali. Assumendo il territorio
piemontese come riferimento per esemplificare, possiamo dire che la
quota di coloro che a vario titolo si definiscono lavoratori
dipendenti nell’industria e nel terziario o come artigiani,
costituisce la componente nettamente maggioritaria delle forze
partigiane. Di questa componente coloro che più precisamente
si definiscono come operai e operai specializzati sono circa il 30
per cento del totale. Considerando che il profilo socio-economico del
Piemonte di allora contava una presenza significativa di contadini,
la presenza operaia delle formazioni partigiane e nelle
organizzazioni paramilitari della resistenza piemontese è
certamente quella più significativa. Il che rinforza le
osservazioni fin qui condotte sulla rilevanza dell’antifascismo
operaio, che produce il più alto numero di partigiani, che
avrà il più alto numero di caduti e il più alto
numero di deportati.
Anche
nelle strutture paramilitari, ossia le organizzazioni che restano
legate sia all’ambiente produttivo, la fabbrica, ( le SAP di
fabbrica), sia al territorio la presenza operaia è dominante.
In Piemonte sono quasi 19 mila coloro che scelgono questo tipo di
militanza; di questi più di tre quarti militeranno nelle SAP
che fanno riferimento alle formazioni garibaldine; di questi la gran
parte proviene dalle fabbriche del capoluogo piemontese. Questo
aspetto della resistenza che è stato poco studiato, in realtà
ha un rilievo notevole intanto perché una parte minoritaria,
ma significativa di militanti delle SAP svolse una vera ed efficace
attività militare nell’autunno inverno 1944-45. La
ragione sta nel fatto che in quella fase della resistenza un numero
non piccolo di partigiani scende dalle montagne e si mimetizza nei
centri di pianura e nelle città o rientra in fabbrica, spesso
con la consapevole complicità delle direzioni aziendali e
continua l’attività di resistenza nelle file delle SAP,
producendo una crescita dell’efficienza militare, perché
si tratta di persone che sanno usare le armi e hanno acquisito
capacità operative. Una parte di loro nella primavera del 1945
rientrerà nelle formazioni partigiane, ma una parte resterà
nelle SAP e costituirà la parte più attiva nella difesa
delle fabbriche e nell’iniziativa contro tedeschi e fascisti
nelle giornate dell’insurrezione. Ma al di là
dell’apporto militare, ciò che importa rilevare è
che la SAP costituiscono il momento di collegamento e di rapporto tra
il movimento partigiano e la fabbrica; sono la struttura che consente
di costruire concretamente il progetto insurrezionale, che contempla
l’apporto esterno delle formazioni partigiane che devono
convergere sui maggiori centri da liberare, ma anche l’apporto
interno da parte delle fabbriche e delle strutture che sono state
preparate a questo difficile momento. Il compito di queste ultime
certamente il blocco dell’ attività produttiva, ma anche
di supporto armato se non altro per garantire la sicurezza delle
fabbriche che fanno da riferimento alle formazioni partigiane. Senza
aprire una riflessione a tutto campo sul tema dell’insurrezione,
si può tuttavia rilevare che rispetto al progetto elaborato
dalle forze della resistenza come un passaggio irrinunciabile per la
valorizzazione politica di un’esperienza durata 18 lunghi mesi
e costata una somma di sacrifici elevatissima, il risultato fu
positivo. Un esito per nulla scontato esposto com’era a rischi
interni ed esterni che ne avrebbero potuto comprometterne il successo
o ridimensionarne la portata. Non a caso le forze della resistenza,
prima di arrivare alla prova finale, vorranno verificare l’effettiva
disponibilità all’azione insurrezionale chiamando allo
sciopero nelle più importanti realtà industriali tutte
le categorie di lavoratori, delle attività produttive e dei
servizi. Questi scioperi preinsurrezionali daranno esiti convincenti
e di fatto segneranno il passaggio all’ultima fase della lotta
di liberazione. Nelle giornate dell’insurrezione il ruolo degli
operai risulta centrale e in alcune situazioni decisivo.
In
questa difficile partita il ruolo svolto dagli operai fu centrale e
per certe fasi, brevi, ma decisive, fondamentale. Anche in questo
caso con varianti notevoli legate strettamente alle esperienze dei
mesi precedenti, ma anche alle condizioni che si producono a ridosso
delle giornate della liberazione. Così si va dalla esperienza
compiuta dell’insurrezione di Genova, dove la resa dei tedeschi
avviene nelle mani dei quadri operai e di partito che hanno diretto
la lotta, alle vicende più contrastate e rischiose
dell’insurrezione a Torino, che fino all’ultimo resta
esposta al rischio di uno scontro senza quartiere, alle giornate
milanesi, dove l’abbandono del campo da parte delle forze
fasciste e tedesche facilita la liberazione.
Libertà
e eguaglianza
Nel
tirare qualche conclusione sul ruolo svolto dalle lotte operaie nella
vicenda italiana del 1943-45 si può partire dalla verifica del
giudizio che assegna all’iniziativa operaia un ruolo parallelo
a quello della lotta armata in un processo complessivo che integra i
due momenti. Questa valutazione sostenuta con argomenti forti da
Pietro Secchia richiede una rivisitazione, che ne rivela gli aspetti
deboli. Intanto perché lascia fuori le prime fasi degli
scioperi operai; in secondo luogo perché se una correlazione è
certamente individuabile in alcuni passaggi, è anche vero che
sono riconoscibili sfasature e distanze che non possono essere
ignorate e che richiederebbero per essere a pieno comprese una
rilettura critica complessiva, in cui ricomprendere e integrare anche
il lavoro di approfondimento condotto in anni recenti attraverso la
raccolta di testimonianze, storie di vita, documenti e memorie di
protagonisti, integrando il racconto storico con la dimensione della
soggettività, necessaria per cogliere aspetti raramente
restituiti dalla documentazione più tradizionale.
Un
secondo elemento da considerare con più attenzione è
costituito dal gioco delle differenze nei comportamenti operai in
rapporto al territorio e alle strutture. Le strutture industriali più
importanti sono innervate nel tessuto urbano delle maggiori città
del nord e dunque la cultura operaia prevalente è una cultura
urbana, anche se quote rilevanti di operai, uomini e donne, sono
immigrati, in prevalenza da contesti agrari sia del nord ( i
circondari delle grandi città, le province limitrofe, le
regioni dell’est, il Veneto, il Friuli), sia del centro,
soprattutto toscani, dal sud e dalle isole, anticipazione dei flussi
migratori degli anni Cinquanta. Le città industriali hanno
esigenze di vita che possono essere soddisfatte solo da sistemi di
approvvigionamento efficienti e sono comunque dipendenti dal rapporto
con la campagna mediato da strutture specializzate. In tempo di
guerra questo dato comporterà differenze sostanziali tra la
condizione di chi vive in città e chi vive in contesti non
urbani e dunque anche differenze notevoli nello strutturare risposte
attive nel corso della resistenza.
Un terzo
elemento di differenziazione è dato dalle dimensioni della
fabbrica. Nelle vicende degli scioperi è evidente il ruolo
giocato dalle maggiori concentrazioni industriali in generale e in
esse dagli stabilimenti in cui lavorano a volte migliaia di operai,
quella che è stata definita l’avanguardia di massa. E
tuttavia non mancano situazioni in cui si hanno manifestazioni di
sciopero radicali e prolungate in contesti in cui la fabbrica è
inserita in un territorio non urbano come avviene, ad esempio nelle
valli biellesi o in aree del milanese. In questi casi gioca un ruolo
rilevante ( ma è un tema da approfondire) la presenza di
culture politiche sedimentate nel tempo, una memoria collettiva che
ha conservato tracce delle esperienze di lotte sindacali e politiche
precedenti l’affermazione del fascismo. Infine in aree non
urbane industrializzate come possono essere molte valli pedemontane,
a volte si rivela un fattore decisivo la prossimità o meno di
formazioni partigiane attive, che hanno rapporti forti con gli operai
delle fabbriche locali. E negli stessi grandi centri industriali,
nelle fabbriche maggiori, ma anche in quelle di medie dimensioni che
spesso rivelano tassi di combattività molto elevati, giocano
fattori complessi di sedimentazioni di memorie, di presenze
antifasciste, di sensibilità politiche non evidenti, ma vive.
In qualche modo ogni fabbrica ha una sua storia e modalità
attraverso cui maturano comportamenti collettivi di contestazione o
di conflitto aperto.
Ma tutte
queste differenze e distinzioni che in sede analitica vanno
considerate e valutate non modificano il risultato complessivo di una
stagione di lotte, di conflitti, ma anche di elaborazioni e di
comportamenti che danno il senso di un agire collettivo attraverso
cui una parte rilevante del mondo operaio nel corso della parte più
dura della guerra arriva a esprimersi come un soggetto politico di
primario rilievo: in grado di condizionare i comportamenti dei suoi
avversari e infine di mettere il proprio segno di protagonista
sull’esito di una vicenda che risulterà fondante per ciò
che il paese sarà negli anni successivi. E’ difficile
pensare alle dinamiche complesse che caratterizzeranno il dopoguerra
italiano e poi gli anni dello sviluppo senza ritornare a quella
esperienza e a ciò che essa ha prodotto in termini di
consapevolezza sociale e politica. Centinaia di migliaia di persone
attraversano quell’esperienza, che è costata sacrifici
duri e per un numero non piccolo anche il sacrificio estremo,
passando dalla negazione di un’identità che il regime
fascista non poteva ammettere, all’affermazione di un’identità
che accanto ai tratti tradizionali del lavoro, porta anche il
progetto o l’esigenza della costruzione di un paese libero. Di
quel progetto si fanno portatrici più componenti politiche che
si richiamano al lavoro e alla base sociale costituita dagli operai
di fabbrica e dai lavoratori dipendenti. Alcune di queste non hanno
inscritto nel proprio dna la scelta liberal democratica come tratto
fondante e costitutivo. Una parte di queste continua a pensare il
futuro come orizzonte in cui va data prima risposta all’esigenza
dell’eguaglianza e della giustizia sociale piuttosto che a
quella della libertà, perché la società
capitalistica e diseguale e quindi ingiusta. E tuttavia c’è
da chiedersi perché queste tensioni, malgrado la durissima
fase del dopoguerra, che apre in continuazione occasioni di conflitto
di interessi e tensioni sociali, restino confinate in un orizzonte
del possibile , ma non del probabile. Capacità delle èlites
politiche che sanno guardare con realismo alla situazione e non sono
disponibili ad avventure destinate al fallimento. Certamente è
così, ma è una spiegazione ancora troppo semplice;
forse la risposta va cercata nel punto di sutura tra politica e
società e dunque anche nel rapporto che si stabilisce tra le
forze politiche della sinistra, le strutture sindacali e le
componenti sociali che alimentano le une e le altre. Ciò che
tiene insieme questo universo sono due elementi: uno è
costituito dall’esperienza della guerra e dalla somma di
sacrifici che sono stati necessari a recuperare la libertà. La
libertà non è stato un obiettivo secondario; è
stata la ragione ultima che coincideva con la fine della guerra e con
la liquidazione di fascismo e nazismo. Averli sentiti come un unico
obiettivo da conseguire è stata un’esperienza fondante
per componenti significative della società italiana da cui non
è possibile prescindere. Così si spiega come opzioni
politiche diverse che fanno della libertà un principio
irrinunciabile possano operare dentro la realtà operaia e
trarne elementi di ridefinizione dei propri progetti, come avviene,
ad esempio, per alcune componenti azioniste e cattoliche. Né
ci sono né ci saranno questioni di principio che diventino
ostacolo all’accoglimento dei principi di libertà e di
diritti individuali nella lettera e nello spirito della Costituzione,
che socialisti e comunisti concorreranno a scrivere e ad approvare.
Il
secondo elemento deriva da un’esperienza della politica nata
nei giorni del ferro e del fuoco, come momento di discussione e
confronto. Una pratica fondamentale della democrazia , anche di
fronte ai passaggi più drammatici. Come avviene ancora negli
ultimi giorni dell’occupazione, nelle discussioni che preparano
la decisione dello sciopero insurrezionale. La discussione prolungata
che accompagna le scelte riguardanti le iniziative legate
all’insurrezione, definisce anche un metodo del fare politica,
che almeno dall’autunno 1944 ha implicato il coinvolgimento
della comunità operaia. Questo rapporto ha costituito una
ricchezza straordinaria perché ha costruito una capacità
di scambio tra la dimensione della politica e quella della società
tale da fare dei partiti di massa e dei sindacati per un lungo tratto
gli strumenti primari di integrazione di componenti sociali diverse,
come gli anni della grande trasformazione verificheranno, mentre a
ridosso della liberazione si può dire che quel rapporto ha
costituito un esercizio primario di esercizio della democrazia, da
cui tutte le parti in gioco hanno ricavato vantaggi. Un esito e un
tema che ancora oggi offrono abbondante materiale di riflessione.
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