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Roma tra guerra, Resistenza e liberazione: storia, memoria e immaginazione in un’ottica contemporanea
Alessandro Portelli
I colori e i sapori
Vorrei ragionare su alcune
dimensioni contraddittorie del ricordo e dell’oblio nella
memoria della guerra, della Resistenza, della liberazione, accostando
due momenti cruciali: gli anni dell’immediato dopoguerra, in
cui la memoria comincia in modo faticoso e conflittuale a prendere
forma; e la situazione contemporanea, in cui una nuova attenzione
alla memoria mette in luce altre contraddizioni e conflitti.
Partirò da racconti di
persone comuni che sottolineano la differenza, lo scarto, determinata
dalla Liberazione e dalla fine della guerra. Prima ancora che un
fatto politico, la liberazione è un fatto fisico, sensuale: è
una liberazione dei sensi, riguarda l’aria, il cibo, i colori,
la forma dei corpi. Così, Umberto Turco, che fu scenografo di
Roma città aperta di Roberto Rossellini, ci restituisce grazie
al suo sguardo di uomo di cinema il colore della città
occupata:
Roma, in quei giorni, era livida;
era 'na Roma.. 'ndove stonava la divisa der gerarca della SS o der
servo fascista che je lecca i stivali, capito? Stonava, perché
tutto er resto era de un grigiore e de 'na tristezza che se esprimeva
proprio nell'atmosfera, se respirava; proprio sembra... sembra
che proprio l'aria fosse intrisa de tristezza, capito? ... Era
'na Roma sofferente, morta de fame, dove tu vedevi la gente che
fuggiva, magra, triste, capito? E i palazzi avevano acquistato.. pare
che 'n c'era più luce, ma.. io te lo dico, ma non come 'na
sensazione de oggi - 'na sensazione che provavo allora... Poi
Roma é rimasta così, pe' tutto er periodo
dell'occupazione: 'na città triste. 'E campane, nun ciavevano
più quer sòno...1
“Tu vedevi la gente che
fuggiva, magra, triste,” dice Umberto Turco. Il secondo
racconto prende le mosse proprio da questi corpi segnati dalla fame e
dalla repressione: come Turco parte dai colori, Virginia Calanca –
pasticcera in Trastevere - parte dai sapori. La fine della guerra
segna un repentino passaggio dalla penuria a un eccesso: mangiare non
significa solo uscire dalla fame ma anche dalla repressione di cui la
magrezza non è solo la conseguenza ma anche il simbolo.
Quello era il periodo della guerra;
se faceva er castagnaccio, la vegetina; s'usava quello
che c'era al momento, i fichi secchi, le fusaje -
al posto delle mandorle le fusaje. Poi, appena uscito fòri
dalla guerra, il periodo degli anni '46, '45, la gente era, che
je posso di’, smagrita, aveva bisogno de grasso; allora
se faceva, è chiamata la bomba torinese: un dolce che è
una cannonata de grasso, era fatto co' burro di cocco, uovo,
liquore Strega, era buonissimo. Ma se vendeva quel dolce lei
non ha idea quanto, a quintali, la bomba torinese - parola
stessa, bomba; oggi non se lo mangerebbero nemmeno se je lo
regali, però in quel periodo tutti mangiavano ‘ste
grandi torte de grasso, perché in fondo era burro.2
I colori e i sapori si combinano nel
racconto di Laura Grifoni, che allora era bambina: è come se i
sapori avessero un colore, il colore della città livida di cui
parla Umberto Turco: “il sapore del pane, il pane era grigio...
la buccia di patata, sembrava colla marrone scura... eppure si
mangiava.... “. E poi, dopo la guerra, i pacchi
dell’UNRRA, “la farina di uovo con cui si facevano
frittate meravigliose... e la cosa più buona di tutte, il
latte condensato, gomme americane, zucchero. Fino allora non avevo
mai mangiato dolci; ricordo il castagnaccio mangiato durante la
guerra”.3
Meccanismi della memoria
In un testo famoso, i semiologi
russi Jurij M. Lotman e Boris A. Uspenskij scrivono: “La
cultura è, per la sua essenza, diretta contro la dimenticanza:
essa vince la dimenticanza col trasformarla in uno dei meccanismi
della memoria.” La dimenticanza dà forma alla memoria in
due modi: da un lato, la memoria collettiva non può contenere
tutto, e quindi si impone la cancellazione di alcune memorie per per
fare posto ad altre; dall’altro, l’ “incompatibilità”
fra alcune memorie e altre rende necessaria una selezione, una
cancellazione. Certe cose non si possono ricordare perché
entrano in conflitto con altre.4
Lo schema di Lotman e Uspenskij si
regge però su una dicotomia: da una parte quello che si
ricorda, dall’altra quello che si dimentica: alcune memorie
vengono dimenticate affinché altre possano essere ricordate.
Tuttavia, la memoria della guerra, della liberazione, del dopoguerra
complica le cose. Le memoria della guerra infatti sono troppo
cruciali per essere dimenticate, ma anche troppo traumatiche e
conflittuali per essere ricordate; sono un punto di riferimento per
la memoria sociale e personale, ma disturbano con le loro
contraddizioni la costruzione di una memoria pacificata. Memoria e
dimenticanza, allora, non si collocano in testi contrapposti, ma
dentro gli stessi testi, dentro le stesse narrazioni.
Ci troviamo davanti, così, a
una memoria che possiamo definire ossimorica: una memoria in cui ciò
che viene ricordato e ciò che viene dimenticato non sono
separati e distinti, ma anzi l’atto di ricordare e quello di
dimenticare sono l’uno funzione e supporto dell’altro in
uno stesso testo. Ricordare può diventare un modo per
dimenticare; e dentro la dimenticanza può annidarsi
l’insopprimibile memoria.
Ricordare negando
Torniamo al racconto di Virginia
Calanca sulla bomba torinese. “Parola stessa, bomba,”
dice; e aggiunge: la bomba torinese era “una cannonata.”
Non s’è ancora spenta l’eco delle bombe, dei
bombardamenti e dei cannoneggiamenti, e già la “parola
stessa” ha cambiato connotazione; da letterale si è
fatta metaforica. La guerra è finita, si ricomincia a vivere e
a godere, e la bomba non significa più morte e pericolo ma
abbondanza e potenza – una transizione rapida e traumatica,
appunto, dalla penuria all’eccesso.
Facciamo un altro esempio –
questa volta da Terni. Parla Augusto Cuppini, operaio delle
acciaierie e suonatore di balera:
Dopo la guerra, semo impaciti tutti,
no? Tutti a balla’, tutti a rotonde, invece da fa’ li
fabbricati, semo impaciti tutti. Ero impacito anch’io, perché
annavo a sona’... Donne, bardasce – un macello. E
allora, dico, qui andamo a arfini’ a puzzo ‘n’andra
vòrda: perché era, dopo la liberazione, è stato
un trauma, insomma, ci semo visti proprio... embe’, oh:
finalmente!5
Anche qui, il veicolo della metafora
è il corpo; anche qui, il tema è il subitaneo passaggio
dalla disperazione all’eccesso; e anche qui, nell’euforia,
in quello che il narratore chiama “impazzimento,” trapela
un lato oscuro. “Dopo la liberazione è stato un trauma,”
dice Cuppini; e aggiunge, “un macello” –
un’espressione metaforica di disordine e sregolatezza, ma anche
la parola usata, in senso concreto e letterale, per raccontare i
bombardamenti. Con un’altra metafora esplosiva, un altro
narratore operaio ternano visualizza il contrasto: “Magari
proprio là in mezzo alle macerie, dove si trovavano cadaveri,
ci fu il boom della musica, del ballo.”6
E’ una figura straordinaria
per la sua ambiguità. E’ una figura di trionfo della
vita sulla morte (“oh, finalmente!”); ma è anche
una metafora della rimozione che relega la presenza negata della
morte negli strati sepolti della memoria. Per poter ricominciare a
vivere è necessario rimuovere la morte; non si può
affrontare il futuro portandosi addosso il passato come
un’ossessione. Ma di questa rimozione resta una traccia, un
senso inarticolato di colpa. Anche per questo, quelli che la morte se
la portano addosso, negli abiti o negli occhi, si trovano davanti a
una barriera di negazione, di indifferenza, di rifiuto dell’ascolto.
E’ in primo luogo l’esperienza
di quelli che ritornano dai campi di sterminio: “C’era
molta gente, anche tra noi ebrei stessi,” ricorda Piero
Terracina, “che non voleva, non voleva ascoltare. Poi c’è
stato questo ritorno all’interesse, al voler conoscere
eccetera.[Ma] direi che questo qui è stato [dopo] dieci anni,
all’incirca.”7
Come ha fatto notare Enzo Collotti, è anche l’esperienza
degli ex internati militari e dei profughi dell’Istria, avvolti
da un silenzio che non è solo ideologico: “l’Italia
del dopoguerra non fu sorda soltanto al loro dolore,” scrive
Collotti; “La storia della società italiana dopo il
fascismo non è fatta soltanto del silenzio (vero o supposto)
sulle foibe, è fatta di molti silenzi e di molte rimozioni.”8
Ora, il rifiuto dell’ascolto è
il contrario della dimenticanza: è un esorcismo, nei confronti
di una memoria che non si può affrontare ma non si riesce a
cancellare. Anche per questo, le rimozioni possono indossare le vesti
del ricordo. Tutta Roma sembra identificarsi con le vittime del
massacro delle Fosse Ardeatine; ma di fronte alla presenza concreta
delle portatrici del lutto, la città distoglie lo sguardo ed
esorcizza la memoria. Racconta Ada Pignotti, che aveva 23 anni ed era
sposata solo da sei mesi quando le uccisero il marito: “All’epoca
quando, dopo successo il fatto, nel ’44 - non se ne parlava
proprio; non si poteva parlare. Io ho lavorato per quarant’anni,
quindi, anche nell’ufficio mio, alle volte, quando me
domandavano qualcosa, non glie dicevo niente - perché: te lo
dicevano con [sfida]: ‘embè, e la colpa è de
quello ch’ha messo’a bomba.’” Lucidamente,
Ada Pignotti spiega la leggenda nera antipartigiana di via Rasella
con qualcosa di più profondo dell’ideologia: la ricerca
della colpa è un modo per cambiare discorso, per non guardare
in faccia la materialità personale del massacro e trasferirla
sul piano più astratto del giudizio politico, dove non ci si
deve confrontare con la presenza degli offesi. Così Ada
Pignotti e le sue compagne di dolore si trovano davanti a una memoria
che, rifiutando di riconoscere la sua perdita, esorcizza la strage
nell’atto stesso di ricordarla.9
Gabriella Polli, che aveva pochi
mesi quando le uccisero il padre, racconta episodi analoghi accaduti
a sua madre, in cui l’apparenza del rispetto e della simpatia
per il lutto maschera invece il rifiuto dello sguardo, della presenza
stessa di queste portatrici della memoria della morte.10
Mia madre andava dal fornaio a
fare la spesa. Una volta per fare la spesa se doveva fare la fila,
c'era tutta la confusione; mamma scese e tornò subito,
disse, “Hai visto come ho fatto presto? appena m'ha visto,
il signor Tommaso, come m'ha visto m'ha detto, ‘venga
signora Polli, la servo subito.” Sa perché? perché
non la volevano dentro al negozio, perché era la moglie di uno
caduto, un antifascista. Quindi mia nonna le disse. “Non hai
capito niente, ringrazia Dio che t'hanno dato il pane
sennò quel disgraziato non te dava nemmeno il pane.”
Non ce la volevano dentro, era scomoda. Quando mamma ha capito s'è
messa a piangere, non voleva più andare a fare la spesa.11
Dopo la guerra, un’altra guerra
Come ha ricordato Claudio Pavone, la
fine della guerra e la caduta del fascismo pongono la questione della
continuità dello stato. Il dilemma fra rottura e continuità
peraltro non si applica solo sul piano istituzionale; in un certo
senso, è la struttura stessa della memoria, che ha bisogno di
cambiamenti e rotture per dare conto del trascorrere del tempo, ma
anche di mutamenti lenti di lungo periodo e di permanenze che
assicurino l’unità del soggetto che ricorda. Perciò,
anche la liberazione dei sensi e dei colori di cui parlano Turco,
Calanca, Grifoni vale fino a un certo livello, e non vale per tutti.
Per tanti romani la fine della guerra segna piuttosto una continuità
resa ancora più intollerabile dall’aspettativa di
cambiamento. Prendiamo questo dialogo, con tre sorelle comuniste di
Val Melaina, figlie di un confinato e perseguitato politico:
Portelli. E poi dopo la guerra?
Liliana Menichetti. E’
rivenuta ‘n artra guera.
Portelli. Perché?
Marisa Menichetti. Eh, c’è
voluto parecchio tempo prima che ‘e cose ... Perché
la fame, la privazione ce so’ state bone, bone artri
tre-quattr’anni. E poi ‘e coabitazioni, un po’
tutti ammucchiati, due-tre famiglie dentro du’ cammere e
cucina. Guarda, noi abbiamo visto morì de fame letteralmente,
no? A parte un cugginetto nostro e quella ragazza che abbitava a ‘a
scala A, te ‘a ricordi Rossa’? ‘Na bella ragazza, è
morta de fame. ‘A tubercolosi, ce n’era tanta. Pe’
nun parlà de’ ‘e malattie infettive come ‘a
scabbia.
Anna Menichetti. E poi comunque un
senso de freddo dentro e fuori...io questa cosa me la ricordo perché
fisicamente ho sofferto tanto; senza coperte, senza cappotti, con
quello che avevi andavi a scuola...le scarpe rotte, le scarpe de
altri, da maschio... Poi ripeto ‘sto senso di tanto freddo e de
mancanza de tante cose... dei momenti di gelo dentro, fuori, ‘na
povertà davvero incredibile che non riuscivi a spiega' nemmeno
a te stessa perché eri piccola, capito? però non
chiedevi a nessuno; perché nessuno ti rispondeva; quello
vivevi e quello era. Per cui te ritrovavi magra; piena de piaghe
perché, mancanza de vitamine, denutrizione... [Mia sorella]
non riusciva a sviluppa’ ... infatti il primo ciclo l’ha
avuto a 14 anni... 12
C’è un livello di
esperienza, dunque, sul quale la fine della guerra non fa subito una
differenza netta: la povertà, la fame, il freddo,
l’affollamento, la magrezza, la repressione continuano. Dopo la
guerra, ne viene un’altra: “Sì, sì, t’
ho detto che ce so’ voluti quattro- cinqu’anni prima che
potevi di’, ‘Mo’ mangio,’ insomma”
(Marisa Menichetti).
Tuttavia, il cambiamento c’è
stato. Se certe condizioni materiali restano le stesse, quello che
cambia è la reazione soggettiva: la sofferenza che sembrava
inevitabile con l’oppressione politica del fascismo e con la
tragedia della guerra diventa insopportabile nel nuovo clima di
libertà. Roma dunque cerca contemporaneamente sia di
ricordare, sia di cancellare il ricordo, perché l’ambivalenza
è ancorata sulle contraddizioni dell’esperienza, sul
contrasto fra la nuova, sconosciuta libertà, le aspettative di
cambiamento, e la loro frustrazione. La contraddizione prende la
forma di una accesa conflittualità sociale da un lato, e
dall’altro di un disincanto di cui si alimenta anche la
stagione romana del qualunquismo.
All’Ambra Jovinelli, per
esempio, Cecè Doria cantava: “Ohi pace, ohi pace mia,
sei stata ‘na fetenzia...” Nella stessa sequenza
parodistica, Doria rifletteva ironicamente sulla perdita di memoria e
la necessità della dimenticanza, ma al tempo stesso induceva
il suo pubblico a riempire i vuoti e a ricordare: “Nel
millenovecento ventidue \ ce fu’n governo – ‘n
m’aricordo più \ ce fu ‘na marcia – ‘n
m’aricordo dove \che fu chiamata – ‘n m’aricordo
più. \ E per vent’anni fummo sistemati \ da tante guère
– ‘n m’aricordo più \ però un ber
giorno fummo libberati \ però da chi - non me lo ricordo più.”
Soprattutto, la libertà è
un’esperienza nuova, difficile da misurare e praticare in
questo clima di eccessi. Si passa dal fascismo e dalla tragedia alla
pace e alla libertà con la stessa rapidità traumatica
con cui si passa dalla vegetina alla bomba torinese, dalla penuria
all’eccesso, senza avere il tempo di abituarsi, di imparare le
regole, di avere pazienza. Episodi come il linciaggio di Carretta (o,
a Milano, piazzale Loreto) sono l’esito di questo sogno
differito: la rabbia per la continuità che ti fa trovare
ancora davanti le stesse facce, gli stessi poteri; la frustrazione di
sentirsi ancora poveri, affamati, al freddo; e l’eccesso, la
fretta, il furore di una città che è stata repressa e
si trova improvvisamente libera e assapora il desiderio e la libertà
fino a ubriacarsene ed esplodere.
Alla contraddittoria esperienza
della fame si accompagna la difficoltà di un’altra
memoria fondamentale: i bombardamenti alleati. Una lapide sulla
Casilina, è l’espressione più concisa ed efficace
di questa memoria ossimorica:
Vittime innocenti
Di cannone liberatore
6 giugno 1944
Proietti Cleofe
Proietti Maddalena13
Per Cleofe e Maddalena Proietti,
l’ossimoro è sanguinoso: il cannone che le libera è
anche il cannone che le uccide – un effetto collaterale dal
punto di vista della grande storia, ma totale dal punto di vista
loro. Non è una memoria facile da gestire, e neppure da dire
in pubblico. Dopo tutto, i bombardamenti - conseguenza
dell’aggressione nazifascista e dell’occupazione, ma
operati dalle forze alleate di liberazione - sono la maggiore causa
di distruzione e di morte a Roma fra il luglio 1943 e il giugno 1944.
La contraddizione attraversa persino
quella parola apparentemente così semplice –
“innocenti.” Innocenti in che senso? Certo, non sono
belligeranti, e probabilmente la guerra non è stata un’idea
loro; ma i bombardamenti alleati sono la legittima risposta a una
criminale aggressione italiana; come ricordava una scritta oggi
malauguratamente imbiancata su un palazzo bombardato di San Lorenzo,
quelle rovine sono “eredità del fascismo.” Cleofe
e Maddalena Proietti dunque sono innocenti personalmente, ma
colpevoli in quanto italiane, e pagano la responsabilità del
regime e dello Stato con una pena di morte senza processo.
In altre parole: le distruzioni
della guerra sono causate da tedeschi e fascisti, ma compiute da
americani e inglesi. Da questa contraddizione deriva una memoria
problematica e internamente divisa: come si fa a tenere insieme la
gratitudine ai liberatori con la memoria del fatto che sono stati
loro a distruggerti la casa, a ucciderti i familiari?14
Qui dunque diventa necessario sopprimere alcune memorie, che sono
incompatibili con altre più accettabili e autorizzate. Così,
la domanda “chi era che bombardava” si scontra spesso con
inattese afasie, silenzi, contraddizioni. Molti narratori si limitano
a parlare della “guerra” entità astratta e
fatalistica; altri risalgono dagli effetti ultimi alle cause prime,
saltando le cause seconde (“eredità del fascismo”).
Ma il procedimento di memoria più
sorprendente, e molto più diffuso di quanto non si immagini,
consiste in un’altra operazione logica: se il male assoluto
sono i nazisti e i fascisti, se sono loro i nostri nemici sono i
nazisti e i fascisti, allora è logico immaginare che siano
stati loro a bombardarci. “Erano i fascisti – cioè,
gli alleati” (Irene Guidarelli, operaia tessile, Terni); “Che
ne so di che aeronautica era. I tedeschi saranno stati”
(Antonietta Mazzi); “Non lo so” (Maria Bertini); “Io
non lo so, da sopra venivano le saette, ma dagli aerei non si sa chi
bombardavano” (Pia Giannoni). “Ah, non erano i nostri”
(Raul Crostella, metallurgico ternano). “Quando c’è
stato il bombardamento qui da noi [a San Lorenzo], so’ stati
gli americani; quando c’è stato sulla Prenestina so’
stati i tedeschi, no’ gli americani. ” 15
Racconti analoghi, e ancor più
circostanziati, vengono anche da altre località bombardate
come Frascati o Piglio.16
Antonio Parisella descrive molto bene questa memoria dimenticante
parlando di Cisterna. Per la gente di Cisterna, scrive, “la
guerra era consistita nella distruzione totale del paese da parte dei
bombardamenti alleati, nella vita per 126 giorni nelle grotte e, dal
19 marzo 1944, nello sfollamento in campi di raccolta che per alcuni
si protrasse fino a oltre due anni.”
Anche se era chiaro – prosegue
Parisella – che i tedeschi erano occupanti e oppressori, mi
dissero che era stato difficile riconoscere i liberatori negli
Alleati, cioè in coloro che avevano distrutto il loro paese e
che li avevano privati delle loro minime condizioni di vita. Per
comprendere a pieno il senso degli eventi avevano dovuto attendere la
fine della guerra, il rientro nel paese, la graduale ricostruzione
delle loro case e delle loro attività: per un periodo più
o meno lungo vi era stata una sorta di “terra di nessuno”
della loro coscienza.17
“Terra di nessuno” è
una buona metafora dell’ambivalenza e confusione di questa
memoria. Per poter avere una memoria coerente e accettabile, gli
abitanti di Cisterna, e non solo loro, hanno prima dovuto mutilarla.
Hanno dovuto fare un inventario delle proprie memorie e dei propri
sentimenti, individuare quelli legittimi ed escludere quelli che era
meglio dimenticare alla luce di una memoria pubblica carica di
dimenticanza.
Memoria della liberazione: punto finale o punto
di partenza?
Il dopoguerra è dunque il
momento in cui la memoria comincia a costituirsi nella forma di un
ossimoro: una memoria dimenticante, una dimenticanza che ricorda.
Questa modalità si ripresenta, in forme differenti ma non meno
contraddittorie, anche oggi. Perciò vorrei concludere con
alcune considerazioni in chiave contemporanea sull’uso pubblico
e rituale della memoria nel nostro tempo.
Sono venuto a seppellire Cesare, non
a lodarlo, dice Antonio nel Giulio Cesare; ma nella memoria
ossimorica del nostro tempo, lodare finisce spesso per essere un modo
di seppellire. Infatti esiste un uso pubblico della memoria come
rituale assolutorio, che serve a chiudere il discorso e separare
nettamente il presente dal passato, come se commemorare un fatto
volesse dire monumentalizzarlo e fossilizzarlo.
Ma esiste anche una memoria come
scandalo, una memoria che ribadisce – con William Faulkner –
che “il passato non è morto; anzi, non è neanche
passato.” Una memoria assolutrice dice “è
accaduto, ma noi siamo diversi, e non accadrà più”;
una memoria scandalo ci avverte, con Primo Levi, che “è
accaduto, dunque può accadere.” Come nel caso
dell’intreccio di memoria e dimenticanza nel dopoguerra,
assoluzione e scandalo stanno spesso dentro le stesse formule, gli
stessi gesti, le stesse celebrazioni.
Più volte, durante le
celebrazioni della giornata della memoria, abbiamo sentito ripetere
una formula tersa ed eloquente: “mai più.”
Sacrosanto. Tuttavia, nella definitività apodittica di parole
come “mai” e “più” si annida anche la
possibilità di una memoria che rappresenta il passato come un
libro chiuso, magari da condannare ma soprattutto da esorcizzare. In
altri termini, un altro modo di ricordare negando la memoria: è
stato terribile, ma non ci riguarda.
Scusandomi se ricorro alla cronaca,
vorrei fare alcuni esempi – tutti tratti da episodi avvenuti
proprio attorno alla Giornata della Memoria.
Il 25 gennaio 2005, Domenico
Gramazio, rappresentante della Regione Lazio, ha messo in scena un
piccolo dramma in tre atti su memoria e dimenticanza. Nel primo atto,
ha scritto per ben tre volte sul libro dei visitatori al museo Yad
Vashem di Gerusalemme: “mai più, mai più, mai
più.” Nulla potrebbe essere più chiaro e reciso –
anche se l’impulso a ripetere sembra suggerire un senso di
inadeguatezza, come se alzasse i toni per coprire un disagio. Infatti
nel secondo atto, subito dopo, sulle scale del museo Gramazio ha
detto: “Ritengo che la destra italiana non abbia avuto
responsabilità nello sterminio di massa degli ebrei...
L’Italia anche fascista non condivise queste leggi [le “leggi
razziali”] e Giorgio Almirante, già direttore della
Difesa della Razza, fu in realtà un protettore e salvatore di
ebrei”. Infine, il terzo atto: dopo le reazioni indignate
suscitate dal suo discorso, ha aspettato due giorni e poi ha chiesto
scusa alla comunità ebraica di Roma. Il caso è chiuso
un’altra volta e non cambia niente.
Questa piccola commedia mi sembra
uno straordinario esempio di memoria che dimentica e assolve. Non è
solo questione di falsificazione della storia, ma di uso politico
della retorica della confessione: ammettere la colpa per espellerla
da sé; denunciare la Shoah ma negare che ci chiami in causa e
ci ponga delle domande su noi stessi; ammettere forzosamente di aver
detto una cosa inaccettabile, e pensare che basti chiedere scusa
perché tutto sia cancellato.
Un altro esempio. In occasione della
consegna delle interviste della Shoah Foundation all’Archivio
centrale dello Stato, il 28 gennaio, il rappresentante del governo,
viceministro dei Beni Culturali, Antonio Martuscello, ha tratto dalla
Shoah la seguente lezione: dobbiamo proteggere la nostra
identità europea da “innesti artificiali” e
ribadire le nostre origini giudaico-cristiane. E’ un altro uno
straordinario esempio di memoria che non ricorda: nell’atto di
commemorare la Shoah, il rappresentante del governo italiano
dimentica che essa fa parte dell’eredità europea e di
nessun’altra; che l’invito a proteggerci da “innesti
artificiali” islamici riproduce l’invito, un paio di
generazioni fa, a difendere le nostre radici cristiane dalle
contaminazioni ebraiche; e che delle radici giudeo-cristiane fanno
parte quasi due millenni di persecuzioni, discriminazioni, pogrom in
quasi tutta l’Europa.
Infine: ai primi di febbraio,
durante una trasmissione radiofonica coordinata da Aldo Forbice, in
cui si parlava di Auschwitz solo per insistere che era la stessa cosa
dei gulag sovietici e delle foibe, un ascoltatore ha telefonato per
ricordare i crimini italiani sul confine orientale –
deportazione, campi di concentramento, stermini, rappresaglie...
Il conduttore lo ha messo a tacere bruscamente, dicendo che queste
cose erano impossibili, che non erano mai accadute e l’ascoltatore
era un millantatore che inventava tutto.18
Come nel finto omaggio alla vedova
delle Ardeatine portata avanti alla fila per mandarla via più
in fretta, Gramazio, Martuscello, Forbice fingono di celebrare la
memoria per consumare una cancellazione. Con rivelatrice enfasi
denegatrice, Gramazio scrive “mai più” tre volte,
come se una non bastasse; e per buona misura aggiunge che il nazismo
era “un mostro”: cioè, qualcosa che non ha niente
a che vedere con noi esseri umani, e tanto meno con noi italiani. Il
linguaggio si impoverisce; più si calcano i toni, meno si dice
– l’eccesso dell’enfasi sembra la variante verbale
dell’eccesso alimentare della bomba torinese. Più
calchiamo i toni sull’ “orrore”, più questo
diventa una scusa per distoglierne lo sguardo. Persino la definizione
del nazismo e della Shoah come “male assoluto” ha un
elemento di ambiguità, che esclude queste realtà dalla
sfera dell’umano e quindi dalla nostra sfera. Sappiamo che
nulla di umano può essere assoluto; come ci ricorda Primo Levi
la Shoah - e la guerra, le stragi, le bombe, i morti, i campi
- è un fatto umano. E’ qualcosa che riguarda noi, una
possibilità che è in noi stessi come esseri umani e su
cui sta a noi vigilare.
Fingere di ricordare per
dimenticare, dunque. Ora, sappiamo che senza dimenticanza non esiste
memoria, e che nell’idea stessa di memoria è implicita
una presa di distanza, la coscienza del tempo trascorso: altrimenti
non possiamo più parlare di memoria ma di fissazione, di
ossessione. Tuttavia, dimenticare e storicizzare è una cosa,
rimuovere è un’altra. Le cose dimenticate scompaiono
perché non significano più niente; quelle rimosse
rimangono, nascoste, perché significano troppo. E continuano a
tormentarci per riemergere improvvise come fantasmi.
Anche per questo, avere rimosso la
vicenda delle foibe, per esempio, ci ha resi impreparati al suo
ritorno. So bene che sono stati proprio gli storici antifascisti,
specialmente a Trieste, che hanno per primi studiato quella tragedie
e quei crimini; ma il loro lavoro non è stato fatto proprio,
non è diventato a sufficienza senso comune dell’antifascismo,
almeno a livello politico. Perciò, quello che oggi riusciamo a
dire sul contesto storico delle foibe, sulle cause, sui crimini di
guerra italiani che le hanno precedute, ha un sapore difensivo che
non avrebbe avuto se avessimo assunto come nostra questa memoria fin
dall’inizio. La rimozione finisce per renderci subalterni a una
memoria parziale altrui: così, anche voci antifasciste hanno
ripetuto in questi giorni le formule sulla “italianità”
dell’Istria, perché non hanno memoria di cosa fosse
realmente quel territorio di confine multietnico.
Tuttavia, è anche per buone
ragioni che come antifascisti siamo riluttanti a usare argomenti,
pure plausibili, che spiegano la tragedia delle foibe con
l’occupazione e i crimini italiani nei Balcani. Infatti, mentre
la destra contrappone le foibe alle Fosse Ardeatine, il Gulag ad
Auschwitz per azzerare tutto in una specie di spettrale par condicio,
noi antifascisti non possiamo usare gli stermini italiani e fascisti
in Slovenia e in Croazia, in Libia e in Etiopia per azzerare gli
stermini jugoslavi e comunisti in Venezia Giulia. Come mostra
eloquentemente Guido Crainz in Il dolore e l’esilio, tragedie e
crimini sono correlati ma distinti; vanno ricordati ognuno per sé,
nella sua autonoma pienezza, senza cancellare niente nel bilancino di
una memoria assolutoria o strumentale che distoglie lo sguardo dalla
sofferenza di tutte le vittime.19
Noi oggi siamo qui dunque non solo
per ricordare eventi di sessant’anni fa ma anche per rinnovarne
il significato: siamo convinti che ci riguardino adesso, che
riguardino il nostro tempo e quello di chi verrà dopo di noi.
La memoria ha per contenuto il passato, ma è un lavoro del
presente, una spola problematica che parte dal presente e ad esso
torna arricchita e resa consapevole dalla conoscenza critica del
passato. La memoria serve a coinvolgerci nel presente per costruire a
partire da adesso la memoria di un futuro i cui testimoni saranno i
ragazzi che oggi ascoltano i racconti sulla guerra, sulla Shoah,
sulla liberazione.
Anche per questo, dobbiamo evitare
che si crei un vuoto fra la memoria degli anni ’40 e oggi.
Quando parliamo di memoria, parliamo sempre, giustamente, della
guerra, della Shoah, della Resistenza, della liberazione; ma dobbiamo
evitare l’impressione che non ci sia altro da raccontare, e
che la memoria riguardi esclusivamente i tempi della seconda guerra
mondiale. Altrimenti, la memoria rischia di diventare sinonimo di un
passato cruciale ma, specie per i ragazzi di oggi, lontano e senza
rapporti comprensibili con la loro esperienza.
La liberazione è la fine di
un’epoca; ma è anche una tappa in un processo di
cambiamento sociale che si prolunga oltre il 25 aprile; ed è,
soprattutto, l’inizio di un’altra epoca, che arriva fino
a noi. La liberazione che pone fine al fascismo apre la storia
dell’Italia democratica e continua nella forma stessa della
nostra convivenza civile, nella Costituzione che ne incarna i
principi.
E invece, mentre questa storia si
proietta in avanti, nell’uso pubblico e didascalico della
storia sembra esistere un vuoto, una terra di nessuno, tra il tempo
ricordato e il tempo in cui si ricorda – come se la memoria
finisse il 25 aprile del 1945, e tutti quelli che sono venuti dopo
non avessero nulla da ricordare. Che memoria proponiamo ai ragazzi di
oggi, sugli anni fra quel tempo e il loro, fra il 25 aprile 1945 e
l’aprile del 2005, e oltre? Che cosa sanno, che cosa
raccontiamo, che cosa insegniamo, della storia della nostra
democrazia – di Portella della Ginestra, della guerra fredda,
dei morti di Reggio Emilia, del Vietnam, del centrosinistra, del ’68,
dell’autunno caldo, del femminismo, persino di Tangentopoli,
persino dei fatti di Genova? E’ in questo spazio che si espande
un senso comune mediatico secondo cui l’antifascismo è
obsoleto, l’Italia è stata governata per mezzo secolo
dai comunisti, la Costituzione repubblicana è una carta
“bolscevica”, e la storia del movimento operaio e dei
movimenti di contestazione è solo una storia di crimini e
orrori di cui condannare il ricordo mettendone fuori legge anche i
simboli.
Per questo vorrei chiudere
accostando due racconti ascoltati la stessa mattina, nel novembre
2004, nello stesso luogo, la sede dell’Anpi di Monterotondo. Il
primo è un ricordo di famiglia: “L’altro capo
d’imputazione [per mio zio] era non essere andato a lavorare il
primo maggio del [1929], senza giustificato motivo. Si instaura un
processo, in cui lui [è] costretto a cantare o a dire viva il
duce”. L’altro è un ricordo personale:
Mi ricordo, mi è stato
chiesto di rinnegare quelli che erano stati i valori
dell’antifascismo, urlando viva il duce. La prima richiesta [mi
ha lasciato] un attimo perplesso; poi, dopo l’incoraggiamento
a suon di botte, ho detto a fatica la parola entrando nella cella, e
cosi anche gli altri dopo di me.20
Sono due racconti praticamente
uguali; ma il primo si riferisce al 1929, e il secondo si riferisce
al 2001, a Genova, alla caserma di Bolzaneto. Se è vero che la
memoria è un costante lavoro di relazione, una reciproca
costruzione di senso fra il presente e il passato, allora un lavoro
di memoria serve a connettere questi due momenti così simili e
così lontani. Si dice che chi non ricorda la storia è
destinato a ripeterla; e certo una delle ragioni che rendono
necessario recuperare e consolidare i saperi della democrazia, del
movimento operaio e dell’antifascismo è che certe cose
si sono ripetute, si stanno ripetendo, posso ripetersi. Dopotutto,
viviamo in un paese dove la qualifica di legittimi belligeranti, a
lungo negata ai partigiani, viene rivendicata per i fascisti di Salò.
Perciò io credo che oggi siamo qui per
ribadire la memoria della liberazione, della Resistenza, del
movimento operaio, della democrazia partecipata che abbiamo ereditato
dal movimento di liberazione copme forza attiva nel presente e come
scandalo per il potere. A differenza di Cecé Doria, noi
ricordiamo bene da chi dovevamo essere liberati, chi ci ha liberato,
e quanto è costato. Perciò se siamo qui oggi è
sia per ricordare eventi decisivi della nostra storia, sia perché
sappiamo che su questo ricordo si fonda l’impegno a continuare,
ora e sempre, il lavoro cominciato allora dalle resistenti e dai
resistenti, armati e non armati, e dalle donne e gli uomini che hanno
fondato la nostra democrazia, la nostra libertà e la nostra
dignità.
1
Umberto Turco (1928, scenografo), Roma, 12.11.1997. Tutte le
registrazioni originali delle interviste citate sono conservate
presso l’Archivio Sonoro “Franco Coggiola” del
Circolo Gianni Bosio di Roma.
2
Virginia Calanca (1925, pasticcera), Roma, 26.4.1998.
3
Laura Grifoni, (1940, insegnante), int. Stefania Raspini, 27.3.2001
4
Ju. M. Lotman, B. A. Uspenskij, “Il meccanismo semiotico della
cultura,” in Tipologia della cultura, Milano, Bompiani,
1973, p. 47.
5
Augusto Cuppini (1911, operaio), Terni, 30.12.1980.
6
Ambrogio Filipponi (1930, geometra), Terni, 11.5.1979. Sull’uso
del termine “macello,” cfr. per esempio “E’
successo che qua era un macello. Tutti morti, figlia mia, via
Fanfulla da Lodi era un disastro tutto per terra , la paura non si
poteva passa per passare dovevi passa’ sopra i morti”
(Diana Pasqualini, 1925, Roma Pigneto, 25.6.2001, int. Giusy
Incalza); “era l’immagine, la sequenza, di quel macello
in cui avevo immerso le mani fino a un quarto d’ora prima,”
cercando di curare i feriti nell’ospedale” (Rosario
Bentivegna, 1922, medico, partigiano, Roma, 11.9.1998). Anche
nell’uso di “macello” vediamo il passaggio da un
uso referenziale a uno metaforico.
7
Piero Terracina (1928, dirigente d’azienda, ex deportato ad
Auschwitz), Roma 8.2.1998
8
Enzo Collotti, “Alle radici dell’odio tragedie
incomparabili sull’orlo di una foiba,” il manifesto,
10.2.2005.
9
Ada Pignotti (1920, impiegata), 23.2.1998.
10
Non a caso, è proprio questa la scena che Ascanio Celestini
ha scelto per il finale del suo Radio Clandestina, il
monologo drammatico sulla memoria delle Fosse Ardeatine.
11
Gabriella Polli (1943, impiegata), 18.5.1998. Un altro episodio
raccontato da Gabriella Polli è un esempio della strategia
esorcistica che consiste nel cambiare discorso: . : “non so se
una collega dell'ospedale o una che abitava lì - dopo che
papà era morto mia madre diceva che gli aveva detto a
questa: “E pensare che tutte le volte andavo a cercare mio
marito, quando andavo là a Regina Coeli, entravo
in quel corridoio lungo, quelle
inferriate me facevano impressione.” “Eh,
non sei contenta? vuol dire che sei romana, te sei fatta i tre
scalini.” Mia madre dice, “Io quei tre scalini me li
facevo con la lingua per terra, piegata in
due, perché solo al pensiero che
entravo là dentro stavo male, a vedere mio marito
dentro a una cella.” La crudeltà della gente dove
arriva - a dire pensa, non sei contenta, vuol dire
che sei romana... Guardi che so’ cose che
te senti male, sono cose che io non lo so lei come
avrebbe reagito, io l'avrei ammazzata; e mia madre è
diventata debole, mia madre in quel momento diventava una
pecorella, guardi veramente non era più quella donna
forte che io vedevo, infatti io gli dicevo ma tu che gli hai
risposto, eh ma io che gli dovevo dire? ce so rimasta male.”
12
Si vera ancora Laura Grifoni (int. cit.): “Avevamo
l’esperienza della guerra e del post-guerra; appena finita la
guerra, eravamo poveri, anche se eravamo piccolissime - cibo
scadente, fila al mercato, fila alla fontanella, a Roma era così
prima che si ripristinava tutto...”
13
Giuseppe Mogavero, I muri ricordano. La resistenza a Roma
attraverso le epigrafi (1943-1945), Roma, Massari, 2003, p. 185
(con fotografia). La lapida si trova in via san Vittorino.
14
Dice Luciano Pizzoli, tranviere: “Io, quando io ciavevo sei
anni, pensavo che c'era la guerra e che la guerra comportava anche
questo (questo come ricordo d' infanzia). I grandi dicevano che era
una grande tragedia a cui ci aveva condotto il fascismo.”
Tuttavia, questo stesso narratore, la cui casa fu distrutta dal
bombardamento sulla Tiburtina, ricorda anche che “Il
bombardamento di San Lorenzo, dello scalo, non è vero che è
stato un bombardamento mirato, è stato un bombardamento che
doveva servire a terrorizzare.”
15
Irene Guidarelli (1896, operaia tessile), Terni, 16.7.1980;
Antonietta Mazzi (operaia), int. Giusy Incalza, Roma, 7.6.2001;
Nadia Bertini (1934,casalinga), casalinga, int. G. Incalza, Roma,
3.7.2001; Raul Crostella (1926, operaio), Terni 14.12.1983; Clara
Pagliarini (1916, pensionata), int. G. Incalza, Roma, 6.9.2002.
16
Pietro Barrera, direttore generale della Provincia di Roma, durante
una riunione presso la Provincia per la preparazione delle
iniziative per l’anniversario della Liberazione, 2.10.03,
testimonia che una parte della popolazione di Frascati (duramente
colpita l’8 settembre) credeva che a bombardare erano stati i
tedeschi. A Piglio, in provincia di Frosinone, “la popolazione
è convinta che il bombardamento dell’8 aprile 1944, in
cui persero la vita dieci persone per il crollo della chiesa colpita
dalle bombe, sia stato, in realtà, opera dei tedeschi per
punire nuovamente il paese, dopo la prima rappresaglia del 6
aprile”: Tommaso Baris, Tra due fuochi. Esperienza e
memoria della guerra lungo la linea Gustav, Bari, Laterza, 2003,
p. 56.
17
Antonio Parisella, Sopravvivere liberi. Riflessioni sulla storia
della Resistenza a cinquant’anni dalla liberazione, Roma,
Gangemi, 1999, p. 38-9.
18
In una successiva trasmissione, il conduttore ha ammesso che sì,
qualche episodio poteva esserci stato – ma era stata “l’Italia
fascista,” quindi noi non c’entriamo.
19
Guido Crainz, Il dolore e l’esilio, Donzelli, Roma,
2005.
20
Enrico Angelani (1927, impiegato) e Bruno Lupi (1983, studente),
Monterotondo (Roma), 24.11.2004.
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