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La classe lavoratrice genovese nella Resistenza
Antonio Gibelli
1. Un lungo percorso di studi.
Quello
di oggi è per me un appuntamento importante, non solo
ovviamente per la solennità della celebrazione, ma anche per
una ragione più personale. Mi dà infatti l’opportunità
di rievocare il momento in cui, più o meno quarant’anni
fa, accostandomi al lavoro dello storico cominciai a occuparmi
proprio del tema che mi è stato chiesto di trattare qui. Alle
lotte operaie nella Resistenza di Genova dedicai infatti la mia tesi
di laurea discussa presso la facoltà di lettere dove ora
insegno, tesi che in seguito doveva diventare un libro, Genova
operaia nella Resistenza, pubblicato nel 1968 in una collana
dell’Istituto storico regionale.
La
questione non era stata, fino a quel momento, oggetto di grande
attenzione, né a Genova né altrove. La storiografia e
la stessa memoria della Resistenza erano in gran parte concentrate
sulle vicende politiche e militari, sulla vita e sulle azioni delle
brigate partigiane. Viceversa sulla vita quotidiana della grande
città, sulle condizioni e sulle lotte degli operai, sulle
motivazioni che li avevano mossi e sugli effetti degli scioperi nel
complesso delle vicende del 1943-45, gli studi erano pochissimi.
Resistenza e lotta armata apparivano quasi sinonimi. A parte qualche
opuscolo di carattere memorialistico e celebrativo dedicato agli
scioperi del marzo 1943, considerati come il primo segnale della
riscossa, su scala nazionale non era disponibile, se ben ricordo, che
un volume sul movimento operaio torinese durante la Resistenza,
pubblicato nel 1953. Ne era autore Raimondo Luraghi, per lunghi anni
docente presso la nostra Università, che durante la guerra era
stato ufficiale della Guardia alla Frontiera, poi combattente nelle
formazioni garibaldine, infine giornalista dell’«Unità»
e storico, del quale sono state recentemente pubblicate le memorie
partigiane. Nulla esisteva, in particolare, a proposito della realtà
genovese, dove pure si era sviluppato un movimento di vaste
proporzioni e di caratteristiche particolari, i cui lineamenti
apparivano ancora pressoché sconosciuti.
Per
svolgere il mio lavoro dovetti dunque fare lo spoglio di una
documentazione in gran parte inesplorata e soprattutto rivolgermi ai
protagonisti per raccoglierne la testimonianza. Ricordo la forte
impressione di vera e propria scoperta connessa ai contatti,
personali o epistolari, presi per l’occasione con alcuni di
questi uomini, soprattutto militanti comunisti, che avevano avuto un
ruolo di primo piano nel movimento di liberazione e nelle lotte
sociali, dentro le fabbriche e fuori, nel partito e nei comitati di
liberazione nazionale. Uno fra tutti voglio rievocare, anche perché
si tratta di una figura per certi aspetti mitica, in quanto la sua
firma compare in calce al documento di resa delle truppe tedesche di
occupazione, accanto a quella del generale Meinhold, documento che
costituisce una sorta di certificato di identità della nostra
città, o se si vuole una specie di certificato di battesimo
della Genova libera e civile nella quale abbiamo vissuto gli anni
della repubblica. Parlo naturalmente di Remo Scappini, col quale ebbi
un lungo e intenso scambio epistolare e anche qualche incontro
personale, ricevendone informazioni, interpretazioni e consigli che
mi furono preziosi e, al termine della mia fatica, una nota di plauso
che mi rese comprensibilmente orgoglioso.
Se
ricordo tutto questo è per marcare le distanze da un’epoca
ormai lontana, nella quale la memoria era più fresca ma la
storia era ancora per molti versi da sbozzare. Oggi, quando la
memoria è oggetto di contese e di revisioni improvvide che
tendono a offuscarne la nitidezza, la storia ha fatto per nostra
fortuna grandi passi avanti, rendendo più ricca e complessa
l’immagine stessa di quella vicenda decisiva: nel nostro quadro
degli eventi ha trovato spazio non solo, com’è giusto,
la guerriglia partigiana, ma la resistenza dei militari protagonisti
di pagine terribili ed eroiche come quelle di Cefalonia, quella degli
internati nei campi tedeschi che non vollero aderire alla Repubblica
sociale, la resistenza civile degli uomini e delle donne che si
opposero con gesti quotidiani anche minimi alla politica
dell’oppressione e della sopraffazione.
Anche
la resistenza operaia ha acquistato ormai una fisionomia più
chiara. Dopo i primi studi pionieristici cui accennavo, nel 1974 la
ricerca congiunta di un folto gruppo di studiosi legati all’Istituto
nazionale del movimento di liberazione sfociò nell’edizione
di un ampio volume dal titolo Operai e contadini nella crisi
italiana del 1943-1944, che poneva le lotte sociali al centro del
processo di mobilitazione e di liberazione dell’Italia dal
fascismo e dal nazismo. Anche per quanto riguarda la nostra città
importanti lavori si sono aggiunti via via fino a tempi recenti:
ricerche più approfondite su alcuni settori fondamentali della
classe operaia genovese come i lavoratori dell’Ansaldo, resi
possibili dal riordino e dall’apertura dell’archivio
storico dell’azienda, saggi di grande respiro sui rapporti tra
lotta in città e lotta in montagna, tra organizzazione
politica e movimento, che hanno contribuito a collocare in nuova luce
le dinamiche delle lotte operaie all’interno della storia
politica locale e nazionale. In questo senso, la classe lavoratrice
genovese ha guadagnato un posto che possiamo ben dire
incontrovertibile e indiscusso nella storia del passaggio dal
fascismo alla Repubblica.
2.
Genova città operaia.
Per
capire l’importanza degli avvenimenti di cui stiamo trattando,
occorre riferirsi alla realtà produttiva e sociale della città
quale si presentò ai tedeschi all’indomani dell’8
settembre. Nelle mani degli occupanti cadde allora un apparato
produttivo di prima grandezza, anche se segnato da contraddizioni,
ritardi e inefficienze, fondamentale per la guerra italiana, finché
essa andò avanti bene o male, per quanto concerne gli
armamenti (acciaio, navi, cannoni, proiettili e carri armati), e poi
ugualmente importante per la prosecuzione della guerra nazista dopo
l’armistizio.
Ma
questa realtà produttiva era anche una realtà sociale
eccezionalmente omogenea e compatta, che faceva di Genova
un’autentica metropoli operaia. Secondo i dati dell’ultimo
censimento prima della guerra, l’occupazione industriale era
superiore al 45 %, il settore metalmeccanico copriva oltre il 38 %
del comparto industriale e gli operai salariati rappresentavano più
del 47 % della popolazione in condizione professionale: un valore
quest’ultimo superiore anche a quello di Milano e Torino. Circa
cinquantamila operai si addensavano in un’area geografica
continua che si snodava da Sampierdarena lungo la costa verso Sestri
Ponente e Voltri e verso l’interno lungo la Valpolcevera oltre
Pontedecimo. Oltre 30.000 di questi, in gran parte dell’Ansaldo,
erano concentrati in soli 8 grandi stabilimenti, tutti con una
presenza superiore ai 3000 operai, alcuni superiore ai 5000. La gran
parte di questa manodopera apparteneva ai settori qualificati e
specializzati, coltivava l’orgoglio del proprio mestiere e un
senso speciale di attaccamento al lavoro come fonte di identità.
La
guerra con le sue emergenze contribuì a rafforzare
ulteriormente la compattezza di questo fortilizio sociale, che era
anche luogo di formazione di mentalità e culture comunitarie,
di solidarietà, di modi di vita destinati a dare un impronta
forte al territorio e a riverberarsi sulla storia dell’intera
città. Col procedere del conflitto e il profilarsi della
disfatta, il tessuto civile tendeva a disgregarsi, sottoposto alle
terribili prive della fame, del freddo, dei bombardamenti alleati,
alla rarefazione dei trasporti, ai rischi quotidiani. In questo
quadro la grande fabbrica e in particolare la grande azienda come
l’Ansaldo finì per assumere una centralità via
via più marcata: come polo di concentrazione che contrastava
con la rarefazione della vita urbana effetto dei bombardamenti e
degli sfollamenti; come luogo dove gli operai passavano la maggior
parte del loro tempo, anche a causa del dilatarsi degli orari di
lavoro e del crescere degli straordinari, mentre l’aumento del
pendolarismo ed il rallentamento dei trasporti comprimevano
proporzionalmente il tempo domestico; come erogatore di servizi
essenziali, che suppliva alle carenze delle autorità
pubbliche, ad esempio nel settore dell’alimentazione. In
definitiva, come luogo di circolazione di idee e di formazione di
volontà collettive. Per questo insieme di fattori, nel momento
in cui la società stava subendo processi di frantumazione e
prevaleva la ricerca individuale della sopravvivenza, la classe
operaia appariva come l’unico soggetto sociale compatto, dotato
di un grande senso del proprio ruolo e quindi capace all’occorrenza
di esprimere un grande potenziale di iniziativa.
Di
fronte a questa realtà gli occupanti si posero soprattutto un
obiettivo: sfruttare a fondo l’apparato produttivo locale per
la loro guerra giunta agli appuntamenti cruciali e contemporaneamente
neutralizzare il potenziale di protesta sociale che vi si annidava.
Peraltro, com’è ormai noto, essi non erano unanimi nella
scelta delle modalità con cui raggiungere questo obiettivo.
All’idea drastica - coltivata soprattutto negli ambienti
militari e negli apparati di sicurezza - di smantellare e ricostruire
altrove, nelle retrovie tedesche, gli impianti fondamentali
deportando in pratica le maestranze, si contrappose il progetto –
coltivato soprattutto negli ambienti dei responsabili dell’economia
di guerra - di una condotta più morbida, senza trasferimenti
di impianti né massicce deportazioni di manodopera, che
garantisse localmente la continuità produttiva anche adottando
una politica di concessioni agli operai ed evitando una
contrapposizione frontale.
Tra
gli occupanti, e in parte tra le autorità della Repubblica
sociale, si fece strada inizialmente la convinzione che Genova fosse
il terreno propizio per un esperimento di pacificazione che lasciasse
gli ambienti operai al di fuori del conflitto politico e ne
neutralizzasse eventuali tentazioni sovversive garantendo livelli
accettabili di vita. L’assenza della città dalle
agitazioni che avevano toccato Milano e Torino in marzo, la
costruzione, durante il periodo badogliano, di una vasta rete di
commissioni interne che potevano divenire strumento di mediazione ma
anche di ricatto, il clima di paura e di prudenza che aveva tenuto
gli operai lontani dalle fabbriche per molti giorni dopo l’8
settembre: tutto questo aveva alimentato l’illusione di una
classe operaia più malleabile, più attenta a garantire
la salvaguardia di interessi immediati, più ostile ad azioni
che la esponessero ai rischi di rappresaglie, potremmo dire più
neutrale rispetto allo scontro che si profilava, e che riguardava le
sorti della città, del paese, per certi aspetti le sorti
stesse dell’Europa in uno dei momenti più drammatici
della sua storia. Se così fosse stato, l’intera
dislocazione delle forze in campo sarebbe stata diversa. E diversa
sarebbe stata la nostra storia.
3.
L’illusione della tregua sociale e il protagonismo operaio
L’illusione andò in frantumi nella seconda metà
di novembre del 1943, sotto la spinta di due fattori convergenti: il
peggioramento inarrestabile delle condizioni di vita da un lato, la
tendenza, venuta alla luce in molti settori della classe lavoratrice,
a organizzarsi e a far valere le proprie ragioni sia economiche sia
civili senza lasciarsi intimorire dalla presenza minacciosa
dell’apparato militare e poliziesco nazifascista. Tutto ciò
non era affatto scontato. Prima una serie frammentaria di agitazioni
spontanee nelle fabbriche, poi uno sciopero generale dei tranvieri
svoltosi il 27 novembre contro l’arresto di alcuni compagni,
ruppero l’incantesimo, mettendo la realtà in movimento.
Imprevista dalle autorità nazifasciste, l’agitazione
colse di sorpresa le stesse forze dell’antifascismo, e persino
quella fra loro che per ragioni ideologiche e organizzative avrebbe
dovuto possedere più strumenti per cogliere in anticipo e per
condizionare le dinamiche della realtà sociale, ossia i
comunisti. In fondo, la risposta dei lavoratori nel cuore della città
aveva messo in discussione la pace sociale nazifascista e costretto
la Repubblica sociale a rivelare il suo ruolo di fiancheggiamento
subalterno, ben prima che prendesse forma un movimento partigiano di
una qualche consistenza e solidità.
Dopo
poco più di una settimana, l’agitazione riprese,
sfociando in un formidabile movimento di scioperi contro la
diminuzione della razione alimentare di olio, che per circa dieci
giorni attraversò l’area industriale della città
coinvolgendo una massa di molte decine di migliaia di lavoratori.
Questa volta gli scioperi provocarono una risposta più dura,
con l’arresto e l’esecuzione brutale di due operai,
Armando Maffei e Renato Livraghi, fucilati il 18 dicembre. Ma
ottennero anche una serie significativa di concessioni di natura
salariale e alimentare. Nell’apparato nazifascista sembrò
che la situazione fosse ancora recuperabile, e che le concessioni
potessero consentire di ripristinare la pace sociale violata. La
questione era di vitale importanza, perché nel frattempo
cominciavano ad avvertirsi i segni di un ribellismo partigiano
destinato a crescere nelle montagne circostanti. Ma non era così.
Meno
di un mese dopo, un altro movimento di lotta attraversò la
città operaia, facendo precipitare la situazione, rendendo la
lacerazione irreversibile e alzando il livello dello scontro. La
ricca documentazione ormai disponibile ci consente di ricostruire con
ampiezza di dettagli anche i retroscena della vicenda. La vastità
dell’agitazione (anche in questo caso circa 50.000 operai), gli
attentati che l’accompagnarono a opera dei GAP e in particolare
di Giacomo Buranello, fecero inferocire i tedeschi e gettarono nello
scompiglio le autorità della Repubblica sociale, spingendo
entrambi a una reazione durissima. Allo sciopero si rispose con la
serrata e con la fucilazione di otto antifascisti che calò un
velo di terrore su tutto il movimento. Nel corso di una riunione
tenutasi all’Hotel Colombia tra le massime autorità
germaniche, l’amministratore delegato dell’Ansaldo
Agostino Rocca e il capo della provincia Basile allo scopo di
decidere le misure da prendere, il generale Zimmermann fece
dichiarazioni minacciose cariche di insofferenza per una città
e un mondo del lavoro che sembravano sfuggire al tallone di ferro
delle sue armate e costituivano perciò un’intollerabile
eccezione nel quadro europeo, una sfida che i tedeschi non potevano
perdere: “le autorità germaniche – disse tra
l’altro – non intendono tollerare gli scioperi e come
sono riuscite ad evitarli in Francia, in Belgio, in Olanda e negli
altri territori occupati, così intendono riuscire anche in
Italia”.
La
spietata rappresaglia e la mancanza di qualsiasi esito dal punto di
vista rivendicativo fecero si che lo sciopero fosse vissuto come una
sconfitta e quindi seguito da un momento di paralisi che decretò
l’assenza di Genova dalla sciopero generale dell’alta
Italia nel marzo del 1944. La durezza della repressione aveva
ristabilito temporaneamente i rapporti di forza, ma i dati di fondo
della situazione non si modificarono. L’illusione di una
collaborazione che rendesse la città intera – a partire
dal suo cuore operaio - inerte e passiva, era tramontata
definitivamente. Che tra la classe operaia e il regime di
occupazione, fiancheggiato dai fascisti repubblicani, si fosse aperta
ormai una vera e propria guerra guerreggiata, si vedrà bene
nell’azione del 16 giugno, quando con una autentica operazione
di accerchiamento militare i nazifascisti bloccarono quattro tra le
maggiori fabbriche del ponente (S. Giorgio, SIAC, Piaggio e Cantiere
Navale Ansaldo), prelevandone e deportandone circa 1500 operai. Fu
questo forse il momento più drammatico della resistenza
operaia, come le memorie e gli studi hanno sottolineato: quello in
cui l’occupazione prese la forma più esplicita di
violenza di massa contro i civili, mettendo a nudo in maniera
irreversibile il volto del nazifascismo. Sarà la limpidezza e
la durezza di questo scontro sociale a connotare in maniera decisiva
il movimento di liberazione, nonché a dare un’impronta
incancellabile alla storia futura della città, contribuendo a
definire la spina dorsale della sua cultura antifascista che rimane
anche oggi come una sorta di carattere originario della nostra vita
collettiva.
Quel
che mi preme sottolineare, a conclusione di questa rievocazione
necessariamente sommaria, è proprio questo punto del
significato da assegnare alla presenza della classe lavoratrice nella
storia della Resistenza in città e nell’intera Italia
del Nord. Sarebbe un errore indulgere a una visione oleografica del
protagonismo operaio, idealizzarlo come frutto astratto di una scelta
di campo, come la conferma scontata di una tradizione antifascista
che non avrebbe mai cessato di caratterizzare la classe lavoratrice
anche nei momenti di maggior solidità del regime. Certo, la
memoria del passato, delle violenze subite nella guerra civile del
primo dopoguerra e della prepotenza fascista, ebbe il suo peso. Ma la
storia concreta di quei venti mesi mostra che solo non di questo si
trattò. La storia della classe operaia genovese, come del
resto quella del movimento partigiano, non è una marcia
trionfale su binari prefissati. Gli operai genovesi, come quelli di
Milano e Torino, furono mossi insieme da interessi materiali di
sopravvivenza, dalla difesa della propria dignità, dalla
solidarietà con i compagni colpiti, dalla reazione contro le
prepotenze subite, in una catena di vicende che nessuno poteva
prevedere. Un complesso di motivi diversi fu alla base della loro
azione. Non una vocazione e un’integrità originaria, ma
una serie di circostanze in parte inattese li portò sul
terreno di uno scontro generale e quindi li spinse a giocare un ruolo
di primissimo piano sullo senario di una guerra che stava segnando le
sorti dell’Europa e di una guerra di liberazione che avrebbe
cambiato il volto del paese.
In
sede di bilancio storiografico, questo soprattutto si può
dire: che essi ebbero il merito di giocare fino in fondo, con
coraggio e determinazione, la parte che vicende altamente drammatiche
avevano loro assegnato. Lo riconoscevano del resto – con
riferimento all’ondata di lotte che investì l’Italia
del Nord nell’inverno del 1943-1944 culminando nello sciopero
generale di marzo, gli stessi alleati, che ne traevano occasione per
rettificare uno stereotipo antiitaliano corrente nell’uno e
nell’altro campo: “In fatto di dimostrazione di massa –
scriverà il “New York Times” del 9 marzo 1944 –
non è mai avvenuto nulla di simile che possa assomigliare alla
rivolta degli operai italiani. Lo sciopero è il punto
culminante di una campagna di sabotaggi, di scioperi locali e di
guerriglia che sono meno conosciuti dei movimenti di resistenza di
altri paesi perché l’Italia del Nord è rimasta
più di altri tagliata fuori dal resto del mondo. Ma è
una prova impressionante che gli italiani disarmati come sono e
sottoposti a una doppia schiavitù, sanno combattere con
coraggio e con audacia quando hanno una causa per cui combattere”.
Tornando
a tutto questo, non si può fare a meno di pensare quanto
riduttiva e fuorviante sia l’interpretazione elitistica della
Resistenza che si è tentato di far passare in questi anni
grazie anche allo strepito dei media: interpretazione per la quale
l’Italia del 1943-45 fu teatro di una contesa fra fazioni
minoritarie contrapposte, alle quali la stragrande maggioranza della
popolazione sarebbe rimasta estranea e indifferente, di nulla
preoccupata se non di uscire indenne dalla bufera. Interpretazione
irrealistica prima che tendenziosa, che si sbriciola al solo
immergersi in una storia come quella della nostra città, delle
sue delegazioni operaie, delle sue concentrazioni industriali dove
infuriarono lo scontro sociale e la repressione, dove si costruì
in maniera drammatica l’identità sociale e politica
della Genova repubblicana e antifascista nella quale ci siamo
riconosciuti e tutt’ora vogliamo continuare a riconoscerci. E
che costituisce una parte fondamentale della conquista di una nuova
dignità nazionale fondata sulla democrazia, che oggi siamo
chiamati ancora a salvaguardare, come irrinunciabile patrimonio
comune.
Bibliografia
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A.
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alla guerra, a cura di G. De Rosa, Laterza, Bari 1999.
M
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sindacale nella Resistenza genovese, in “Storia e memoria”,
n. 2, 2004, n. speciale su Radici sociali della nostra democrazia.
I lavoratori italiani nella Resistenza.
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