|
Il 1° Congresso dei Comitati di Liberazione Nazionale e le
nuove culture politiche
Luigi Masella
Non è infrequente, oggi, incontrare docenti che constatano con
amarezza una caduta di interesse delle più giovani generazioni
verso la storia e in particolar modo verso le vicende drammatiche del
proprio paese nel corso del ‘900, che pure continuano ad essere
fondamento del nostro vivere democratico. Per questo, oggi, non può
essere intento nostro solo quello di celebrare eventi che per molti
giovani rischiano di risultare lontani non solo nel tempo, ma anche
nel cuore; deve essere nostro proposito quello di riflettere insieme
su avvenimenti che forse, al di là di ogni retorica, possono
significare ancora qualcosa. Il primo Congresso dei Comitati di
liberazione nazionale, che si svolse a Bari il 28 e il 29 gennaio
1944 ,costituì la prima voce libera che in maniera ufficiale
si levasse nell’Italia occupata e anzi fu la prima
manifestazione democratica che avesse luogo in Europa ,in un paese
fino a poco tempo prima schiacciato dal fascismo. In quell’inverno
‘43-‘44 l’Italia come stato nazionale di fatto non
esisteva più, e non solo perché tutto il paese da Roma
in su era ancora nelle mani dei tedeschi, ma anche perché la
parte liberata, quella meridionale, non godeva di una sua effettiva
indipendenza; qui a decidere della vita civile e politica erano
ancora le truppe anglo americane, che stabilivano autonomamente il
percorso che gli Italiani avrebbero dovuto seguire per giungere a un
nuovo sistema politico. Se allora il punto di vista americano
risultava più disponibile a soluzioni più avanzate,
quello inglese , al quale era riconosciuto un più incisivo
diritto di controllo nell’area mediterranea, era nettamente più
favorevole ad una permanenza della monarchia e ad un governo
fortemente moderato, affidato al generale Badoglio. La storiografia
sul quel periodo della nostra storia nazionale è concorde nel
rilevare sia l’isolamento delle nascenti forze politiche nel
Mezzogiorno, sia la loro difficoltà a contrastare i disegni
fortemente conservatori di Badoglio e di una classe dirigente legata
ancora a Vittorio Emanuele III e decisa ad ostacolare uno sviluppo in
senso pienamente democratico del sistema politico italiano. Proprio
alla luce di questo contesto si può formulare una prima
valutazione del Congresso di Bari. Progettato come un primo momento
di confronto fra tutti i comitati di liberazione per definire una
linea comune in ordine alla questione istituzionale e al ruolo che la
parte libera dell’Italia, riconosciuta cobelligerante dopo
l’armistizio del 8 settembre, avrebbe dovuto svolgere nel
proseguo della guerra, il congresso avrebbe dovuto essere celebrato a
Napoli. Contro ogni ipotesi di convegno di forze politiche nuove e
fortemente critiche dell’operato di Badoglio, però, si
levò l’opposizione alleata ,inglese in particolare, e
insieme ad essa la forte resistenza del governo badogliano, che
vedeva nell’iniziativa un pericolo per l’ipotesi di
gestione moderata del dopoguerra. Fu anzi proprio il governo
Badoglio, appena si diffuse la notizia, a cercare subito di
dissuadere innanzi tutto le personalità più note del
fronte antifascista, da Croce, al democristiano Rodinò, al più
irrequieto repubblicano conte Sforza, al vecchio De Nicola, dal
partecipare all’incontro. Non avendo ottenuto alcun risultato
da quel versante, si rivolse quindi alle autorità alleate
,perché non concedessero l’assenso; e l’obiettivo
fu infatti inizialmente raggiunto perché la sera del 5
dicembre un ufficiale americano comunicò ad Arangio Ruiz,
presidente del CLN napoletano che la celebrazione del congresso
veniva proibita per ragioni di ordine pubblico, per essere Napoli
troppo vicina al fronte. Per di più, quasi contestualmente al
divieto di un Congresso dei CLN veniva impedita anche una
commemorazione pubblica ad iniziativa dei partiti antifascisti di
Giovanni Amendola, il deputato e ministro nel governo Facta
,aggredito dai fascisti e morto in Francia nel ’25 per i
postumi dell’aggressione. Al di là di una valutazione
di merito dei contenuti del congresso, lo stesso svolgimento
successivo di quella vicenda è un esempio molto significativo
del modo in cui una classe dirigente, sia pure in una difficile fase
di iniziale formazione, ricerca e rivendica in una situazione di
totale occupazione militare un proprio spazio di autonomia
decisionale. Fu Croce stesso, chiamato d’urgenza a Napoli,
nella sede del CLN, a sollecitare la firma di una lettera di protesta
indirizzata direttamente a Churchill, Stalin e Roosevelt, per
richiamarli ai deliberati della precedente Conferenza di Mosca
dell’ottobre ‘43,nella quale era stato riconosciuto il
diritto di parola e di riunione alle rappresentanze politiche
italiane. Con la sua fermezza riuscì anzi a convincere ad
apporre la propria firma alla lettera di protesta anche i
rappresentanti cattolici, all’inizio più incerti e
restii ad esporsi ad un rischio di rottura con le truppe alleate.
Nel successivo incontro con le rappresentanze militari alleate si
ottenne così che il congresso si svolgesse, se non a Napoli,
appunto troppo vicina alle linee militari, a Bari. Già lo
svolgimento di tutta questa vicenda segnale dunque un primo punto
importante.Le forze politiche che all’indomani della caduta del
fascismo operano in un contesto militare internazionale sfavorevole
e in regime di occupazione militare, intendono trarre la loro
legittimazione non dalla totale consonanza e condiscendenza con gli
eserciti occupanti, che pure considerano liberatori, ma dalla
convinzione di esprimere nella loro unità di intenti una
ritrovata diversa unità nazionale. «Si tratta – è
stata detto giustamente – di un aspetto che non va
sottovalutato e che caratterizza in modo profondamente
“diverso”l’affacciarsi dei partiti antifascisti
alla direzione del sistema politico italiano.Esso esprimeva una
spinta di liberazione dai vincoli di subordinazione al nazismo che
Mussolini aveva posto in essere, ma conglobava in questo medesimo
atteggiamento una sorta di ritrovato spirito d’unità
nazionale che proclamava l’esigenza d’autoidentificarsi
al di fuori delle imposizioni esterne: così come, del resto,
la propaganda alleata aveva promesso che gli italiani sarebbero stati
liberi di fare. E proprio mentre le forze conservatrici tentavano di
ritrovare loro specifici vincoli di interdipendenza sui quali
ricostruire la propria capacità di controllo sociale»
(Di Nolfo 1979). Questa stessa capacità di recuperare spazi di
autonomia in un contesto di occupazione militare dovrà poi
cercare un altro concreto terreno di verifica nel confronto di
opinioni il 28 e il 29 gennaio 44 a Bari, evento sul quale la disputa
storiografica ha manifestato pareri non uniformi. Il Congresso, come
è noto, fu introdotto da un denso e importante discorso di
Benedetto Croce. Il filosofo napoletano è rimasto un grande
liberale e un grande moderato, vuole anzi conservare la monarchia e
ripristinare quell’Italia liberal giolittiana , che guerra e
fascismo hanno dissolto, e, proprio per mettere fra parentesi il
regime ed evitare cambiamenti radicali, rivendica l’allontanamento
definitivo di quel re, complice di Mussolini in una politica che ha
trascinato il paese nella rovina. Ma Croce è anche un grande
storico e nel suo discorso la richiesta agli anglo americani di
abbandonare la loro politica, “unilaterale” e “angusta”,
così la definisce, che ritarda l’estirpazione del
fascismo per evitare una eventuale anarchia che ritarderebbe le
operazioni militari contro i tedeschi, è legata strettamente
alla convinzione che la rifondazione di una patria e di un’unità
nazionale deve trovare nuove basi. La fedeltà all’Italia
è infatti passata egli dice attraverso la dolorosa convinzione
che del proprio paese, dominato dal fascismo, era necessario
augurarsi la sconfitta. Perché «la presente guerra non
era una guerra tra popoli ma una guerra civile, e più
esattamente ancora, che non era una semplice guerra di interessi
politici ed economici,ma una guerra di religione, e per la nostra
religione , che aveva il diritto di comandarci, ci rassegnammo al
penoso distacco dalla brama di una vittoria italiana ,di una vittoria
che sarebbe stata non solo la rovina del restante mondo ma quella
dell’Italia resa schiava della Germania ». Proprio in
ragione di questa posizione egli si sente legittimato a chiedere agli
alleati il riconoscimento del diritto della nuova Italia che stava
nascendo di contribuire con un contingente di militari italiani alla
guerra contro l’esercito tedesco e soprattutto di dar vita a un
governo non corresponsabile della continuità di azione del re
Vittorio Emanuele III, che avrebbe dovuto essere rimosso dalla sua
funzione di guida del paese. Soprattutto la risoluzione della
questione istituzionale, infatti, fu al centro della discussione fra
i partiti; essa era individuata come condizione indispensabile alla
successiva partecipazione dei partiti antifascisti al governo
nazionale e costituiva la richiesta principale di tutti gli ordini
del giorno presentati alla Presidenza del Congresso. Le sinistre,
dal canto loro ,partito comunista, partito socialista e partito
d’azione, proposero unitariamente un ordine del giorno che
prevedeva l’immediata abdicazione del re e la trasformazione
del congresso in “Assemblea rappresentativa dell’Italia
liberata”, una specie di Assemblea Costituente alla quale
sarebbero spettati i poteri necessari per la formazione di un nuovo
governo. Era una scelta politica, che pur potendo far registrare la
maggioranza dei consensi fra quanti partecipavano al congresso,
rischiava di dividere l’assemblea e soprattutto richiedeva un
livello di consenso e di mobilitazione della popolazione, che
presupponeva una sua maturazione rapida in senso antifascista e
rivoluzionario e una diffusione alta e radicata dei partiti nei
territori liberati, tutti aspetti ancora da verificare. Ciò
peraltro sarebbe avvenuto in un contesto politico militare più
complesso e in fondo più ostile al riconoscimento di un ruolo
centrale dei partiti politici nella transizione italiana ad una fase
postfascista. Infatti la decisione presa Teheran nel dicembre ’43,
poco più di un mese prima del congresso, da Churchill, Stalin
e Roosevelt di aprire finalmente un secondo fronte di guerra in
Europa Occidentale nella primavera del ’44 , rendeva
temporaneamente meno importante il fronte sud, il mediterraneo. Di
conseguenza il generale Eisenhower, nominato comandante dell’esercito
alleato destinato a quello che sarebbe diventato lo sbarco in
Normandia, lasciava il comando del Mediterraneo all’inglese
Maitland Wilson; e gli inglesi erano meno favorevoli ai partiti del
comitato di liberazione nazionale e appoggiavano con maggiore impegno
il governo Badoglio e la monarchia. Se in prospettiva il disegno di
una egemonia inglese nel Mediterraneo e in Italia avrebbe dovuto fare
i conti con la nuova potenza americana, nell’immediato il
mutamento della situazione militare costituiva un ulteriore pesante
impedimento all’effettivo dispiegarsi della proposta dei
partiti di sinistra al congresso di Bari. Pur collocando la posizione
di Croce in un contesto di moderato liberalismo costituzionale e di
persistente fiducia nel ruolo dell’istituto monarchico, è
tuttavia difficile non riconoscere il fondamento delle sue reazione
durissime all’ordine del giorno presentato dai tre partiti, che
tra l’altro avevano già registrato anche l’opposizione
cattolica. Alle rimostranze per un’operazione che non aveva
coinvolto sin dall’inizio le componenti moderate e liberali,
Croce univa una valutazione fortemente negativa dell’ordine del
giorno, perché esercitava poteri che non aveva e soprattutto
non era in grado di assumere, in quella condizione di isolamento e di
presunzione di un consenso di massa nelle zone liberate, che,
appunto, era ancora tutto da verificare. L’irritazione, certo,
era dettata anche dal timore che certe prese di posizione potessero
creare ostacoli seri ad una trattativa segreta che, tramite De
Nicola, lo stesso Croce aveva promosso per convincere il re a cedere
i propri poteri ad un altro esponente della Casa Reale , o abdicando
a favore del figlio Umberto o nominando suo luogotenente un altro
esponente di Casa Savoia, in modo da salvare la dinastia,
sacrificandone il rappresentante più esposto e ormai
malvisto.Tuttavia le sua posizione fortemente critica non risultava
infondata. Il compromesso raggiunto con la mozione finale , come è
noto, denunciava la figura del re, “responsabile delle sciagure
del paese” e affidava non all’Assemblea congressuale,
trasformata quasi in Assemblea Costituente, ma ad una “Giunta
Esecutiva permanente” il compito di predisporre le condizioni
necessarie alla composizione di un nuovo governo legittimato dalla
presenza di tutti i partiti. La Giunta non produsse tuttavia
significativi risultati e la stessa mozione di compromesso non
produsse chiare valutazioni da parte di Croce, che nei suoi Taccuini
di guerra, prende atto soltanto della notizia che gli viene
riferita, senza aggiungere alcuna valutazione personale, e passa
senz’altro a scrivere del suo incontro con la giovane
scrittrice Alba de Cespedes, nel pomeriggio dello stesso 29 gennaio,
in casa Laterza. Un’accusa di astrattezza e di estremismo
radicale, da parte moderata, dunque, che, sia pure con motivazione
diverse (il tentativo di mantenere in piedi nel paese una monarchia
costituzionale), tuttavia sembra anticipare analoghe valutazioni, che
emergeranno in seguito, soprattutto da parte comunista, dopo il
ritorno di Togliatti e con la cosiddetta svolta di Salerno. La
pregiudiziale istituzionale, che legava l’ingresso nel governo
dei partiti del Comitato di Liberazione, alle dimissioni di Badoglio
e all’abdicazione del re, si faceva rilevare da quella parte,
non solo divideva il fronte antifascista e gli impediva di assumere
decisioni importanti in materia militare, oltre che politica, ma
soprattutto rischiava di far passare in secondo piano la lotta
nazionale contro i tedeschi . E questi avevano già lasciato
una scia di sangue ritirandosi dalla Puglia, dove la Wermacht insieme
alle SS tra il settembre e il novembre del 1943, poco prima dunque
del congresso di Bari, aveva ucciso ben 234 abitanti di comunità
pugliesi e lucane. Già allora, anzi, era apparso chiaro che un
legame forte tra gli forzi dei primi nuclei antifascisti meridionali,
prevalentemente intellettuali e urbani e i primi significativi
momenti di resistenza patriottica nel Mezzogiorno era per il momento
estremamente complicato, tanto che risultò agevole agli
apparati locali, monarchici e badogliani ridimensionare subito la
portata di quegli avvenimenti e annegare il ricordo di essi nella
lunghezza inconcludente dei processi postbellici o nella eclisse
degli stessi fascicoli processuali. E ora, mentre si stava svolgendo
il congresso a Bari i tedeschi da Roma in su si stavano predisponendo
ad un’occupazione feroce del territorio e ad una strategia di
repressioni e rappresaglie più violente e radicali. La
polemica politica divenne più tardi polemica storiografica e
il giudizio sulla mancata soluzione della questione monarchica già
a Bari si intrecciò con le perplessità suscitate dalla
decisione comunista e poi delle sinistre di entrare nel governo per
comporre in funzione antitedesca l’unità nazionale; una
decisione,quella del PCI, sulla quale le scelte diplomatiche della
Unione Sovietica avrebbero influito in maniera molto pesante.
Sarebbero state queste ,ormai interessate ad un rapporto diverso con
il governo Badoglio, al quale era giunto, prima ancora che dagli
Stati Uniti e dall’Inghilterra, il riconoscimento diplomatico
dell’URSS, a indurre il segretario del PCI a modificare un
orientamento, inizialmente molto simile a quello dei rappresentanti
degli altri partiti, e testimoniato da iniziali manifestazioni di
incertezza e spesso di ostilità da parte dei comunisti
meridionali nei riguardi di un possibile ingresso di loro
rappresentanti nel governo. Non è questa la sede per
riproporre la discussione di un tema sul quale nuovi documenti, da
quelli sul PCI e l’Italia conservati a Mosca al diario di
Dimitrov , hanno gettato nuova luce sul modo in cui venne elaborata
una politica estera dell’URSS tra il ‘43 e il ‘44 e
sul ruolo non passivo di Togliatti, allora dirigente del Comintern
oltre che segretario del PCI, alla definizione di essa, in una
logica, che pur entro i vincoli del sistema staliniano, intrecciava
questioni internazionali e problemi italiani. Del resto dei limiti
per così dire “illuministici” del Congresso di
Bari furono ben presto consapevoli anche autorevoli protagonisti di
quella vicenda e Tommaso Fiore, uno dei relatori al Congresso, nella
prefazione alla ristampa degli atti del Congresso, nel 1964,
riconobbe che non di più di quel che fecero avrebbero potuto
fare «i partiti appena rinascenti, quando la loro forza era
bambina...Noi – continuava Fiore – preparavamo il
terreno per una società diversa,ma questa sarebbe diventata
diversa soltanto se avessero preso coscienza le forze popolari, di sé
e del proprio diritto». Il Congresso era cioè il primo
passo di un cammino più lungo e difficile, che avrebbe dovuto
comprendere la guerra patriottica e civile nel resto dell’Italia
, una guerra dura e vera, parte non ultima della campagna d’Italia,
aperta dagli angloamericani con lo sbarco in Sicilia e conclusa con
la resa di Kesserling nel ’45, un fronte di guerra diventato
certo secondario rispetto a quello aperto in Normandia, ma non per
questo meno insanguinato dagli scontri armati, come talvolta sembra
invece voler intendere certa produzione storiografica. Il Congresso
fu comunque un primo passo, si diceva, e se svincoliamo quella
vicenda da discussioni sostanzialmente superate e dalle altre
polemiche suscitate spesso da forme non sempre corrette di uso
pubblico della storia, e ne verifichiamo l’eco non solo
all’interno dell’Italia divisa in due, ma in ambito
internazionale, la sua rilevanza risulta notevolmente accresciuta.
Negli Stati Uniti l’avvenimento verrà considerato dal
«Times» la prima importante testimonianza di un processo
di ricostituzione di un sistema democratico e alimentò le
spinte all’interno dell’establishment rooseveltiano ad
agevolare il processo di rinnovamento della società italiano,
contestando la piega sostanzialmente reazionaria che
l’amministrazione badogliana stava prendendo nel Mezzogiorno.
Eco minore ebbe inizialmente,invece in Inghilterra nei giorni
immediatamente successivi al congresso, secondo la relazione del
Psychological Warfare Branch del 31 gennaio del 1944. Ma anche in
questo caso i commenti di Radio Londra, e l’iniziativa
propagandistica di italiani residenti in Inghilterra, dal Treves a
Colosso, contribuirono ad offrire all’opposizione laburista
motivi di nuovi interventi e pressioni sulla maggioranza tory e sul
governo di Churchill, più diffidente verso i nuovi partiti
democratici , e certamente più favorevole ad una soluzione
moderata e filomonarchica della questione italiana. Un ultimo punto
va infine sottolineato. Non si può sottovalutare il fatto che
il Congresso di Bari costituì la prima manifestazione pubblica
dei nuovi partiti politici, l’occasione in cui vennero a
confronto davanti all’opinione pubblica, sia pur limitata, le
culture politiche che avrebbero poi costruito l’Italia
repubblicana. E’ certamente vera la fotografia di una
popolazione sconfitta e affamata che circonda e applaude i carri
armati alleati che entrano nelle città, di scugnizzi che
chiedono sigarette e cioccolata al robusto marine, magari italo
americano; ma quella fotografia va affiancata ad un’altra. E’
meno diffusa in quei primi mesi di dopoguerra nel Mezzogiorno, ma non
per questo meno significativa. E’ l’immagine di vecchi
antifascisti e di nuovi e più giovani dirigenti che si
riuniscono al teatro Piccinni, ma soprattutto testimoniano la
maturazione della consapevolezza che partecipazione e politica non
devono più avere i significati dispregiativi che avevano avuto
fino allora e che il coinvolgimento di settori ampi di società
civile, ancora disgregata, era possibile sotto attraverso l’azione
dei partiti politici, che bisognava mettere o rimettere in piedi e
far crescere. E questo è l’altro dato che va
sottolineato. Il Congresso di Bari è in fondo il primo momento
di confronto pubblico fra le diverse culture politiche che stanno
emergendo dopo la caduto del fascismo. Molti dei protagonisti di
quell’avvenimento, certo, negli anni successivi, non
compariranno più in prima fila nella vita politica nazionale,
la stessa configurazione dei partiti risulterà in seguito
ridefinita dai nuovi contesti internazionali e dalla necessità
di adeguare linee e programmi ai risultati di nuove e più
approfondite analisi del quadro politico e sociale del paese. Il
vento del nord da un lato, il ruolo preminente svolto dalla
resistenza armata al di là della linea gotica, la più
forte ipoteca moderata nella vita politica meridionale, con una
presenza della destra monarchica, che tarderà molto a
tramontare, e soprattutto molto contribuirà a indebolire la
memoria di un antifascismo e di una resistenza anche nelle regioni
meridionali, contribuiranno a lasciare su uno sfondo lontano quel
primo avvenimento democratico dell’Europa liberata . Resta il
fatto che se il Congresso di Bari non si trasformò, né
avrebbe potuto, trasformarsi in assemblea rivoluzionaria, in quel
contesto di autonomia attentamente vigilata dalle truppe di
occupazione, di fatto operò come qualcosa che si avvicinava
tuttavia ad un assemblea parlamentare, nella quale erano
rappresentati i partiti di un possibile nuovo sistema politico. E per
questi l’elemento di unificazione era dato non solo dalla
negazione del fascismo, una forma di antifascismo che perciò
stesso si concluderebbe con la fine del regime, ma dal raccordo che
essi instauravano, e in maniera stretta e consequenziale, al di là
delle specifiche differenze, fra antifascismo e progetto di nuovi e
diversi equilibri fra tutte le componenti della società , fra
antifascismo e un percorso politico volto alla costruzione e al
progressivo consolidamento di una moderna democrazia. Checché
ne pensino gli storici cliometrici, e a maggior ragione nella storia
politica, l’analisi controfattuale non funziona, ma certo non
ci si può esimere dal riflettere su quanto avrebbe potuto
incidere l’assenza di quegli avvenimenti, con l’eco che
suscitarono, su una eventuale crescita di consensi al blocco
monarchico conservatore nelle successive competizioni elettorali, a
partire in primo luogo dal referendum istituzionale del 2 giugno
’46.
|