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Dalla Resistenza alla Costituzione: la formazione della classe politica repubblicana
Mariuccia Salvati
1. Il posto del fascismo oggi: tra due sessantennî
di storia d’Italia
L’occasione per cui siamo qui riuniti
è la celebrazione del sessantesimo della Liberazione, del
movimento cioè che ha reso possibile l’avvio del nostro
paese sulla strada della democrazia. Sì, lo so, dovrei dire
che ha consentito il ritorno del nostro paese alla democrazia.
Ma oggi, nel soffermarmi sulle caratteristiche della classe politica
che nel 1945 si candidava a governare un paese in rovina sotto ogni
punto di vista, vorrei evidenziare soprattutto quei tratti culturali,
morali e politici che idealmente collegano i successi di allora ai
due dibattiti costituzionali attualmente in corso: quello sulla Carta
fondamentale del nostro paese e quello sulla Carta dei diritti
europea. Vorrei cioè, collocandomi idealmente nel 1945,
guardare soprattutto al futuro anziché al passato,
proiettarmi in avanti verso il 2005, anziché all’indietro,
verso il sessantennio precedente il 1922.
Lo spostamento di ottica sembra opportuno
per molti motivi, il principale dei quali è che nei
sessant’anni passati dal momento della Liberazione già
molto sul piano storico è stato fatto per collocare il
fascismo all’interno della complessiva storia d’Italia,
soprattutto da parte degli Istituti di storia della Resistenza e
nelle diverse occasioni di celebrazione degli anniversari: come si
ricorderà è almeno a partire dalle lezioni milanesi
degli anni ‘60
che si è avviata una stagione di ricerca e di riflessione che
sarebbe poi continuata con i grandi lavori connessi al trentennale e
poi via via al quarantennale e al cinquantennale, con approfondimenti
sempre più ampi sul contributo offerto dalle diverse culture
politiche alla scrittura della Costituzione. Molto lavoro in queste
occasioni è stato fatto per ricordare gli eventi, per
ricostruire le memorie, ma anche per collocare il fascismo sullo
sfondo del sessantennio liberale e per ricostruire il peso che quella
eredità ha rappresentato nella dinamica delle forze
democratiche nel sessantennio repubblicano.
Venendo dopo tanti dibattiti e movendo da
un patrimonio consolidato di ricerche, quale può essere oggi
il nostro apporto di riflessione? In che modo il tempo presente
condiziona e guida la nostra lettura di quegli eventi passati? Con
quali nuovi argomenti, storici, giuridici, politici, potremmo oggi,
per esempio, illustrare la nostra comune fedeltà a quel
momento fondativo che fu la scrittura del testo costituzionale? Come
spiegarla a una generazione non più di figli ma di nipoti dei
Costituenti? Una generazione, lo ricordo rapidamente, che è
nata dopo l’assassinio di Moro e gli anni del terrorismo, è
cresciuta assistendo all’indebolirsi contemporaneo e
parallelo del tessuto produttivo del paese e del sistema dei
partiti, ha visto chiudere le grandi fabbriche e aprirsi
Tangentopoli, trasformare il paese in un grande campo pubblicitario e
televisivo, ma che, d’altra parte, può oggi studiare e
comunicare con internet, fruire della rivoluzione dell’euro e
muoversi nell’Unione a 25.
Sarà a questa nuova generazione che
toccherà esprimersi sul posto dell’antifascismo
nella cultura politico-istituzionale del futuro, quel posto che oggi
viene contestato in nome della sua pretesa obsolescenza, confermata
dalle nuove ricerche sul decennio degli anni ‘70: da queste
infatti emergerebbe il fallimento della classe dirigente che
governava il paese fin dal 1945 a fronte delle gravi crisi di quegli
anni. In effetti, il declino della classe politica cementata
dall’unità del dopoguerra è indubbio e avviene
per molte ragioni, interne e esterne: per ragioni economiche in primo
luogo (crisi, inflazione, ma anche deriva affaristico-clientelare
degli enti pubblici - con la sola eccezione della Banca d’Italia,
non a caso sotto attacco nella figura di Paolo Baffi nel 1978-80),
per la elevata conflittualità sociale (si combinò
allora una crescita parallela di costi del lavoro e delle materie
prime energetiche), per un attacco diffuso alla cultura stessa della
democrazia, la cui forma istituzionale veniva messa in
discussione non solo dallo scontro tra gruppi cosiddetti
rivoluzionari e segmenti incontrollati degli apparati di Stato, ma
anche da ceti sociali nuovi che non si sentivano più
rappresentati dai partiti dell’antifascismo costituzionale.
La tesi che vorrei qui sostenere è
che, se è vero che oggi siamo meglio in grado di valutare ciò
che è stata la cesura della fine degli anni ‘70 e in
particolare del delitto Moro,
è anche vero che, soprattutto oggi, siamo anche in grado di
capire quello che non è stata: e cioè l’ora
zero dell’antifascismo, la fine dei valori espressi dal patto
costituzionale.
Come ci spiegheremmo altrimenti il fatto che questi
stessi valori, sotto altre forme – i diritti umani, la non
violenza, la pace, la solidarietà – hanno anzi ripreso
nuovo vigore nella coscienza delle giovani generazioni a partire
dagli anni ’90?
2. Da un sessantennio all’altro
Tra gli storici e i docenti di storia
contemporanea si è soliti iniziare un corso di lezioni citando
una riflessione che troviamo espressa nella classica Guida all’età
contemporanea di G. Barraclough: qui, come certamente molti di
voi ricordano, si esprime questo concetto. “La storia
contemporanea ha inizio quando i problemi che sono attuali nel mondo
moderno assumono per la prima volta una chiara fisionomia”. Ne
consegue che nella ricostruzione storica dei decenni antecedenti
l’accento sarà posto sulle origini dei fenomeni che
hanno piena visibilità nel mondo attuale, trascurando gli
altri. Lo spostamento metodologico auspicato da Barraclough è
tra i più moderni (non a caso è lo stesso operato da
H.Arendt ne Le origini del totalitarismo a proposito di
Auschwitz e dell’antisemitismo) perché, mettendo a fuoco
temi e questioni che risaltano per la loro attualità nel
presente, costringe a guardare all’indietro per cercarne le
origini e a illuminare di nuova luce fatti apparentemente già
consacrati dal giudizio storico.
Con un esercizio alquanto azzardato
isolerei due fenomeni tra loro connessi che hanno caratterizzato il
decennio appena trascorso e che ci invitano a rileggere la data del
1945 in una nuova prospettiva: europeismo e globalizzazione. Sebbene,
come è stato rilevato,
la globalizzazione rischi di snaturare l’europeismo, di
danneggiare cioè il significato profondo dell'Unione europea
così come si è venuta costruendo, appare evidente,
soprattutto dopo il 1989, come l’identità europea non
sia fatta di frontiere, ma di volontà di associazione tra
popoli che in comune hanno non solo obiettivi economici ma anche e
soprattutto politici: la pace. I due tipi di obiettivi, come ben
sapevano i padri fondatori, sono strettamente intrecciati:
L'Europa è dunque un gruppo di ex
nemici coperti di gloria e di infamia, che hanno scoperto nelle
rovine della guerra che cosa sia essere uniti dal sangue versato e da
un cambiamento politico e morale profondo. In virtù di questo
segno distintivo l'europeismo è il solo grande progetto
politico che non solamente sia sopravvissuto alla tragedia del XX
secolo, ma che da lì ricavi la sua forza.
Si può pertanto sostenere che questa volontà di
esorcizzare i vecchi demoni, come dimostra ancora oggi l'intensità
del dibattito sui crimini commessi nella prima metà del
secolo, abbia costituito e costituisca ancora per l'Europa un fattore
di coesione. La stessa “fantasia” costituzionale europea
ha dovuto ripartire dagli orrori della guerra e dalla priorità
della pace e del rispetto dei diritti umani per poter funzionare.
Come ha scritto nel 2000 il presidente della Repubblica Ceca Vaclav
Havel:
«All’inizio del processo di unificazione,
dopo la seconda guerra mondiale, l’Europa occidentale
democratica si trovò ad affrontare la memoria degli orrori di
due guerre mondiali e la minaccia del regime totalitario comunista.
Allora non era necessario parlare dei valori da difendere, perché
era evidente quali fossero. [...] Solo quando, un decennio fa,
sparì la minaccia fisica nei suoi confronti, l’Europa fu
spinta a impegnarsi in profonde riflessioni sui fondamenti morali e
spirituali dell’unificazione e su quali dovessero essere gli
obiettivi di un’Europa unita».
Dunque, Havel ci ricorda, se cinquanta-sessant’anni
fa non c’era bisogno di nominare questi valori, in quanto tutti
li avevano ben presenti, oggi è diventato necessario.
Ecco, è su questa diversa
sensibilità dell’oggi che vorrei porre l’accento,
perché essa si manifesta sia sul terreno della ricerca
storiografica relativa alle “ombre dell’Europa” che
su quello costituzionale europeo; ciò che è cambiato a
partire dagli anni ’90 è soprattutto l’elaborazione
della memoria storica che, declinata diversamente nei singoli
Stati, ha tuttavia trovato ovunque un terreno comune, il rifiuto
delle guerre civili infra-europee. Il riflesso di questo cambiamento
si palesa nella produzione storiografica: in un insieme di ricerche,
a livello europeo, che degli anni della guerra e della Resistenza
tende soprattutto a evidenziare - nel mentre rievoca gli orrori delle
stragi, dei bombardamenti e dell’accanimento crudele e
violento, in un conflitto che fu civile e “contro i civili”
non solo in Italia ma nell’Europa intera - il carattere di
scontro ideale, etico, ancor più che militare e politico.
Anche per questo tornante storiografico possiamo fare riferimento a
un fondamentale saggio di Claudio Pavone che bene illustra il
carattere di scontro ideale in corso all’interno delle diverse
correnti culturali, liberale, socialista, cattolica, e la convinzione
dei resistenti di combattere per un’altra Europa, per
un’altra Italia.
I passi avanti che si sono compiuti negli ultimi anni nella
ricostruzione del disegno internazionale dell’ordine fascista e
nazista dal punto di vista militare, amministrativo, economico,
razziale, riflettono un orientamento che ha abbandonato l’impianto
puramente comparatista per assumere decisamente quello di una storia
europea del ‘900 ,
ma che nel far questo riflette la consapevolezza di una comunanza
ideale raggiunta dai paesi una volta unificati dall’ordine
nazista, una comunanza ideale la cui importanza è apparsa più
evidente dopo il ricongiungimento con la parte dell’Europa
“sequestrata” (secondo la nota definizione di Milan
Kundera). Ha osservato Pavone nel saggio citato:
«Quanto più cresce oggi una coscienza
europea tanto più la guerra che ha sconvolto il continente
appare una guerra civile, e tanto più viene stimolata la
ricerca, fra le tante possibile Europe, di quella che visse la guerra
come un trauma che andava al di là dei consueti conflitti fra
Stati e che si sentiva come una ‘comunità immaginata’
in quanto, e proprio perché, a essa non corrispondeva nessuna
precisa organizzazione politica.
Il secondo aspetto su cui vorrei richiamare l’attenzione
è il ponte che, in virtù di questo comune sentire
resistenziale si è costruito con la costituzionalizzazione
di questi valori nel Trattato sull’Unione europea. Il richiamo
esplicito del Trattato alle tradizioni costituzionali comuni
degli Stati membri sancisce il riconoscimento de “l’esistenza
di un modello costituzionale europeo di fatto venutosi a
determinare nella effettività delle pratiche costituzionali
operanti nei diversi paesi europei, al di là delle evidenti
differenze pur esistenti tra quei paesi e tra le loro rispettive
costituzioni positivamente vigenti”»
I riferimenti negli articoli del Trattato
per la costituzione europea
delineano una comunanza ideale iscritta nelle costituzioni e su
quella base legittimano la costituzionalizzazione dei valori
riconosciuti comuni da parte della Comunità europea.
Accennavamo all’inizio di questo
paragrafo al tema congiunto della globalizzazione: in effetti, per
una corrente di studiosi non marginale, l’europeismo –
inteso nel senso ampio e civile sopra richiamato – costituisce
o dovrebbe costituire anche una possibile risposta ai disagi sociali
e umani causati dalle conseguenze della globalizzazione: una risposta
politica, una proposta culturale, un insieme di valori che
distinguono e dovrebbero continuare a distinguere il modello di
crescita economica europea da quello di altri paesi e continenti. In
un articolo recente che ha suscitato scalpore, L.Gallino si è
chiesto, per esempio, perché invece di chiudere le barriere
doganali ai prodotti cinesi non proviamo a esportare noi (Europa) i
diritti in Cina ed a rispettarli anche nei casi di delocalizzazione..
Trovo questo articolo
tutt’altro che utopico o paradossale. L’Europa ha
conquistato a caro prezzo nella seconda metà del XX secolo la
competenza e l’esperienza in un nuovo prodotto di esportazione
frutto della sua civiltà, e questo prodotto è la
capacità di combinare innovazione tecnologica e rispetto dei
diritti della persona. E’ questo il nostro prodotto tipico
di esportazione!
3. Dalla Carta costituzionale alla Carta UE: l’eredità
della cultura anti-totalitaria
Attenendomi alla sfera dei principi, vorrei
dapprima evidenziare come gli ambiti di diritto elencati dalla Carta
europea trovino riscontro, naturalmente con una diversa
articolazione, anche nei principi fondamentali (art.1-12) e nella
Parte I titolo I (Diritti e doveri dei cittadini) della nostra
Costituzione. Essi sono, nell’ordine, i grandi ambiti della
dignità umana, della libertà, dell’uguaglianza,
della solidarietà, della cittadinanza, della giustizia. Anche
il semplice elenco ci induce a una riflessione comparativa tra oggi e
60 anni fa, tra l’Europa del 2000 e l’Italia del 1945. E’
evidente per esempio, che l’assoluta priorità che nella
carta UE è attribuita al tema della dignità della
persona (che significa dunque il ricorso alla Corte europea di
giustizia per il rispetto della integrità fisica, per la
condanna della pena di morte, di trattamenti inumani, della schiavitù
o del lavoro forzato) è il riflesso del riattizzarsi della
guerra civile europea o dei fenomeni di globalizzazione economica
negli anni ‘90, mentre vi appare meno urgente il tema della
cittadinanza, che invece occupa un posto primario tra i Principi
fondamentali della nostra Costituzione (attraverso i temi correlati
della sovranità popolare, del rapporto tra cittadinanza e
ostacoli di ordine economico e sociale, del diritto/dovere al
lavoro). La preminenza della cittadinanza nella Carta italiana del
1945 è da attribuirsi al fatto che si usciva allora da un
regime totalitario, a sua volta esito di una fallita transizione alla
democrazia, e che dunque la partecipazione attiva dei cittadini
rappresentava il freno più sicuro per l’eventuale
risorgere del pericolo totalitario.
Proseguendo nel ragionamento sviluppato fin
qui vorrei ancora argomentare che al centro dell’unità
costituzionale si pone non tanto un patto inteso come compromesso
politico, ma una cultura del rispetto della persona che era nata dal
comune rigetto del fascismo e di ogni forma di totalitarismo. E’
cultura della vita contro cultura della morte, una cultura che
affonda le sue radici nell’altra Europa, e che appare
già visibile in un appassionato articolo di Alberto Savinio
dell’estate 1944 dedicato alla abolizione, da parte del governo
italiano di Roma, della pena di morte: un articolo in cui i nodi
della vita e della morte, della civiltà e del rispetto della
vita umana si intrecciano con l’etica e la politica.
Ora, è proprio questo slancio
antifascista, il rigetto di ogni regime totalitario, che sostiene il
processo di redazione di un testo normativo ampiamente condiviso (e
votato a stragrande maggioranza) anche mentre nel paese crescono le
divisioni fra le strategie politiche dei vari partiti. La ragione è
che – come si è osservato da più parti - nei
lavori dell’Assemblea Costituente il cuore della differenza tra
le diverse correnti ideali, ma anche il principio della sua
soluzione, si trova nella nuova centralità che viene a
occupare la persona come soggetto possessore di diritti.
Una volta messe in parentesi le prospettive
“dottrinarie” – ha osservato Pietro Costa –
«la persona e i diritti si prestano a divenire
per la grande maggioranza dei costituenti il pilastro del nuovo
ordine, in quanto essi per un verso rafforzano la comune
pregiudiziale antifascista (che continua ad essere proposta come
cemento simbolico dell’unità del processo costituente),
mentre per un altro traducono in termini giuridico-costituzionali le
aspettative (tipicamente resistenziali) della libertà, della
partecipazione, della liberazione dal bisogno».
In una serrata discussione che vede
impegnati Dossetti, Moro, La Pira, Togliatti, Basso, la centralità
della persona finisce per risultare un valore condiviso pure nella
diversità delle motivazioni fondanti, così come
l’apertura sociale dell’individuo (teorizzata dal
personalismo comunitario dei deputati dossettiani) si incontra con le
esigenze riformatrici delle sinistre e permette di affiancare ai
diritti di libertà non solo i diritti politici ma anche una
nutrita serie di diritti sociali.
Ora, questo tema, quello del passaggio, tra
gli anni trenta e quaranta, dall'individuo alla persona nel pensiero
filosofico europeo
e in particolare italiano, è stato solo di recente messo a
fuoco per quanto attiene la cultura giuridica che ispira i
costituenti. Ma quanto finora è emerso,
avvalora l'idea di un incontro dei dossettiani con il marxismo
(Basso) sulla base di una prospettiva non puramente formale e di
compromesso. In comune vi era un’ottica giuridico-storica che
portava, da un lato a valorizzare il ruolo del partito come locus
della partecipazione (in risposta ai guasti del fascismo) e
dall’altro a evidenziare la centralità
dell'evento-guerra e dunque a esaltare la riscoperta della persona
"immersa" nelle sue relazioni sociali (comunitarie per
Dossetti, di classe per Basso)
.
Anche questo è un tema, come abbiamo
accennato all'inizio, tornato di attualità: la persona, le sue
relazioni sociali e i diritti, che ne salvaguardano l'esistenza come
uomo di fronte a ideologie di annientamento, quali quelle totalitarie
o etniche, e come individuo, di fronte alla invadenza di osservatori
più o meno occulti.
4.1946-1948. I dubbi del giurista,
costituente e azionista
Verrebbe da chiedersi leggendo la
formulazione di alcuni degli articoli della Carta dei diritti
d’Europa che cosa potrebbe oggi dire Calamandrei. Il pensiero
va al famoso discorso pronunciato il 4 marzo 1947 all’Assemblea
Costituente e poi ripubblicato col titolo Chiarezza nella
Costituzione. E’ un discorso noto soprattutto per il
giudizio che vi si esprime sulla Costituzione, poi più volte
ripreso, anche a sproposito: “E’ una Costituzione
tripartitica, di compromesso, molto aderente alle contingenze
politiche dell’oggi e del prossimo domani; e quindi poco
lungimirante.” Una critica in realtà alla forma della
Costituzione (la sua poca chiarezza) e non alla sua sostanza, come
risulta evidente anche dalle frasi immediatamente successive,
una critica che si appuntava soprattutto sul carattere a volte
velleitario degli articoli relativi ai rapporti etico-sociali e
economici.
Con molta probabilità Calamandrei
avrebbe motivo di ripetere quelle critiche molto dure anche a
proposito della Carta dei diritti UE, e con parole analoghe, per
esempio, a quelle usate per stigmatizzare, nel testo costituzionale,
le disposizioni vaghe, “le quali non sono vere e proprie norme
giuridiche nel senso preciso e pratico della parola, ma sono precetti
morali, definizioni velleità, programmi, propositi, magari
manifesti elettorali, magari sermoni; che tutti sono camuffati da
norme giuridiche ma norme giuridiche non sono”.
Commenti negativi altrettanto decisi abbiamo ascoltati
in occasione dell’approvazione della Carta dei diritti di Nizza
nei vari paesi europei, in genere sullo stesso ordine di articoli,
quelli economico-sociali. Anche in questo caso i filo- europeisti dei
vari paesi hanno scelto di rispondere con argomenti non dissimili da
quelli che, cercando di superare i dubbi del collega fiorentino,
Togliatti aveva espresso con i versi di Dante: i preparatori della
Costituzione, aveva ricordato Togliatti a Calamandrei, debbono fare
“come quei cha va di notte –, che porta il lume dietro e
a sé non giova –, ma dopo sé fa le persone
dotte”, cioè non pensare all’attuazione immediata
ma pensare ai posteri, ai nipoti e “consacrare quei principi
che sono oggi soltanto velleità e desideri, ma che tra venti,
trenta, cinquanta anni diventeranno leggi.” Calamandrei, si sa,
non ne era per nulla convinto e con la consueta chiarezza proseguì
nel suo discorso illustrando i pericoli di fraintendimento insiti in
molti articoli. Tuttavia, dopo essersi accanito a chiarirli punto per
punto, lo stesso Calamandrei concluse il suo discorso alla
Costituente con alcune considerazioni finali che proprio oggi
assumono una rinnovata attualità:
Questo che noi facciamo è il lavoro che un popolo
di lavoratori ci ha affidato e bisogna sforzarci di portarlo a
compimento meglio che si può, lealmente e seriamente. Non
bisogna dire, come da qualcuno ho udito anche qui, che questa è
una Costituzione provvisoria che durerà poco e che, di qui a
poco, si dovrà rifare. No: questa dev’essere una
Costituzione destinata a durare. Dobbiamo volere che duri; metterci
dentro la nostra volontà. In questa democrazia nascente
dobbiamo crederci, e salvarla così con la nostra fede e non
disperderla in schermaglie di politica spicciola e avvelenata.
Calamandrei porta nei lavori della Costituente quello
spirito critico e intransigente che conosciamo, ma qui vorrei
insistere sul doppio registro delle sue dichiarazioni: da un lato la
critica concreta, dall’altro le parole finali, quelle che
meglio di ogni altra pronunciata in quella sede esprimono il
carattere solenne della scrittura della Carta, la sua ispirazione
comune e duratura.
Se noi siamo qui a parlare liberamente in
quest’aula, in cui una sciagurata voce irrise e vilipese
venticinque anni fa le istituzioni parlamentari, è perché
per venti anni qualcuno ha continuato a credere nella democrazia, e
questa sua religione ha testimoniato con la prigionia, l’esilio,
la morte. Io mi domando, onorevoli colleghi, come i nostri posteri
tra cento anni giudicheranno questa nostra Assemblea Costituente: se
la sentiranno alta e solenne come noi sentiamo oggi alta e solenne la
Costituente Romana, dove un secolo fa sedeva Giuseppe Mazzini. Io
credo di sì..
Anche in un’altra occasione
significativa vediamo all’opera lo stesso spirito in
Calamandrei: mi riferisco al corsivo pubblicato in “Il Ponte”
(Le Leggi di Antigone, n.11, novembre 1946) a proposito della
condanna a morte di dodici criminali nazisti in esecuzione della
sentenza del Tribunale di Norimberga. “Qualche anima bennata”,
apre il suo scritto Calamandrei, si sente offesa e impietosita
dinanzi a queste forche e dimentica gli innumerevoli capestri che
hanno oscurato le nostre piazze e i nostri viali. Lo scrupolo
legalitario di certi loici non turbato dai milioni di vittime umili e
anonime è tormentato da assillanti dubbi di procedura dinanzi
a questa sentenza. Quello che lo Stato permette o addirittura premia
non può essere delitto!
Così ragionano i loici e non si accorgono che il
problema non può essere risolto sul piano delle leggi
nazionali. In realtà questa giustizia va angosciosamente in
cerca di una pacificazione più vasta; vuol aprire ai popoli un
filo di speranza in una autorità più alta degli stati.
Guai se non avessero prevalso con questa sentenza le
leggi non scritte alle quali obbediva Antigone:
le “leggi dell’umanità” che
furono fino a ieri una frase di stile relegata nei preamboli delle
convenzioni internazionali – queste leggi hanno cominciato ad
affermarsi, nella funebre aula di Norimberga, come leggi sanzionate;
l’umanità, da vaga espressione retorica, ha dato segni
di voler diventare un ordinamento giuridico.
Ma i bombardamenti a tappeto? Le popolazioni innocenti
sterminate dall’alto? Domande gravi, ma l’essenziale per
ora non è che i giudici siano senza peccato:
l’essenziale è che la
violazione delle leggi dell’umanità abbia cominciato a
trovare un tribunale e una sanzione. Quel che conta è il
‘precedente’ che domani varrà come legge per
tutti, per i vinti e per i vincitori; che si rivolterà,
occorrendo, contro gli stessi giudici di oggi. Nella sentenza di
Norimberga c’è implicita per domani la condanna della
spietata inumanità della bomba atomica: di questo devono
accorgersi gli uomini di buona fede, e trarne conforto.
Nel 1930 Otto Kirchheimer a Berlino
pubblicava un saggio dal titolo Analisi di una Costituzione.
Weimar – E poi? Ad esso Franz Neumann replicò:
Intanto Weimar!.. Ma era ormai troppo tardi!
Consapevole di quel precedente, Calamandrei
sembra ogni volta rispondere ai suoi stessi dubbi: ..Intanto
Norimberga! Intanto questa Costituzione!
5. “ ... ma dopo sé fa le persone
dotte”!
Nell’intervento già ricordato
alla Costituente Calamandrei aveva sostenuto che i versi di Dante
citati da Togliatti (che ben conosceva la passione dei fiorentini per
il grande poeta) l’avevano convinto solo superficialmente: i
dubbi erano subito ritornati. Eppure, come si potrebbe giudicare il
lavoro costante di richiamo all’attuazione del testo
costituzionale che lo stesso Calamandrei portò avanti fino al
grande numero del “Ponte” (Dieci anni dopo) nel
1956, anno della sua morte, se non come un esempio della “luce”
che quella Costituzione aveva comunque lasciato ai posteri?
La Costituzione fu un patto e certamente un
compromesso, ma in essa confluirono convinzioni ideali profonde e
condivise che hanno ispirato la battaglia democratica in questo paese
fino agli anni ’70, fino, cioè, al varo delle leggi
attuative degli articoli costituzionali: non dimentichiamo infatti
che gli anni ‘70, accanto a gravi crisi politiche e
istituzionali vedono anche la massima espansione del processo di
democratizzazione del paese e l’approvazione di riforme sui
diritti dei cittadini e sulla tutela dei lavoratori che ancora alla
Costituzione si collegano o che in essa trovano ispirazione grazie al
lavoro dei magistrati che sollevano questioni di incostituzionalità.
Ma bisogna ricordare che fin dal momento dell’approvazione
della Carta e prima ancora che fosse istituita la Corte
costituzionale, una minoranza, di uomini di legge, di giudici, di
giornalisti, di intellettuali, di preti, di assistenti sociali, di
sindacalisti, di cittadini, si mette in moto, sentendosi legittimata
dal testo costituzionale, per allargare i confini della nostra
repubblica democratica anche ai tanti esclusi dalla storia: i
contadini senza terra di Lucera o Canicattì, i minatori del
monte Amiata, gli operai di Modena, fino ai pescatori di Trappeto.
Tale spinta avrebbe ancora consentito, al di là dello scontro
politico della guerra fredda, la intima condivisione, da parte della
classe politica unita dall’esperienza della Resistenza, di
scelte riformatrici come la Cassa del Mezzogiorno e poi dei disegni
di riforma che dal piano Vanoni avrebbero portato fino al governo di
centro sinistra, alla scuola media unica, per arrivare fino al ‘68
e alla nuova stagione politica che si aprì allora in Italia e
nel mondo.
Vi è qualcosa di peculiare nel
tragitto italiano del dopoguerra, una peculiarità che non
riguarda solo la ben nota capacità produttiva, la
ricostruzione e il miracolo economico, ma è qualcosa di più
profondo e duraturo. Solo ora che siamo maggiormente consapevoli dei
guasti profondi provocati dal lungo ventennio fascista, siamo anche
meglio in grado di valutare la eccezionalità rappresentata nel
1947-48 da una classe politica che è stata in grado di
proseguire e portare a termine il grande lavoro della Costituzione,
nonostante fossero già in corso le battaglie della guerra
fredda. In una testimonianza di qualche anno fa V.Foa ha definito il
1947 “un anno di estrema facilità costituzionale e di
estrema difficoltà politica".
Abituati a pensare a quegli anni collocandoli nel clima della guerra
fredda tendiamo a sottovalutare gli effetti virtuosi prodotti da
quella “facilità costituzionale” anche al di fuori
delle aule parlamentari. E invece l’accordo in vigore nelle
assemblee costituenti ha non solo prodotto la nostra Carta
fondamentale, ma ha anche fornito una cultura che ha reso possibile
nei primi anni cruciali di uscita dalla guerra civile l’accettazione
delle regole democratiche da parte di forze politiche per le quali
quella adesione non era affatto scontata. Si pensi al ruolo di
Togliatti nel 1945-46, allorché in qualità di
guardasigilli favorisce, pur tra lo scandalo delle facili assoluzioni
dei molti colpevoli di collaborazionismo, anche un moto generalmente
accettato di “rientro” nelle aule di tribunali nazionali,
regolarmente costituiti, del conflitto appena terminato tra le due
Italie in armi;
o alla capacità di De Gasperi e del partito democristiano di
spostare il mondo cattolico – già fortemente compromesso
con il fascismo - sul fronte della democrazia (non è stato
così in Spagna, per esempio) e su quello della società
industriale, con la conseguente convinta accettazione della moderna
dinamica sindacale (il massiccio ingresso di dirigenti cattolici ai
vertici degli enti pubblici rappresenta anche questo, la fine di un
atteggiamento cattolico antimodernista). Era l’esito della
lunga elaborazione dell’antifascismo negli anni ‘30,
grazie alla quale e seppure con accentuazioni diverse la nuova classe
politica nazionale si dimostrò in grado di cogliere le
trasformazioni anche contraddittorie apportate dal fascismo e di
preparare una risposta all’altezza dei tempi.
Alla luce di quanto detto fin qui a
proposito di una transizione alla democrazia basata sull’incontro
di culture, di valori, di ideali comuni, sarebbe il caso di ripensare
anche all’influenza del pensiero azionista dentro e fuori delle
aule parlamentari. Nella prospettiva qui considerata la vulgata della
sconfitta e dell’annullamento del Partito d’Azione appare
poco convincente:
certo, il partito è stato sconfitto sul terreno elettorale e i
suoi aderenti sono stati costretti a spargersi nei grandi partiti di
massa. Ma è avvenuto un po’ quello che Gibbon ci
racconta a proposito delle invasioni barbariche nelle terre
dell’impero romano: nel lungo periodo non si sa bene chi sia
più cambiato, se i barbari o i romani!
6. Dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo
a oggi
E’ nella cultura antifascista degli anni 30 e 40
che affonda le radici un tessuto di simboli che accomuna, al di là
delle diverse strategie “locali”, le carte costituzionali
delle nuove democrazie europee e va addirittura oltre di esse. Come è
stato scritto ancora da Costa:
il principale elemento connettivo di questo
tessuto è il nesso soggetto-diritti: negli anni della guerra,
affermare l’assolutezza e la centralità del soggetto
valeva come antidoto contro ogni presente o futura minaccia
totalitaria, mentre moltiplicare i diritti della persona significava
dar corpo a quella esigenza di riscatto e di liberazione complessiva
dell’essere umano che circolava in tutti i meandri della
letteratura resistenziale.
Ma non è nelle costituzioni che
questo progetto di “liberazione attraverso i diritti”
trova la sua maggiore visibilità, bensì nella
Dichiarazione dei diritti dell’ONU nella quale i diritti sono
proclamati universali in quanto sottratti all’area dell’uno
o dell’altro Stato e riferiti all’essere umano in quanto
tale. Non a caso è a questo antecedente che si rifanno gli
organismi internazionali sorti o ricostituiti negli anni ’90 in
risposta a una più convinta ripresa della sensibilità
per i diritti umani delle nuove generazioni (Corte penale
internazionale). Questo fenomeno ci segnala una diffusa
consapevolezza della centralità del tema dei diritti (della
persona, del cittadino) quale orizzonte entro cui collocare la
speranza di un futuro migliore. La novità riguarda in queste
generazioni, da un lato, il definitivo superamento di una cultura
“sostanzialista” che aveva accompagnato le battaglie
sociali del lungo dopoguerra ma anche la riscoperta della “forma”
giuridica quale terreno su cui verificare le tappe successive delle
conquiste nel campo della emancipazione e della democrazia (Intanto
Norimberga!). Dall’altro, la percezione, raggiunta dopo la
fine della guerra fredda, della dimensione sovranazionale (europea o
cosmopolita) di questo nuovo paradigma.
Globalizzazione e diritti. Diritti e
valori. Per concludere riallacciandomi all’avvio di questo
ragionamento e al discorso di V.Havel sulla necessità oggi di
nominare quei valori che sessant’anni fa erano
considerati impliciti anche nel moto di riunificazione economica
europea, vorrei citare un recente articolo pubblicato, in occasione
delle cerimonie europee per la giornata della memoria, da Thomas
Ferenczi con il significativo titolo Le lente émergence
d’une communauté de valeurs.
L’articolo -che inizia con queste parole: “L’Unione
europea ha scoperto in ritardo che essa poggiava su dei valori”
– si sofferma sul lento cammino verso la conquista della nuova
consapevolezza, sotto la spinta della memoria a lungo occultata dello
sterminio degli ebrei, e così si chiude:
L’emergere di questi valori europei, nutriti della
memoria di Auschwitz, ha giustificato negli ultimi 20 anni l’impegno
dell’Europa contro tutti i totalitarismi e tutti i razzismi. Ha
permesso ai dissidenti del blocco sovietico di battersi contro il
comunismo prima di ricongiungersi all’Unione nel 2004. Continua
a motivare la lotta contro l’antisemitismo e la xenofobia. La
lotta continua.
Per concludere, possiamo certamente riconoscere che una
fase storica si è chiusa negli anni ‘80 e che la classe
politica nata dalla Resistenza ha subìto l’impatto di
quella globalizzazione che abbiamo più volte evocato
(trasformazioni tecnologiche, finanziarie, sociologiche, che si sono
riversate su un sistema di partiti nato in un contesto del tutto
diverso), ma i tempi odierni ci dimostrano che il lavoro dei
costituenti non è andato affatto perduto. Anzi è nella
prospettiva di una “Europa dei valori”, di un’Europa
“del sangue versato” che le parole della nostra
Costituzione possono ritrovare l’eco di quella solennità
che i costituenti avevano inteso darle, come è dalla
centralità allora proclamata dei diritti della persona che i
giovani possono trarre l’ispirazione per preparare un futuro
internazionale migliore.
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