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Culture politiche nella Resistenza
Antonio Parisella
Quando mi fu proposto di tenere questa lezione, lì
per lì sono stato tentato - sia pure a malincuore - di
rifiutare. Infatti, il tema - in qualche misura - poteva sembrare
scontato, convenzionale o ripetitivo. E, in effetti, alla mia
generazione - per intenderci, quella di chi è nato poco prima
o poco dopo il 25 aprile 1945 - e alle altre immediatamente
successive, la Resistenza è stata presentata prevalentemente
così. Le culture politiche antifasciste, espressione di
tendenze più o meno permanenti nella storia d'Italia, avevano
trovato delle gambe per riprendere il loro cammino, si erano armate
attraverso le formazioni partigiane e ad esse, attraverso
l'articolazione dei Comitati di liberazione nazionale (CLN), i
comandi militari territoriali e il Corpo volontari della Libertà
(CVL) avevano impresso un comando politico e militare che voleva
essere o diventare unico. Nella prospettiva della fine della guerra
combattuta, esse aspiravano non solo a governare l'Italia, ma ad
essere qualcosa di più di una nuova guida politica, piuttosto
per dare al paese intero una guida civile e morale rinnovata e una
vera e propria forza costituente per disegnare di esso un nuovo volto
civile e sociale nell'ambito della comunità delle nazioni,
liberate dall'incubo dell'oppressione nazifascista. Intendiamoci:
questo è integralmente e sostanzialmente vero e nessuno ha
intenzione di negarlo. Anzi, dirò di più: se si leggono
i documenti redatti tra il 9 e l'11 settembre 1943 - pubblicati a
Roma su «Il lavoro italiano», diffuso tra i soldati
combattenti della Difesa di Roma e tra i cittadini scesi in piazza e
in armi - con i quali veniva motivata la trasformazione del Comitato
delle opposizioni antifasciste in Comitato di liberazione nazionale
(CLN) e venivano chiamati gli italiani e le italiane alla lotta,
questo programma e questi orientamenti sono già espressi con
grande chiarezza.
Il problema - quando andavamo a scuola o all'università
- è che spesso si tendeva ad esaurire la rappresentazione
della Resistenza in questa descrizione, magari aggiungendovi delle
affascinanti narrazioni delle attività clandestine e degli
scontri armati con i fascisti ed i nazisti o le esaltanti vicende
delle Quattro giornate di Napoli o dell'insurrezione finale. Da tante
cose che ci venivano raccontate e da tante che abbiamo conosciuto
attraverso i nostri studi, abbiamo via via appreso che la realtà
della Resistenza era più complessa, in ragione soprattutto
delle articolazioni che aveva la società italiana, e che
proprio dal rapporto tra Resistenza e società
italiana e tra Resistenza
e storia d'Italia le stesse culture politiche ne erano uscite
segnate, modificate, arricchite, aggiornate.
In taluni casi, poi, da Leonessa in provincia di Rieti a
Montefiorino in provincia di Modena, alla Valdossola in provincia di
Novara e altrove, i partiti, le formazioni partigiane, i comitati di
liberazione nazionale, già nel corso della lotta, avevano
svolto una funzione direttamente costituente, fondando dei governi o
delle vere e proprie repubbliche partigiane nelle zone liberate. Ed
anche nell'esperienza del Comitato di liberazione nazionale dell'Alta
Italia (CLNAI) e degli altri comitati, soprattutto (ma
non solo) a
Nord della Linea Gotica (cioè del fronte che passava sugli
Appennini, dalla Lunigiana alla Feltria), il loro ruolo non era stato
solo quello di guida politica e militare, ma anche quello di organi
di governo e di legislazione clandestini, produttori di norme e di
orientamenti. Ad essi si attenevano non solo coloro che, con le armi
o senza, combattevano alle loro dipendenze o con essi collaboravano,
ma anche, con minore o maggiore estensione, adesione o convinzione,
ma con la consapevolezza dei rischi che correvano, le popolazioni dei
territori dove quegli organismi operavano. Ad esempio, quando ai
contadini si chiedeva di non consegnare agli ammassi gestiti dalle
autorità della Repubblica sociale italiana (RSI) o di
disobbedire in tanti altri modi alle norme delle autorità
militari tedesche e di obbedire a quelle delle autorità
clandestine. Per l'Emilia Romagna, con puntualità e
precisione, a questi temi sono stati dedicati studi esemplari
soprattutto di Luigi Arbizzani, ma anche di altri che - prima e dopo
di lui - hanno realizzato lavori con essi in consonanza o in
dissonanza.
D'altro canto, però, nessuno di noi può
trascurare il fatto che quell'insieme di cose, se non esaurivano in
sé tutta la ricchezza umana, etica e civile della vicenda
resistenziale, problematica e non scontata, tuttavia costituivano e
costituiscono alcuni dei problemi che sono stati a fondamento della
storia dell'Italia nella seconda metà del XX secolo e dei suoi
ordinamenti costituzionali di paese libero e democratico. Non si può
trascurare il ruolo di partiti e correnti politiche nella Resistenza
ed oltre: soprattutto quando un'opinione pubblica disattenta e
superficiale - consapevolmente o inconsapevolmente - tende a
dimenticarlo o a metterlo da parte, va pur sempre ricordato chi
furono, con nome e cognome, i soggetti politici che diressero la vita
e l'attività associata del popolo italiano nel passaggio
"dalla costituzione monarchica e fascista alla costituzione
repubblicana e democratica", come lo definì Roberto
Ruffilli. Norberto Bobbio, da parte sua, in un capitolo memorabile
del suo Profilo ideologico del Novecento, ha fornito gli
elementi essenziali per affrontare specificamente "Gli ideali
della Resistenza", avvertendo come sia più opportuno
usare l'espressione "nella Resistenza" perché
"l'unica ideologia nata in funzione della lotta antifascista e
che la fine del fascismo invece di attuare dissolse" sarebbe
stata soltanto quella, anch'essa articolata e complessa, del Partito
d'Azione. Una rassegna articolata delle singole correnti e formazioni
politiche venne compiuta il 16-17 novembre 1968 in un incontro
promosso dall'INSMLI: di esso un volume raccolse poi i contributi
relativi ad azionisti, cattolici, comunisti, mentre nelle biblioteche
degli istituti non dovrebbe essere impossibile rintracciare rilegati
i testi ciclostilati delle relazioni originarie, relative a tutti i
partiti del CLN ed ai repubblicani. E, tra i convegni del
cinquantenario, quello sulle Idee costituzionali della Resistenza
rappresenta la sintesi di orientamenti più ampi, aggiornando e
precisando numerose cose emerse già nel trentennale nella
ricerca fondamentale dedicata al riguardo dall'iniziativa meritoria
della Regione Toscana.
Come
studioso di Storia dei movimenti e dei partiti politici, la
disciplina che (dopo che era disattivata da cinque anni)
all'Università di Parma ho ricostruito e insegno da tredici
anni, non potevo non tenere conto che - a partire dalle ricorrenze
dei cinquantenari - ricerche e convegni avevano arricchito il già
cospicuo patrimonio di conoscenze sul tema che mi era stato assegnato
proprio mentre la crisi del sistema politico imponeva anche di
riconsiderare molti degli approcci ad esso che vi erano stati in
precedenza. I tempi a disposizione, però, e le sole mie forze
personali non erano sufficienti perché in questa sede potessi
svolgere e riferire di un lavoro aggiornato ed innovato che si
muovesse sulla scia e lungo i binari della tradizione, che tenesse in
primo piano proprio i partiti o - come porta a chiamarli un uso
recentemente mutuato dalla letteratura storiografica francese - "le
famiglie politiche". Per questa ragione procederò invece
tentando di verificare se - nella fase che esaminiamo - vi siano
stati dei temi specifici messi al centro di una cultura politica più
generale, quella che da Pietro Scoppola è stata chiamata anche
del "vissuto" delle italiane e degli italiani, oppure della
"storia popolare" - o "storia dal basso", come la
chiama Eric J. Hobsbavm - dell'Italia durante la guerra e la
Resistenza. In uno dei convegni bolognesi del cinquantenario,
Jean-Marie Mayeur, un autorevole storico francese, era partito dal
concetto di cultura politica, definita come un insieme che comprende
"le idee, i sentimenti, le rappresentazioni, i riferimenti
privilegiati fondati (...) su un immaginario e su una memoria".
Questo mi spinge a tentare di vedere se dagli avvenimenti e dalle
condizioni nei quali si trovarono a vivere donne e uomini emersero
delle "culture politiche popolari" che - più che dai
retroterra ideologici di breve e lungo periodo, di maggiore o minore
radicamento, che pure restavano importanti - si caratterizzarono per
il modo nel quale reagivano alle sollecitazioni degli eventi o alle
prospettive che si aprivano di fronte ad essi. Ha scritto Hobsbawm:
“La storia popolare diventa pertinente rispetto anche alla
tradizionale storia delle decisioni politiche e degli eventi politici
generali quando la gente comune diventa fattore costante di
attuazione di quelle decisioni ed eventi e non solo oggetto di
mobilitazione popolare straordinaria” [p. 238]. Dagli studi di
antropologia culturale o di sociologia delle culture mi sembra che si
debba prendere pienamente il riferimento e lo stimolo a studiare
storicamente le maniere di esprimere lo "stare insieme"
(convivenza o sociabilità) ma non limitarsi soltanto a quegli
aspetti esteriori che più colpiscono la nostra attenzione
(simboli, rituali, feste, ecc...).
Tale
approccio - poco prima del cinquantenario - è stato applicato
nel noto libro che Claudio Pavone ha dedicato alla "moralità
nella Resistenza", ma ritengo che - anche sulla scia di quanto
Roger Absalom ha fatto per i contadini e Anna Bravo e Anna Maria
Bruzzone per le donne, vada esteso a tutti quei contesti nei quali
occorre far riemergere quella che - già negli
anni ‘60 - Luca Canali definì "la
Resistenza impura", quella
richiamata ne La storia di Elsa Morante o nel recente studio
di Tommaso Baris sulle popolazioni del Cassinate.
Talora si tratterà di poco più che spunti
e di orientamenti, ma - lo ricordavo a mio figlio che frequenta il
primo anno di Scienze politiche - il nostro compito di studiosi non è
solo quello di spiegare ai nostri allievi e a chi ci ascolta e a chi
ci legge i risultati raggiunti dalla ricerca, ma anche cercare di
aprire ad essi e a chi si interessa dello studio di questi temi dei
problemi e delle prospettive perché possano proseguire gli
studi e fare avanzare ulteriormente le conoscenze.
A
me interessa partire da una questione di metodo. Dal nostro presente
ho tratto, infatti, e traggo alcune osservazioni e mi pongo alcuni
problemi relativi ad alcuni temi di cultura politica e cerco di
capire se e in quale misura le italiane e gli italiani del 1943-1945
se li siano trovati davanti e se li siano posti; poi cerco di
verificare cosa la storiografia e le scienze sociali e politiche mi
dicono per interpretarli e dare ad essi delle risposte. In altri
termini, - senza ignorare l'eticità intrinseca nella ricerca
delle verità, secondo le lezioni, fra gli altri, di Marc
Bloch, Henri-Irenée Marrou, Benedetto Croce, Federico Chabod o
Vittorio Emanuele Giuntella - voglio recuperare quel modo di
procedere empirico e realistico che è proprio delle scienze
umane e sociali e che riesce ad offrire sufficienti garanzie rispetto
alle forme di pre-comprensione o di pre-giudizio sul piano
ideologico, quali ci presentano quotidianamente le polemiche
giornalistiche e televisive e gli altri usi pubblici che della storia
si fanno.
1
- Formazioni sociali e/o gruppi sociali elementari.
Mi
sono sempre domandato se il rilievo dato dalla Costituzione italiana
nell'articolo 2 alle "formazioni sociali" come realtà
"ove si svolge la (...) personalità" umana fosse un
portato esclusivamente ideologico dell'influenza della cultura
cattolica di una parte cospicua dei costituenti oppure se vi fosse
una ragione più profonda nella sequenza di eventi che dalla
crisi del fascismo avevano portato alla Costituente. La lettura degli
scritti di autorevoli studiosi - tra essi, in particolare, Ugo De
Siervo - mi aveva dato delle risposte sul piano generale della
cultura giuridica e politica. Ma la più convincente risposta
l'ho trovata allorché la televisione ci ha portato in casa
alcune delle crisi contemporanee di alcuni stati: in particolare la
Yugoslavia, la Somalia, l'Albania e in parte la Romania,. Il venire
meno dello Stato - prima che attraverso conflitti talora sanguinosi e
drammatici venissero trovate nuove forme istituzionali del potere o
nuove egemonie politiche - fece riemergere alcune strutture profonde
delle società locali: si trattasse di comunità etniche
o religiose, di comitati, di gruppi territoriali o di clan variamente
organizzati, gli individui e le famiglie tendevano ad aggregarsi per
ricercare una propria identità, là dove quella del
partito unico e dominante erta stata travolta insieme a quella dello
Stato che esso aveva diretto. Questo - pur tenendo conto delle grandi
differenze di contesto storico e sociale - mi ha portato a pormi il
problema di quanto, dopo il crollo del regime fascista e del
particolare rapporto tra Stato e nazione che esso aveva realizzato,
nella vicenda dell'Italia del 1943-1945 e nell'attività
resistenziale avesse giocato il momento e la cultura di ciò
che i sociologi e gli antropologi chiamano la "comunità"
o il "gruppo sociale elementare" e che la Costituzione
chiama "formazione sociale", cioè una forma di
aggregazione umana necessaria - quasi naturalmente - allo svolgimento
della personalità umana. Tutti noi, sulla base della
storiografia, degli studi dei costituzionalisti, degli storici e dei
politologi - abbiamo sempre detto (e la cosa non è errata)
che sono stati i partiti politici a realizzare quell'integrazione
della società civile nello Stato postfascista e a proporre una
"nazionalizzazione delle masse" o un'identità
nazionale debole, certamente meno forte di quelle dell'appartenenza
ai sistemi di valori particolari che ogni partito rappresentava. Da
un lato, abbiamo considerato la realtà popolare italiana quasi
meccanicamente, come se fosse composta solo di tanti individui da una
parte e di uno Stato (inesistente e da ricostruire) dall'altro;
dall'altro lato abbiamo visto i partiti come unici soggetti capaci di
operare la saldatura e di incanalare il consenso degli uni mentre
provvedevano a realizzare il grave e laborioso compito della
ricostruzione dell'altro. Soprattutto, nell'esaminare il periodo
successivo alla caduta del fascismo del 25 luglio 1943, spesso
abbiamo omesso di considerare come, dopo una ventennale dittatura
tendenzialmente totalitaria e tre anni di guerra, la società
italiana non presentasse realtà uniformi e facilmente
definibili sulle quali fosse stato agevole quasi "applicare"
i partiti (anch'essi in fase di definizione e organizzazione) come si
applicano le formine alla sabbia bagnata. Dopo un'accurata ricerca
sullo spirito pubblico e il fronte interno dal 1940 al 1943 a Bologna
quale risulta dalle carte di polizia, Alberto Preti ha concluso:
"opposizione antifascista, dissenso operaio, malcontento di
massa e fronda fascista, pur seguendo vie proprie, spesso si
incontrano e si intrecciano, sia pure con effetti ancora poco
visibili, in modi e forme che solo le singole testimonianze possono
restituirci con efficacia. In questo viluppo (...) stanno le radici
di quella scelta di campo (o di quella non-scelta) che si proporrà,
in maniera comunque drammatica, dopo l'8 settembre 1943" [pp.
63-64]. Dal suo canto, riferendosi alla Capitale, Enzo Forcella ha
osservato: “Roma (...) non era più una capitale, e
neppure una città. Era già diventata quello che sarebbe
rimasta per tutti i nove mesi dell’occupazione: un agglomerato
di quartieri, un arcipelago di isole; completamente isolati e
reciprocamente inconsapevoli ma anche, per chi ne conosceva la chiave
d’accesso, collegati da una fitta rete di invisibili e
misteriosi fili” [p. 45].
E da ciò si dovrebbe capire a sufficienza perché
- ampliando l'ottica in direzione dell'intera società - può
apparire produttivo riferirsi alle formazioni sociali e alle culture
diffuse prima che ai partiti politici.
2.
- La cultura politica della famiglia
Come
potrà apparire ovvio, la prima formazione sociale o il primo
gruppo sociale elementare ad essere chiamato in causa è la
famiglia. Nella cultura storico-politica, in genere, alla famiglia
italiana si fa riferimento al negativo. Riprendendo considerazioni
del sociologo ed antropologo americano Edward Banfield, riferite ad
un preciso caso di studio - ampliate forse in maniera eccessiva
dall'antropologo italiano Carlo Tullio Altan - chi ne ha ripetuto le
considerazioni tende a presentare la cultura della famiglia italiana
sempre come alternativa alla collettività ed il senso della
famiglia come alternativo al senso dello Stato: lo storico ormai
anglo-italiano Paul Ginsborg, peraltro, ha messo in guardia
evidenziando che il rapporto della famiglia con la società
civile e lo Stato va visto in maniera problematica, data la sua
"natura complessa e variabile". Generalizzando alcuni casi
reali - il più famoso quello di Fausto Coppi, che prestava
servizio come militare nel Corpo italiano di liberazione, e di suo
fratello Serse, che era stato arruolato invece nelle formazioni della
RSI - si scrive spesso sugli organi di stampa che le strategie
familiari spingevano a far arruolare i propri figli da entrambe le
parti in lotta per poter comunque vantare meriti dopo la fine del
conflitto. Inoltre, considerando il ruolo centrale che nella
strategia del consenso fascista aveva avuto la famiglia, si è
talora presentata la scelta antifascista e quella partigiana come
rottura del legame familiare, che pure in alcuni casi vi sarà
stata.
A
me, invece, sembra di dover sottolineare che proprio il crollo dello
Stato, ed il crollo dopo tre anni di guerra in particolare, faceva
emergere il ruolo politico fondamentale della famiglia come elemento
di ricomposizione sociale. Lo stesso "tornare a casa"
significava tornare in famiglia, ma non solo: nelle testimonianze
sull'accoglienza che i militari italiani sbandati e i militari
stranieri prigionieri degli italiani ed evasi dai campi dopo l'8
settembre 1943 trovarono soprattutto tra le donne delle campagne del
Nord e del Centro dell'Italia vi è talora una motivazione di
tipo familistico, cioè che in qualche altra parte d'Italia o
d'Europa qualcuno forse stava facendo qualcosa di analogo con i
propri figli, mariti, fratelli, fidanzati.
Ma,
soprattutto, va ricordato come la famiglia sia stata spesso essa
stessa - nel suo insieme - il veicolo dell'opposizione politica al
fascismo, sia prima, durante il ventennio, sia dopo, con
l'occupazione nazista e la RSI. Certo, quella di Alcide Cervi e dei
suoi sette figli è una vera e propria epopea familiare, ma non
è la sola: penso alla famiglia Pinci di Palestrina, a sud di
Roma, ricordata nelle memorie di Carla Capponi, che ebbe i suoi
cinque figli caduti. Se si scava nelle storie di centinaia di comuni
di campagna e di montagna o di quartieri operai di città
grandi e piccole oppure se - come in maniera esemplare ha fatto Paolo
Corsini per una famiglia comunista del bresciano - si risale alla
lunga Resistenza dell'antifascismo del ventennio, si scoprono storie
politiche che sono scritte profondamente nelle culture familiari, a
volte di generazioni. Così, se indagasse su quei partigiani di
"Bandiera Rossa", il forte gruppo comunista dissidente
romano, che portavano illustri nomi risorgimentali non si dovrebbe
faticare a trovare una genealogia di lontane ascendenze - risalente
magari alla Repubblica Romana del 1849 - nel repubblicanesimo
popolare e sovversivo degli artigiani del centro di Roma, emarginati
nelle estreme periferie al limite della campagna in conseguenza degli
sventramenti fascisti degli anni Trenta. La stessa esperienza romana
del Fronte militare clandestino della Resistenza, guidato dal
colonnello Giuseppe Maria Cordero Lanza di Montezemolo, trovò
nel legame familiare di questi con la cugina Fulvia Ripa di Meana un
elemento di coesione e di fiducia tale da costituire una garanzia
sull'efficacia dei delicati compiti di organizzazione e
amministrazione che difficilmente avrebbe potuto trovare altrove. In
Umbria, un’elementare analisi delle parentele, ha portato a
scoprire rapporti familiari in circa il 70% degli appartenenti alla
Brigata Gramsci.
Ma
la famiglia può anche costituire una remora: Enzo Forcella,
giornalista allora alle prime esperienze, ufficiale in licenza
sorpreso a Roma dall'armistizio, ha ricostruito come il misto di
paura per la propria vita e la responsabilità verso la madre
vedova, che lo aveva come unico figlio e lo aveva nascosto, ne
avessero paralizzato ogni decisione e lo avessero spinto a rifiutarsi
persino alla distribuzione di qualche volantino o di qualche copia
della Voce repubblicana clandestina, come gli veniva richiesto
dal suo amico Alberto Ronchey. Del resto, Teresio Olivelli, giovane
cattolico bresciano, già fascista militante, ufficiale
coraggioso e poi comandante partigiano intrepido, più volte
sfuggito alla detenzione, poi ucciso nel Lager, nella sua
Preghiera del ribelle chiedeva al Signore: "Liberaci
dalla tentazione degli affetti: veglia tu sulle nostre famiglie".
Se
si sfogliano le lettere dei condannati a morte della Resistenza, sia
italiani sia europei, proprio per i caratteri di quegli scritti,
appare naturale che i richiami alla famiglia vi compaiano come
elementi caratterizzanti. Ma - anche se quasi tutte recano richieste
di scusa e di perdono per il dolore causato ai familiari - mi pare
che non compaiano mai contrapposizioni, contrasti e lacerazioni
profondi fra i doveri verso la famiglia, i doveri patriottici e
quelli verso la coerenza con le proprie idealità. Pietro
Benedetti, comunista abruzzese di 41 anni, già oppositore
durante il ventennio, commissario politico della Ia zona
di Roma (Centro), che fu fucilato il 29 aprile 1944, il 12 aprile
1944 ricordava alla moglie Enrichetta che fin da fidanzato le aveva
spiegato di credere che la vita fosse soprattutto lotta e poi si
dilungava a spiegare come la sua scelta fosse stata quella di
contrastare "lo scempio della Patria, dei focolari, delle nostre
famiglie" e che la causa della lotta in corso era "quella
dei nostri figli e delle nostre famiglie", concludendo che ciò
che i suoi figli e la sua moglie avrebbero perduto con la sua morte,
l'avrebbero acquistato con la liberazione dalla tirannia. Ed anche
Giacomo Ulivi, diciannovenne studente cattolico parmigiano, fucilato
per rappresaglia a Modena il 10 novembre 1944, scriveva ai suoi amici
per richiamarli alla responsabilità verso la "cosa
pubblica" e per spiegare che l'interesse ad una "laboriosa
e quieta vita, dedicata alla famiglia ed al lavoro" non può
contrastare con i doveri verso la collettività e che il futuro
del Paese coincideva con il futuro dei loro figli e dei loro cari.
3.
- ... e quella della "comunità"
Ma non è solo alla famiglia che occorrerà
fare riferimento. Dal villaggio al quartiere e alla borgata, dalla
banda partigiana alla baracca del Lager, dal reparto operaio
di fabbrica alla cascina lombarda o alla corte emiliana, dal gruppo
di famiglie di sfollati disperso in campagna o ricoverato in grotte
al nucleo di militari sbandati, ecc ...: l'individuo ha bisogno di
ritrovarsi all'interno di un gruppo e tali molecole della società
- in assenza più o meno lunga dello Stato o in presenza di
un'autorità oppressiva o in opposizione ad essa -
costituiscono i luoghi umani e materiali dove rinasce il tessuto
civile della vita nazionale.
Tutti coloro che hanno studiato e studiano la storia
della Resistenza - e tra essi, da ultimo, le autrici di una ricerca
su La comunità e la guerra, dedicata alla Resistenza a
Fidenza - fanno particolare riferimento ad un paragrafo memorabile e
suggestivo di Guido Quazza, nel quale si parla della "banda
partigiana come microcosmo di democrazia diretta" [pp. 241-252]:
ad essa si accompagnano pagine altrettanto suggestive di letteratura
e memorialistica, che ne hanno talora enfatizzato eccessivamente e
idealizzato l'esperienza, come - fra tutte - quella di don Berto
(Bartolomeo Ferrari) prete partigiano genovese. Allo stesso modo,
dalla letteratura sui campi di internamento dei militari, numerosi
sarebbero i casi da narrare e da citare sulla riorganizzazione di
relazioni e di funzioni all'interno delle baracche e dei collegamenti
e informazioni tra baracche: persino in luoghi di tragica, esasperata
e violenta spersonalizzazione delle donne e degli uomini che vi
venivano ristretti come nei campi di deportazione politica e
razziale, correndo rischi altissimi, era stato possibile talora
superare la lotta di uno contro tutti e mettere insieme gruppi
clandestini e forme di solidarietà.
Meno note sono quelle esperienze che si compivano là
dove la particolare esposizione ai bombardamenti, oppure la grande
concentrazione di truppe lungo il fronte, oppure le due cose insieme,
avevano fatto disperdere le popolazioni nei boschi in baracche,
capanne e rifugi di fortuna, oppure l'avevano fatta ricoverare in
grotte naturali o in cave o miniere abbandonate. Eppure, in queste
condizioni emergevano forme particolari di una cultura
dell'autogoverno per il soddisfacimento dei bisogni più
elementari: procurare cibo, acqua, combustibili, trattare con gli
occupanti e - talora - con le bande partigiane, organizzare
l'assistenza ad anziani e a puerpere, custodire i bambini, ecc...
Sull'Appennino a ridosso della linea Gotica tra il 1944 e il 1945 si
rinnovava quello che già avevano sperimentato le popolazioni
del Lazio o dell'Abruzzo a ridosso della Linea Gustav e che, dopo la
testimonianze di Alberto Moravia e di Elsa Morante, Tommaso Baris ha
ricostruito ora con un preciso lavoro storiografico: le immagini
fotografiche, realizzate con strumenti di fortuna, sono talora
impressionanti per le loro somiglianze ed anche per quella con le
immagini che abbiamo visto in televisione o sui giornali sulla Bosnia
o sul Kossovo. Dalle esperienze del Lazio è emersa una
significativa trasformazione - espressione di una cultura
politica fortemente consapevole - della banda partigiana dei
Castelli Romani dopo lo sbarco di Anzio: essendo diventata piuttosto
problematica la sua possibilità di realizzare intense e dure
azioni del tipo di quelle realizzate nei mesi precedenti, i suoi capi
- erano soprattutto comunisti - misero la propria esperienza al
servizio dell'organizzazione civile dei mille bisogni della
popolazione, non escludendo vere e proprie incursioni nei luoghi dove
venivano concentrati per recuperare gli animali requisiti dai nazisti
nelle campagne.
Ma va avvertito che la cultura della comunità,
fondamento talora di identità collettive forti, è una
cultura che spesso tende a chiudersi su se stessa e ad essere
autoreferenziale. Soprattutto in campagna e in montagna, le presenze
di estranei erano talora percepite come "altre" rispetto
alla vita delle comunità e talora in palese contrasto con la
vita di essa.
Sulle montagne bellunesi come su quelle parmensi (lo
ricorda anche Bernardo Bertolucci in un episodio di Novecento),
le popolazioni locali facevano difficoltà ad accogliere i
partigiani estranei alle comunità locali: nel primo caso
bolognesi e parmigiani di città dell'Oltretorrente nel
secondo, in entrambi perché comunisti, percepiti come intenti
a perseguire proprie strategie che all'interno di esse erano sentite
come estranee e fonte di pericoli e di rappresaglie. Fu decisivo
l'intervento dei parroci, che dei montanari condividevano durezze di
vita e cultura, per convincerli che i loro interessi e i loro destini
e quelli dei combattenti convergevano.
Invece, nel quartiere popolare romano della periferia
meridionale di Centocelle, lungo la via Casilina, il partigiano
comunista Rosario Bentivegna trovò una realtà coesa e
solidale sia per l'omogeneità sociale di base, sia per l'opera
che già vi avevano svolto i quadri organizzativi locali dei
partiti, soprattutto comunisti: i fascisti locali erano stai colpiti,
eliminati, allontanati o intimiditi e i tedeschi si avventuravano con
difficoltà in quelle strade. Quando dovettero organizzare un
rastrellamento nell'adiacente quartiere-borgata del Quadraro,
dovettero immobilizzare reparti che avrebbero preferito avere
disponibili per impieghi militari sul fronte di Anzio o di Cassino.
Sull'aspetto specifico della cultura politica della
comunità, la ricerca fortemente problematica sulle stragi
naziste ha mostrato come il dramma ed il lutto subiti dalla comunità
generavano talora "memorie divise" o punti di vista opposti
nel giudizio degli eventi, ribaltando sui partigiani le
responsabilità delle uccisioni. Ma le conseguenze non si
fermavano qui, perché sentimenti radicati, profondi e
perduranti nel tempo portavano addirittura a comportamenti politici
che di tali memorie erano la proiezione.
Sono molto noti i volumi, i convegni e le ricerche
dedicati a questi temi, relativi alle Fosse Ardeatine, a località
della Toscana, della Campania e del Mezzogiorno, oltre che a
Marzabotto e ad altre località dell'Emilia e della Romagna,
anche perché intrecciati con la problematica del cosiddetto
"armadio della vergogna" e delle vicende giudiziarie
connesse. Qui voglio ricordare un caso poco noto e che, sotto il
profilo dell'analisi di comunità si presta bene ad
esemplificare il problema. Come ho ricordato, a Leonessa, nel
Reatino, sulle montagne a cavallo con l'Umbria, era stata costituita
la prima "zona libera" ad opera della Brigata Gramsci,
formazione partigiana di circa 300 persone, costituita dall'unione di
gruppi di cittadini saliti in montagna, soprattutto operai, di Terni,
Arrone, Cascia e Monteleone di Spoleto, inquadrati da dirigenti
comunisti in cinque battaglioni (Spartaco Lavagnini, Giovanni Manni,
Guglielmo Morbidoni, Paolo Calcagnetti, Germinal Cimarelli) e da due
battaglioni, Tito 1 e Tito 2, costituiti da ex prigionieri yugoslavi
fuggiti dopo l’8 settembre dalle miniere di lignite di Ruscio,
dove erano occupati. Prima della fusione, per il loro modo di
trattare la popolazione, gli slavi non avevano lasciato a Leonessa
buon segno di sé: forse, anche per questo, erano stati poi
destinati ad altri luoghi. La popolazione non era stata ostile, ma
era restata abbastanza estranea all’intera vicenda, né
erano state messe in atto adeguate iniziative per coinvolgerla nella
propria difesa, tranne la costituzione di un piccolo drappello
locale. Così, quando ai primi di aprile si profilò un
rastrellamento, la Brigata Gramsci ripiegò in altri luoghi,
lasciando il campo praticamente sguarnito e aperto ad ogni reazione
nazifascista. Episodi incontrollati, con eliminazione di un
collaborazionista, offrirono un pretesto ai nazifascisti per
incrudelire sulla popolazione e compiere due stragi di 12 persone
nella frazione di Cumulata e di 23 nel centro di Leonessa. Tra esse,
il commissario prefettizio del Comune, Ugo Tavani e il parroco, don
Concezio Chiaretti, che avevano cercato di salvare gli ostaggi.
In questo episodio, troviamo ben due comunità di
partigiani, gli slavi e gli italiani, che sembrano non essere
riusciti neppure ad integrarsi tra loro, e le cui esigenze operative
sembrano risultare totalmente divergenti rispetto alla difesa di una
comunità di montanari (in realtà sono diverse, quante
sono le Ville, cioè le frazioni nelle quali si articola il
paese) che – pur avendo subito passivamente la presenza
partigiana – sembra aver finito per restare comunque esposta ad
una pesante rappresaglia. E la frattura è rimasta nel tempo: a
serbare la memoria della strage sono le famiglie dei caduti e
l’associazione dei cappellani militari (don Concezio Chiaretti
lo era stato in precedenza), che promuovono le iniziative insieme ad
un comitato cittadino che, inascoltato, si batte anche per
l’ottenimento della medaglia d’oro alla popolazione. Nel
linguaggio della popolazione, espressione di cultura politica
popolare e di identità civile, la contrapposizione è
rimasta netta fra i caduti, chiamati comunque “ribelli”,
e i “partigiani”, che continuano ad essere sentiti come
estranei e con le cui organizzazioni i rapporti non sono mai stati
facili.
Vi
è un romanzo, La messa dell’uomo disarmato,
scritto da un anziano prete che è stato con don Primo
Mazzolari, poi prete operaio e assistente delle Acli, e che
costituisce l’unica opera epica della Resistenza, della quale
pure non tace durezze e contraddizioni. I luoghi dove si svolge sono
quelli delle Prealpi lombarde e i personaggi – a parte i
fascisti – appartengono a tre comunità, quella dei
valligiani, quella dei partigiani e quella dei monaci di un’antica
abbazia di fondovalle, che svolge il ruolo di mettere in
comunicazione le altre due e di preservarle – come può –
dalle minacce, dalle angherie e dalle repressioni nazifasciste.
4
- Violenza come cultura politica e violenza come necessità
Maria
Teresa Regard, diciottenne e coraggiosa gappista romana, fu autrice
di numerose azioni a rischio: tra esse, il 19 dicembre 1943, con
Franco Calamandrei, Arminio Savioli e Ernesto Borghese, di lanciò
esplosivi all’interno dell’Hotel Flora in Via Veneto,
sede del comando tedesco. In seguito, come inviata de l’Unità,
fu anche su fronti di guerra, in Indocina, in Cina, in Tibet, in
Vietnam e altrove: una donna che, nella sua esistenza, aveva avuto
esperienze delle situazioni più drammatiche, ma che –
anche in età anziana – in alcune circostanze continuava
ad avere delle crisi depressive determinate (così mi disse più
volte) soprattutto dal problema, non risolto lungo l’arco di
una vita intera, di aver dovuto uccidere degli esseri umani per
difendere sé, i suoi cari, il suo paese dalla tragedia
dell’occupazione e della repressione nazifascista. Tra i suoi
compagni di lotta, militanti negli stessi Gap, Rosario Bentivegna –
un uomo che, per il ruolo svolto nell’attentato di Via Rasella,
dalla propaganda fascista viene spesso presentato come un sanguinario
– ha ricordato di aver percepito un mutamento radicale nella
propria esistenza allorché per la prima volta aveva sparato ad
un fascista: “Avevo sparato su un uomo. Non riuscivo a parlare,
a mescolarmi di nuovo con i miei amici. (...) Mi domandavo mille
volte se un uomo ha il diritto di colpire un altro uomo. A una
domanda così semplicistica mi rispondevo mille volte di no. Ma
la mia guerra era legittima, e soprattutto non l’avevo voluta
io, né gli uomini della mia parte. (...) So per certo, ormai,
che di fronte ai nemici colpiti non c’è soldato che non
abbia maledetto la guerra” [pp. 109-110]. Carla Capponi,
anch’essa coraggiosa ragazza dei Gap di Roma, nel suo libro di
memorie ritorna più volte sull’uso della violenza per
mostrare come si trattasse di una contraddizione aperta, legittimata
forse ma non giustificata. E ricorda con gioia l’incontro e
l’abbraccio dopo la Liberazione con la sua compagna Carla
Angelini: “lei era appena uscita dal carcere e io avevo appena
deposto le armi che tanto avevo odiato e che pensavo di non dover più
usare” [p. 168]. Marisa Musu, diciassettenne, la più
giovane gappista romana, ha ricordato che il suo comandante Franco
Calamandrei, letterato e figlio del grande giurista Piero, dopo che
avevano sparato per ucciderlo contro l’automobile di Giuseppe
Pizzirani, federale repubblichino dell’Urbe e vicesegretario
del Partito fascista repubblicano, avendo constatato che gli
occupanti erano feriti e non conoscendo la fisionomia del gerarca,
ordinò di non dare il colpo di grazia a tutti per evitare di
uccidere i militi di scorta che non erano il loro obiettivo. Infine,
a via Rasella, il 23 marzo 1944, mentre il reparto tedesco contro il
quale era stato preparato e contro il quale si stava per compiere
l’attentato stava per immettersi nella strada ai piedi della
salita, in cima c’era un gruppo di bambini che giocava a
pallone: era questione di attimi, l’azione di guerra preparata
con grande cura rischiava di essere annullata per evitare di
coinvolgerli nello scoppio. Dapprima Carla Capponi e poi Pasquale
Balsamo intervengono per allontanarli lanciando il pallone in una
delle strade laterali.
Di
proposito ho voluto citare alcuni dei più noti protagonisti di
un organismo partigiano che – ancora oggi – viene spesso
fatto passare come un’accolta di sanguinari. In realtà,
nonostante che ripetute volte siamo posti di fronte a casi e
situazioni che mostrerebbero il contrario, di fronte al problema
della violenza indiscriminata anche la cultura politica dei comunisti
è stata in più momenti e in più casi
attraversata da dubbi, incertezze, problemi etici. Di fronte al
problema della vita umana – ha notato con lucida perspicacia
Luca Alessandrini – tutte le culture politiche sono state
percorse da fratture. Vi era una componente – che potremmo
definire “realistica” – che era spinta da minori
scrupoli ad accettare l’idea che a dettare i comportamenti sono
le condizioni nelle quali si svolge la lotta e che quelle il
combattente non sempre può scegliersele perché
combacino con i suoi convincimenti etici. Tutti gli studi relativi al
Movimento dei cattolici comunisti partono dal cosiddetto “appunto
Pecoraro” (dal nome di Paolo Pecoraro che lo aveva steso) che
nel 1937 o 1938 indicava la necessità di passare dall’azione
morale all’azione politica assumendosene tutti rischi: Adriano
Ossicini, da me esplicitamente richiesto, mi ha detto che con esso si
intendeva manifestare sia la consapevolezza che si poteva rischiare
di andare in carcere e di subire la repressione, sia quella che
all’occorrenza si dovesse fare ricorso alle armi, come poi fu.
Di
contro, vi era una componente più “umanitaria” o
“umanistica”, per la quale l’impiego della violenza
– non quella delle battaglie in campo aperto, ma quella contro
singole persone – andava esso stesso sottoposto a limiti e
remore, sia per quanto riguardava le azioni offensive, sia per quanto
riguardava la giustizia partigiana. E’ noto che Giuseppe
Dossetti intervenne più volte negli organismi direttivi dei
quali faceva parte perché si tenessero comportamenti il più
possibile responsabili circa l’impiego della violenza sia al
fine di evitare rappresaglie, sia a quello di non incrudelire le già
pesanti condizioni della lotta. Voglio, però, ricordare che un
valoroso comandante partigiano cattolico come Paolo Emilio Taviani mi
confessò che – per quanto non coinvolto nella decisione
perché operava a Genova e non a Firenze – non si era
sentito di condannare l’uccisione del filosofo Giovanni
Gentile, della cui precedente attività aveva avuto conoscenza
a Pisa dove insegnava, perché riteneva che le responsabilità
morali e politiche che si era assunto con la RSI non fossero minori
di quelle di alti funzionari di partito e militari.
Ma
l’impiego della violenza presentava anche un altro aspetto,
quello delle conseguenze delle proprie azioni sulle popolazioni
civili.
Proprio
chi, come me, al pari di altri, ha dedicato parte del suo impegno
scientifico e civile perché nelle ricostruzioni della
Resistenza si facesse spazio anche allo studio della “lotta non
armata”, vuole sottolineare come a chi esercitava le
responsabilità più alte di comando non fosse estranea
la preoccupazione che i combattenti mettessero in atto un adeguato
autocontrollo per evitare – fin dove era possibile –
conseguenze più o meno gravi sulle popolazioni. Credo che oggi
– passati i tempi della guerra fredda e dei contrasti
ideologici – possa essere letta con meno animosità e
maggiore serenità la documentazione prodotta a suo tempo da
Ermanno Corrieri nel LVI capitolo del suo La Repubblica di
Montefiorino, nel quale metteva a confronto le diverse concezioni
dei comunisti e degli altri – soprattutto cattolici – a
proposito dell’impiego della violenza. A motivarle non vi erano
solo ragioni etiche, ma anche politiche: emergevano due modi di
concepire la lotta, tra chi ricercava in maniera prevalente
l’efficacia dell’azione e chi si preoccupava maggiormente
dell’acquisizione del consenso alle ragioni della lotta comune.
D’altro canto, in altro mio studio ho mostrato come, se
è vero che Luigi Longo aveva emanato una direttiva nella quale
si sosteneva che il timore di rappresaglie non doveva costituire
remora all’azione, tuttavia i documenti delle Brigate Garibaldi
contenevano una serie numerosa di richiami alle condizioni nelle
quali la lotta si svolgeva e alla necessità di non trascurare
il rapporto con le popolazioni e i loro bisogni.
Per
quanto riguarda Roma, così segnata dalla tragedia delle Fosse
Ardeatine, si può ricordare che nella prima fase della lotta,
praticamente fino allo sbarco di Anzio, erano tutti molto attenti a
colpire in prevalenza i fascisti perché si riteneva che così
si potessero evitare reazioni tedesche sulla popolazione civile. Ma
poi il contesto era profondamente mutato e la durezza
dell’occupazione aveva spinto a rendere più dura anche
l’offensiva partigiana.
A
scanso di equivoci, però, va pur sempre ricordato che la vera
e propria “politica della strage” messa in atto dai
nazisti e dai fascisti nei confronti delle popolazioni, per una parte
larghissima e maggioritaria si manifestò in atti gravissimi di
violenza indiscriminata che non derivavano da precedenti azioni
partigiane.
Prima
che autore della più nota Storia della Resistenza italiana,
Roberto Battaglia era stato autore del racconto Un uomo, un
partigiano, uscito nel marzo 1945 e di recente ripubblicato, il
cui scopo prevalente era quello di evitare che sulla memoria
Resistenziale si coltivasse la retorica. In parte si trattava di una
testimonianza, in parte di una ricostruzione documentaria da parte di
un comandante partigiano, quale egli era stato.
Di
esso voglio ricordare come, dopo un attacco con esplosivi a due
autocarri, commenta: “quella gran gioia che invade tutti
d’essere riusciti: ma come si può essere così
felici perché si è ucciso degli altri uomini ?”
(p. 69). Ma, soprattutto, voglio indicare che tra le cose che
si preoccupò di rendere note, nell’ultimo capitolo
dedicato alla “giustizia partigiana”, vi era anche
l’esposizione delle condizioni politiche e psicologiche nelle
quali avevano esercitato le cosiddette “azioni di giustizia”:
anche in una condizione nella quale si diceva “pietà l’è
morta”, la preoccupazione che tornava era quella di segnare dei
limiti entro i quali l’impiego della violenza poteva trovare
legittimazione. Alla cultura dell’arbitrio e dell’oppressione
si tentava di opporre la cultura – per quanto abbozzata e
precaria – di una nuova e diversa legalità. Questo non
vuol dire che – come Massimo Storchi ha accuratamente
documentato per la provincia di Reggio Emilia – il
surplus di violenza che ogni guerra porta con sé non avesse
segnato profondamente anche i combattenti della Resistenza e che,
dopo la fine del conflitto non vi siano stati ingiustificati atti
d’arbitrio. Vuole solo sottolineare che la cultura della
violenza non è l’unico metro con il quale vanno indagate
e valutate le azioni delle formazioni partigiane.
Due
testimonianze – una letteraria e una storiografica – ci
mostrano come le “azioni di giustizia” non fossero
rivolte solo all’esterno, verso il nemico, ma colpissero, in
maniera certo non lieve, anche tra le fila dei resistenti: con
conseguenze non sempre positive nella stabilità delle
formazioni e nei rapporti interni ad esse. Così, Ubaldo
Bertoli – riferendosi ad episodi sull’Appennino
parmense – ha ricostruito come fosse stata problematica
e difficile sia la condanna, ma ancor più l’esecuzione
di un partigiano e come fossero profondamente mutati i rapporti tra
chi si era assunto l’arduo compito di eseguire la condanna e
gli altri compagni. Ermanno Gorrieri, invece, ha raccontato l’intero
processo decisionale attraverso il quale si era giunti a prevedere
l’eliminazione di un capo partigiano, che pur godeva di carisma
e di prestigio, perché la sua attività era sì
coraggiosa, ma tendeva a esorbitare dalla disciplina necessaria per
la sicurezza di tutti per quanto riguardava i rapporti economici con
la popolazione.
5.
- “Piccole” patrie e “grande” patria
L’idea
della violenza, in genere, è associata all’idea della
ribellione e della rivoluzione. Anche ad esse Claudio Pavone ha
dedicato pagine di grande interesse e spessore che andrebbero
verificate fuori dell’ambito degli stessi partigiani
combattenti. Tuttavia è da ricordare che l’esercito dei
disertori e degli obiettori, come don Lorenzo Milani chiamava i
partigiani, esprimeva quel concetto che la mia generazione ha
espresso con lo slogan “ribellarsi è giusto”. È
un concetto che affonda molto lontano le sue radici nel pensiero
politico europeo: alle polemiche e alle lotte contro l’assolutismo
regio in nome del diritto naturale. In tale cultura antiassolutistica
– che giungeva alla legittimazione del tirannicidio – si
trovano matrici sia cattoliche sia laiche e illuministiche o
pre-illuministiche. Si tratta di un patrimonio di fondo del pensiero
politico europeo, che ha sempre considerato titolare del diritto di
resistenza e di ribellione la comunità (ed anche questo ci
rimanda al discorso iniziale).
“Mai
ci sentimmo così liberi – era scritto sulla testata de
Il Ribelle, giornale partigiano bresciano di Teresio Olivelli
e delle Fiamme Verdi – come quando sentimmo dentro di noi la
forza di ribellarci” e, ancora, “non esistono liberatori,
ma solo uomini [e donne, aggiungeremmo noi] che si liberano”.
Sono parole che il partigiano giellista Guido Quazza ha trasformato
in un concetto storiografico quando – richiamando Albert Camus
de L’uomo in rivolta – ha parlato della ribellione
dell’uomo armato solo delle proprie convinzioni contro
un’organizzazione potente finalizzata all’oppressione.
Nel
retroterra della ribellione – come ha mostrato Pavone – è
possibile trovare intrecci fra tutte le culture rivoluzionarie:
da Bakunin a Lenin, dagli anarchici ai comunisti, ma anche quelle
della tradizione patriottica risorgimentale, da Carlo Pisacane a
Giuseppe Mazzini. Per tale via, sul piano ideologico, anche se per
contrasto, si ricomponeva per un momento una tradizione nazionale con
coloro che allo Stato risorgimentale si ricollegavano per
l’obbedienza al giuramento al sovrano legittimo. Arrigo
Paladini, poi fortunosamente scampato alla morte, nella sua cella di
detenzione a Via Tasso, a Roma, ha lasciato numerosi graffiti nei
quali – con linguaggi talora della tradizione classica (era
professore di lettere) con citazioni di motti greci e latini e frasi
di Dante e Petrarca – emerge con chiarezza l’intreccio
tra il dovere nei riguardi della patria, l’onore di militare
fedele al giuramento, l’amore per sua madre e per la sua
fidanzata. Lo stesso universo simbolico espresso nei diari e nei
documenti dei 600.000 internati militari.
Tuttavia
– per la complessità di questo tema – è
necessario fare un rinvio a un numero notevole di scritti e di
interventi che – sollecitati dalla denuncia della “morte
della patria” – hanno contribuito a delineare un quadro
piuttosto preciso e di una certa coerenza. Da quelli di Gian Enrico
Rusconi alle pagine di Claudio Pavone sulla “guerra
patriottica”, agli interventi di Massimo Legnani, Francesco
Barbagallo, Pietro Scoppola al convegno su La Resistenza tra
storia e memoria, ad un’intera sezione del volume sulle
Idee costituzionali della Resistenza.
A me
interessa qui richiamare alcuni episodi abbastanza singolari e
significativi dei primi giorni successivi all’8 settembre 1943.
Ne ho raccolto solo tre, ma sono abbastanza convergenti come
significato, anche se si riferiscono a tre località e a tre
ambienti sociali molto differenti.
Il primo è
contenuto nel diario di Venanzio Gabriotti, di Città di
Castello, nell'Alta Valle del Tevere, in provincia di Perugia,
ufficiale pluridecorato della grande guerra e già segretario
del Partito popolare, fondatore del CLN locale e poi fucilato dai
fascisti il 9 maggio 1944. Alla data del 13 settembre 1943 si dà
notizia di una riunione di fascisti e antifascisti nel comune di
Città di Castello, conclusa con la stesura di un
manifesto-appello alla popolazione perché di fronte alla
minaccia di «lutti e rovine» si trovi una coesione
sociale a livello municipale: «Qualunque cosa sia per
avvenire, Città di Castello - fiera delle sue tradizioni -
deve continuare a dar prova della sua serietà e della sua
civiltà» [pp. 61-62].
Il secondo
è contenuto nel diario – del quale c’è
copia al Museo storico della Liberazione a Roma, ma del qual non
posso ancora dare elementio per un’identificazione precisa –
di una giovane studentessa universitaria di Padova, residente in un
comune di campagna, il cui padre è vicino al partito d’Azione.
L’ambiente è simile a quello de I piccoli maestri,
vi si parla anche di Norberto Bobbio e di Antonio Giuriolo. In uno
dei giorni dopo l’8 settembre, vi si svolge una riunione tra
esponenti locali, sia antifascisti sia fascisti per opporsi ai
tedeschi.
Il terzo è
riportato da Luigi Cavazzoli, che ha documentato assemblee di
capifamiglia svoltesi nel Mantovano per riorganizzare la società
locale nell’assenza di precise azioni dell’autorità
legittima, della quale non si conoscono orientamenti.
Certo, da
tre indizi raccolti quasi casualmente non si può ribaltare la
conoscenza sul periodo, ma non tutto dovrebbe essere andato perduto e
i frammenti di memoria potrebbero essere o diventare più
numerosi. Essi ci porterebbero a tentare di verificare
un’ipotesi formulata acutamente da Francesco Traniello,
allorché – suscitando le reazioni polemiche di Sergio
Cotta – ha affermato che “la civitas stava subendo
una spinta a configurarsi marcatamente come communitas”.
[p. 56] Ciò permetterebbe di collocare in un contesto diverso
quanto dicevo all’inizio a proposito dei gruppi sociali
elementari o delle formazioni sociali, ma anche a comprendere meglio
quell’affermazione che – nelle more del convegno di
Belluno sulla guerra civile – mi fece un anziano partigiano
giellista: “L’ultima infamia di Mussolini fu quella di
averci costretto a combatterci tra concittadini e connazionali”.
Ma la
vicenda resistenziale si caratterizzò anche perché nel
suo svolgersi, sul piano delle culture politiche, fece emergere un
diverso concetto di appartenenza nazionale. Ha scritto Enzo Enriques
Agnoletti nella prefazione delle Lettere dei condannati a morte
della Resistenza italiana: “I motivi patriottici, che pur
ci sono e profondi, devono essere associati a un’idea della
patria meno elementare, meno fisica di quel che è accaduto
fuori d’Italia, un’idea della patria che vede in essa non
solo la comune origine, ma un tipo di società contrapposto a
un altro tipo di società” [p. XV].
Poco
prima della sua morte, il partigiano romano di “Bandiera rossa”
Orfeo Mucci frequentava – in ideale continuità – i
giovani dei centri sociali e di Rifondazione comunista ed esprimeva
con essi quell’intransigenza rivoluzionaria che aveva
testimoniato per tutta la vita: in particolare se la prendeva con il
patriottismo partigiano, che sosteneva non avere mai riscontrato nel
corso della lotta. Tuttavia, se si leggono le lettere di Romolo
Iacopini, esponente comunista fucilato con altri della sua stessa
formazione, si trova il riferimento preciso alla patria per la quale
aveva combattuto nella Grande Guerra e che dai fascisti era stata
“falsificata” e si trova l’auspicio di una “nuova
Italia, più forte, degna e libera per le nuove generazioni”.
“Nostra
patria è il mondo intero”, cantava la nota canzone
anarchica, ma il riferimento a qualcuno potrebbe apparire generico.
“Ogni contrada è patria del ribelle” cantava
invece la Fischia il vento partigiana, indicando con
precisione che in ogni luogo vi fosse un gruppo sociale elementare
che lottava, lì era il posto del partigiano. E questo dovrebbe
rimandarci al fatto che per molti che, a Roma e altrove, avevano
partecipato alla prima fase della lotta di liberazione, l’impegno
non finiva. Mario Fiorentini – gappista comunista romano –
si arruolò nei Gruppi di Combattimento Cremona, per Lamberto
Mercuri, giellista e collaboratore del britannico Special Force 1,
dopo la partecipazione alla liberazione di Lanciano vi fu il lancio
con il paracadute nelle Langhe, anche per Piero Boni, socialista,
dopo l’impegno a Roma vi fu il lancio sull’Appennino
parmense, dove scampò per poco alla strage di Bosco di
Corniglio. Così fu per innumerevoli altri. Dopo la liberazione
di Roma, come testimonia un manifesto conservato al Museo storico
della Liberazione, i giovani democristiani romani organizzarono la
“Brigata don Giuseppe Morosini” proprio per arruolare
giovani per partecipare alla liberazione del Nord.
E
qui, forse, vale la pena di concludere, non senza aver richiamato –
ancora in una dimensione che è personale e politica ad un
tempo – le ultime parole di Giordano Cavestro, diciottenne
studente parmigiano figlio di un importante esponente comunista e
attivo nella provincia di Parma, scritte prima di essere fucilato a
Bardi il 4 maggio 1944.
“Cari
compagni – egli scriveva – ora tocca a noi. / Andiamo a
raggiungere gli altri gloriosi compagni caduti per la salvezza e la
gloria d’Italia. / Voi sapete il compito che vi tocca. Io
muoio, ma l’idea vivrà nel futuro, luminosa, grande e
bella. / Siamo alla fine di tutti i mali. Questi giorni sono come gli
ultimi giorni di vita di un grosso mostro che vuol fare più
vittime possibile. / Se vivrete, tocca a voi rifare questa povera
Italia che è così bella, che ha un sole caldo, le mamme
così buone e le ragazze così care./ La mia giovinezza è
spezzata ma sono sicuro che servirà da esempio. / Sui nostri
corpi si farà il grande faro della Libertà.”
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