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Il dopo Quattro Giornate: l’occupazione alleata a Napoli
Paolo De Marco
Negli ultimi mesi si è con insistenza sostenuto sulla stampa e
in televisione che gli americani e gli inglesi sono intervenuti in
Iraq per esportare in quel paese – sia pure con le armi –
la democrazia e la libertà, allo stesso identico modo con cui
sessanta anni fa, durante la seconda guerra mondiale, avevano
«liberato» l’Europa dall’oppressione
nazi-fascista.
Per quanto riguarda il nostro paese in particolare, si può
ricordare che gli anglo-americani, quando sbarcarono in Italia,
insediarono un Governo Militare Alleato che rispondeva direttamente
alle autorità militari, esattamente come è stato fatto
in Iraq, fino a poche settimane fa, il che potrebbe far pensare ad
una continuità di scopi e di metodi – almeno nelle
intenzioni – tra i «liberatori» anglo-americani
della Seconda guerra mondiale e i «volenterosi» aderenti
alla coalizione diretta da Bush, impegnati oggi ad «esportare
la democrazia» nel Medio Oriente.
Le analogie tra la situazione italiana del 1943-45 e quella irachena
di oggi sono però solo apparenti, perché risultano
profondamente diverse le caratteristiche dei due Paesi e le
condizioni politiche, sociali, culturali, ed anche religiose, così
come risultano radicalmente mutati i contesti internazionali in cui
si è realizzata la «liberazione» dell’Italia
e dell’Iraq.
In primo luogo, durante la Seconda Guerra Mondiale, l’Italia
stava attraversando una violentissima crisi politica e morale, che
costringeva a rivedere l’idea stessa di Patria e a cercarne un
nuovo significato, ma manteneva una sua precisa identità e la
sua popolazione restava pur sempre dotata di un forte senso di
appartenenza nazionale; in Iraq invece il senso di Nazione è
condizionato dal fatto stesso che quel paese è nato come Stato
per volontà del governo inglese, sulla base degli interessi
imperiali britannici, e risulta ancora oggi seriamente indebolito
dalle periodiche tentazioni separatiste delle diverse comunità
che ne fanno parte, e dal peso ancora esercitato dalle tradizionali
divisioni tribali. L’Italia era inoltre un paese in larghisima
maggioranza cattolico, mentre la società irachena risente
delle divisioni tra sciti e sunniti e tra le diverse sette e scuole
religiose che si muovono all’interno di questi due grandi
gruppi religiosi. Il nostro paese aveva conosciuto, prima del
fascismo, sia pure con tanti limiti e contraddizioni, una lunga
stagione di democrazia parlamentare, mentre fino ad oggi in Iraq non
c’è mai stata una reale democrazia. Infine, durante la
Seconda Guerra Mondiale gli inglesi avevano partecipato alla pari con
gli americani alla liberazione dell’Europa ed avevano, anzi,
sostenuto con le loro truppe il peso maggiore della campagna
d’Italia, mentre oggi gli americani si accollano da soli quasi
l’intero peso dell’occupazione militare dell’Iraq,
con un contributo solo molto modesto offerto dai loro alleati,
compresi gli stessi inglesi.
Ma, soprattutto, inglesi e americani sono intervenuti in Iraq per
propria scelta, contro il parere dei governi della «Vecchia
Europa» e della stessa Onu, mentre, all’epoca, invasero
l’Italia perché Mussolini aveva loro dichiarato guerra e
perché l’occupazione dell’Italia sembrava, a torto
o a ragione, utile per accelerare la sconfitta della Germania
nazista.
Per quanto, infine, riguarda la liberazione di Napoli nell’ottobre
del 1943, va ricordato che questa fu salutata con sollievo e gioia
dai napoletani soprattutto perché segnava la fine del regime
di terrore imposto dai tedeschi e sembrava annunciare la fine dei
timori e dei sacrifici imposti dalla guerra, mentre la liberazione di
Bagdad appare soprattutto come effetto di una guerra, che per giunta
non può dirsi ancora completamente cessata, perché
continua in qualche modo sotto la forma del terrorismo.
Per analizzare il periodo dell’occupazione alleata a Napoli,
bisogna ricordare che, al momento dello sbarco in Sicilia, il 10
luglio 1943, gli Italiani erano ancora «nemici» a tutti
gli effetti, e che l’armistizio del settembre 1943 non segnò
immediatamente un rovesciamento delle alleanze e un passaggio
dell’Italia nello schieramento delle Nazioni Unite, perché
si limitava a sancire la «resa incondizionata»
dell’Italia.
Il repentino tracollo delle Forze Armate, all’indomani dell’8
settembre, aveva infatti impedito agli italiani di realizzare un
effettivo rovesciamento di fronte e di conquistare sul campo il
diritto a far parte a pieno titolo dello schieramento delle Nazioni
Unite. L’Italia continuò ad essere pertanto, per i
governi inglese e americano, semplicemente un «paese nemico
sconfitto», in quanto tale obbligato ad accettare le
pesantissime clausole dell’armistizio «lungo» del
29 settembre, anche se le era offerta la possibilità di
«pagare il biglietto di ritorno» tra i Paesi democratici,
e di modificare il suo status internazionale, se non in quello di
paese «alleato» almeno in quello di paese
«cobelligerante» degli anglo-americani.
Gli Alleati pertanto esercitavano pieni poteri nei territori italiani
che man mano venivano liberati, attuando un controllo «diretto»
attraverso l’AMG (Allied Military Government), ed
esercitavano poteri sostanziali di veto e di controllo anche sui
territori del «Regno del Sud» (in sostanza, fino al
gennaio 1944, la sola Puglia, tranne la provincia di Foggia, e la
Sardegna), lasciati formalmente alla sovranità italiana e
perciò, in teoria, sottoposti unicamente all’autorità
del Sovrano e del Governo Badoglio, attuando un controllo «indiretto»
inizialmente con la AMM (Allied Military Mission) e, poi, dal
novembre 1943, con l’ACC (Allied Control Commission).
Il reale modo di intendere i rapporti col governo italiano era
francamente ammesso, nel rapporto trasmesso il 28 settembre al
responsabile della Civil Affairs Division di Washington, generale J.
H. Hilldring, dal Capo della Military Government Section dell’AFHQ,
generale Julius Holmes, inviato a Brindisi con Lord Rennell per
trovare un modus vivendi col governo di Brindisi in attesa di
istruzioni definitive dei Capi di Stato Maggiori congiunti
anglo-americani:
«Il Generale Rennell ed io abbiamo fatto una
visita la settimana scorsa e con il generale [Mason-] MacFarlane
abbiamo lavorato su un accordo ad interim con il maresciallo
Badoglio, sotto i cui termini abbiamo concordato di non proclamare il
Governo Militare nelle quattro province della Puglia.
Nella circostanza ci parve inopportuno dare pubblica
notizia del nostro controllo del diritto di sovranità
(italiana) sotto il naso del piccolo re e del vecchio maresciallo.
Anziché insediare il governo militare, abbiamo deciso di
permettere al maresciallo di governare queste quattro province con
ufficiali dell’AMG nelle prefetture e in altri posti in qualità
di ufficiali di collegamento, ma con la precisa intesa che avrebbero
esercitato un’effettiva influenza nell’amministrazione
locale. Badoglio era perfettamente d’accordo su questo perché
lui e tutti gli interessati erano pienamente consapevoli del fatto
che qualsiasi riluttanza da parte degli italiani a fare quello che
noi chiedevamo per portare avanti la campagna poteva portare
rapidamente all’instaurazione di un totale controllo
militare».
La totale dipendenza del Governo Badoglio dagli Alleati era, del
resto, resa inevitabile dalla estrema debolezza di quel Governo, che,
in quei giorni, risultava privo anche delle più elementari
strutture amministrative e dei servizi indispensabili, non disponendo
neppure di dattilografi così che le stesse comunicazioni
ufficiali consegnate agli Alleati non erano altro che lettere scritte
a mano da Badoglio.
La stessa sopravvivenza fisica dell’apparato burocratico di
Brindisi era tra l’altro affidata alle razioni alimentari
concesse dagli Alleati ai funzionari e agli impiegati dei Ministeri
ed agli stessi membri del Governo, compreso lo stesso Maresciallo
Badoglio.
Dal momento che l’AMG era un organismo militare, che rispondeva
direttamente ai comandanti delle Armate alleate e al Comandante
Supremo alleato per il teatro di guerra mediterraneo (Eisenhower
fino all’8 gennaio 1943) le sue finalità, a Napoli come
in tutti gli altri territori liberati, erano in primo luogo militari.
Gli aiuti alla popolazione erano cioè previsti solo nella
misura strettamente necessaria per evitare il pericolo di rivolte e
di epidemie, che potevano coinvolgere anche i militari delle Armate
alleate sbarcate in Italia, perché lo scopo prioritario
dell’AMG era quello di sostenere l’attività dei
reparti alleati, mobilitando a loro favore tutte le risorse locali.
Ovviamente, la prima iniziativa presa a Napoli dagli alleati fu la
ricerca degli ordigni esplosivi a tempo disseminati dai tedeschi in
città, che provocarono diverse esplosioni con molti morti tra
la popolazione, come al Palazzo delle Poste, dove il 7 ottobre
rimasero uccisi 30 civili ed altri 84 furono gravemente feriti, ma
anche tra i militari alleati, tra i quali si registrarono 24 morti e
47 feriti l’11 ottobre, quando saltarono in aria le baracche di
una caserma dell’artiglieria italiana, da loro occupate
[Sarebbe forse il caso di esaminare con attenzione le meticolose
piantine preparate dai comandi tedeschi, custodite nell’archivio
di Friburgo,
con l’indicazione della precisa posizione delle mine nascoste
dai guastatori tedeschi in molti edifici napoletani, per assicurarsi
che siano state tutte effettivamente recuperate e neutralizzate].
Ma anche le altre primissime misure prese dagli Alleati a Napoli
avevano una finalità militare, anche quando andavano comunque
a vantaggio della popolazione: così la rimessa in funzione del
Porto risultava essenziale per ripristinare i rifornimenti
alimentari alla città, ma serviva prima di tutto a garantire
il necessario supporto logistico alle Armate alleate impegnate in
Italia; il ripristino della distribuzione dell’acqua e dei
servizi essenziali aveva evidentemente lo scopo di salvare i
napoletani dalla sete e dalla fame, ma anche quello di impedire la
altrimenti inevitabile dispersione della popolazione nelle aree
circostanti, che avrebbe intralciato i movimenti delle unità
militari. Lo stesso provvidenziale, massiccio impegno degli Alleati
nel contrastare una gravissima epidemia di tifo petecchiale esplosa
in città, con un’azione sanitaria tanto vasta da essere
definita la «seconda battaglia per Napoli» salvò i
napoletani dal pericolo concreto di una incontrollabile pandemia, ma
servì anche a tutelare la sicurezza dei militari alleati,
riducendo il rischio che anche loro venissero contagiati dal morbo.
La visione della ricchissima dotazione di mezzi dei soldati
statunitensi aveva ovviamente favorito una ripresa del mito
americano.
Già nel corso della campagna di Sicilia, era apparso
prepotentemente tra i soldati italiani impegnati nell’Isola il
mito americano (in qualche modo esteso anche all’Inghilterra),
che portava a giudicare quasi in termini favolistici, magici, la
potenza, o meglio l’onnipotenza anglo-americana, esprimendo in
tal modo l’ammirazione e il senso di placida inferiorità
che i soldati-contadini di un’Italia ancora largamente rurale,
nutrivano nei confronti dei guerrieri tecnologizzati di una società
industriale ricca ed evoluta come quella anglo-sassone.
Come ha ricordato Giorgio Corona sulle sue esperienze come ufficiale
in quella campagna:
Sono sorte tra i soldati sulla guerra storie fantastiche
e bizzarre che rivelano quanto questa guerra sia per loro estranea e
irreale e, come guerra, quasi incomprensibile. Essi mi spiegano che
gli aerei a due code, quelli di cui hanno più
paura, sono tutti guidati da donne. Rido, ma loro giurano che è
vero: presso i resti di uno di questi aerei sono stati anche trovati
i corpi di due meravigliose donne bionde, ancora intatte, come per
miracolo, ma, chissà come, completamente nude [...] Con
senso altrettanto favoloso mi descrivono anche i soldati negri, alti
e fortissimi, che hanno visto a Gela: questi negri, improvvisamente,
si mettevano a parlare italiano così come gli animali nelle
fiabe si alzano in piedi e parlano da umani.
E proseguiva:
A Gela essi hanno fatto prigionieri che poi hanno perso
ritirandosi e perfino nel descrivere gli attrezzi, le divise, le
munizioni, i viveri, trovati o visti addosso a questi nemici, rendono
tutto strano e meraviglioso: gli americani si ungono la faccia con
pomate di vari colori, per lo più colore terra o nero: c’è
chi dice per mimetizzarsi, c’è chi dice per fare paura,
c’è chi dice contro le zanzare. Gli inglesi hanno
misteriosi viveri, di fronte a cui le nostre scatolette, così
desiderate dai soldati, sono un cibo pressoché rudimentale:
hanno biscotti, dolci, cioccolata, piccole borracce di liquori e
soprattutto hanno certe tavolette di una sostanza grigiastra e
gassosa che ti verrebbe da buttarle via ed invece un soldato mi
spergiurava che gli è accaduto di mangiarne una e per due
giorni non ha più avuto fame e si sentiva forte come un
leone.
A Napoli l’arrivo degli alleati era stato salutato in
un’atmosfera entusiastica, con tratti persino d’autentica
isteria collettiva, da una popolazione travolta e frastornata
dall’esibizione di potenza e di opulenza fornita dalla Quinta
Armata col numero, le dimensioni e la varietà dei tank e dei
mezzi di trasporto e di traino in dotazione, con lo spettacolo
ubriacante delle variopinte divise dei reparti inglesi, americani,
canadesi, scozzesi e delle truppe di colore che continuamente
arrivavano in città, con l’incredibile varietà
dei gusti e degli aromi dei prodotti offerti con larghezza dai
militari alleati, dei quali molti dimenticati, come quello del pane
bianco, della cioccolata e del caffè autentico, e alcuni
insoliti o del tutto sconosciuti, come quello del chewing-gum,
dei life savers (le caramelle col buco) e della coca cola
o quello melassato delle Camel, delle Lucky Strike e
delle Pall Mall o quello aromatico delle sigarette inglesi.
Anche nelle giornate e nelle settimane successive si registrava una
piena ammirazione dei napoletani, logorati fisicamente dalle
privazioni alimentari di una lunga guerra, costretti spesso ad
indossare capi d’abbigliamento ridotti a brandelli, spesso
privi anche delle scarpe, nei confronti dei soldati anglo-americani,
alti, ben nutriti, dotati tutti di eccellente vestiario e di solide
calzature, per non parlare della larga disponibilità di generi
di conforto d’ogni tipo (sigarette, cioccolata, gomme
masticanti, generi alimentari, bevande) ad essi assicurata e della
stupefacente capacità di spesa di cui tutti loro, compresi i
soldati di colore, sembravano godere, che rivelavano appieno
l’abissale divario tra le condizioni dei vincitori, tipiche di
una società opulenta, e quelle miserevoli dei soldati vinti,
risultato inevitabile di un’Italia povera e frugale, prostrata
da una guerra rovinosa.
Non va, inoltre, trascurato il valore innovativo, dopo 20 anni di
regime poliziesco, dei modelli istituzionali e giuridici
anglo-americani: si pensi, per fare un esempio, all’introduzione
della regola dell’Habeas Corpus in un’Italia in
cui gli imputati di un qualche reato erano trattenuti in carcere per
tutto il tempo necessario per la polizia per raccogliere tutte le
prove a loro carico, senza che fossero neppure informati di quale
reato fossero accusati; all’assoluto divieto di ricostituire
sotto qualunque forma il partito fascista imposto dagli
anglo-americani come precisa clausola dell’armistizio – e
in seguito, del trattato di pace; si pensi, soprattutto, al
ripristino della libertà individuali attuato dagli
anglo-americani, eliminando i limiti imposti dal regime fascista alla
libertà di parola e al diritto di svolgere attività
politiche e sindacali – naturalmente entro i rigidi vincoli
imposti dallo stato di guerra -, ed eliminando le misure
discriminatorie esercitate in base al credo religioso professato o
all’appartenenza ad una razza diversa da quella ariana.
Va messo in evidenza che non esisteva una politica univoca degli
alleati, ma che vi erano, a proposito dell’atteggiamento da
tenere nei confronti degli italiani, del Governo Badoglio e dei
partiti antifascisti posizioni molto diverse di inglesi e di
americani, e che anche all’interno di questi singoli gruppi
nazionali, si registravano posizioni anche profondamente diverse tra
i militari degli organismi alleati di controllo, in base al loro
orientamento politico, ideologico, culturale.
Bisogna ricordare, ad esempio, che molti inglesi d’orientamento
laburista e molti americani che si riconoscevano nelle posizioni più
avanzate del New Deal rooseveltiano guardavano con molta simpatia
agli antifascisti italiani e mostravano una sincera disponibilità
ad impegnarsi personalmente per promuovere il rinnovamento politico e
sociale dell’Italia.
Il sincero antifascismo di questi personaggi è testimoniato
ampiamente dal racconto fatto il 19 ottobre 1943 dal capitano Downes
al capo dell’OSS (Office of Strategic Service: l’agenzia
dell’intelligence americana di allora), Donovan, su come aveva
proceduto a sequestrare la villa di Achille Lauro a Via Crispi.
La sontuosa palazzina di marmo bianco del potente armatore napoletano
era stata scelta da Downes come sede del comando dell’unità
dell’OSS che operava con la Quinta Armata, sia per motivi
morali, volendo punire il primo nome della lista nera dei fascisti
predisposta dagli alleati, sia per motivi di sicurezza perché
si riteneva che difficilmente i tedeschi avrebbero predisposto bombe
trappole nella casa di un uomo che vantava legami di amicizia
personale con Mussolini e che aveva ospitato lo stesso Hermann
Göring.
«Mi sono recato nella casa del signor Lauro a via
Crispi 71 – scriveva Downes -ed ho trovato che era un
grande, moderno palazzo di marmo. Uno dei nostri uomini era stato lì
il giorno prima per discutere la possibilità di requisire
l’edificio. Il signor Lauro aveva acconsentito a consegnarci
due stanze al pianterreno.
Sono entrato e ho trovato il signor Lauro mentre stava
pranzando e l’ho informato che invece di prendere le due
stanze, noi volevamo prendere l’intero edificio e che egli
avrebbe dovuto andarsene il giorno dopo alle 9 di mattina.
Lui si è rifiutato ed io l’ho informato che
ero molto spiacente ma non potevo accettare il suo rifiuto e che
avrebbe dovuto lasciare la casa il mattino dopo alle 9. Il signor
Lauro ha allora cominciato ad addurre a pretesto gli stenti che
sarebbero caduti sulla sua famiglia e su se stesso se avesse lasciato
la casa, soprattutto per le sue quattro figlie di età compresa
all’incirca tra i 17 e i 25 anni. Io ho detto al signor Lauro
che poiché aveva larga disponibilità di mezzi
finanziari non avrebbe trovato difficoltà a procurarsi un
altro posto per vivere e che io non ero particolarmente interessato
al lusso o al comfort della sua famiglia perché sapevo che lui
non era stato molto interessato al lusso, al comfort o anche alla
vita o alla libertà degli Italiani negli ultimi 21 anni. A
questo punto il signor Lauro ha mutato atteggiamento e ha cominciato
a minacciarmi con i suoi influenti amici di Londra e di Washington,
al che io ho replicato che senza dubbio aveva amici molto influenti,
ma avrebbe trovato difficile mettersi in contatto con loro. Nel
frattempo sarei andato a vivere nella sua casa e gli ho detto che io
e i miei uomini eravamo armati e che se si opponeva a lasciare la
casa non sarebbe certamente più entrato in contatto con
nessuno e che poiché era stato così sgradevole su
questo trovavo necessario ordinargli di lasciare la casa entro due
ore.
In silenzio egli cominciò ad accondiscendere a
portare fuori dai nascondigli quattro lussuose automobili ordinando
di riempirle con i letti e con le sue scorte di viveri.
Poiché noi avevamo estremo bisogno di tutti e tre
questi generi, l’ho informato che le automobili erano già
state requisite da noi e che egli non poteva portare fuori dalla casa
nient’altro che i suoi indumenti personali, il suo danaro e i
suoi articoli di toeletta, e che lo stesso valeva per i membri della
sua famiglia.
Dopo che il signor Lauro ha lasciato la casa ho
predisposto un inventario della proprietà e ho trovato
numerosi documenti organizzativi fascisti che ho ordinato di
consegnare al C.I.C. [Counter Intelligence Corps, il servizio
d’informazione dell’Esercito americano] come prove a
carico del signor Lauro. Tra gli altri generi ho trovato i viveri qui
elencati:
A. 36 prosciutti.
B. 12 casse di corneed beef americano catturato in
Africa.
C. Circa 120 libbre di caffè americano catturato
in Africa.
D. Circa mezza tonnellata di spaghetti, maccheroni e
fagioli secchi.
E. Circa 20 casse di latte svizzero condensato.
F. 400 libbre di zucchero.
G. Grandi quantità di salami, caviale e paté
de foie gras.
H. Sufficiente vino, brandy, Scotch whiskey e
vodka per mandar giù quanto sopra.
Più tardi ho scoperto che il signor Lauro era
stato ulteriormente scomodato per aver avuto requisita la villa di
sua moglie dal Magg. Ridgeway Knight per uso del Comandante Generale
dell’82a A/B [Airborne:
aerotrasportata].
Poiché il cibo era scarso a Napoli i miei
volontari e reclute italiani hanno cenato questa notte con corneed
beef americano, prosciutto, formaggio e salame, tagliati a lume di
candele con pugnali fascisti e baionette italiane. L’effetto
sul morale delle nostre reclute antifasciste è stato poco meno
che magico».
Ma agli ufficiali alleati di orientamento “progressista”
se ne contrapponevano almeno altrettanti schierati su posizioni
conservatrici se non francamente reazionarie o che mostravano uno
scarso interesse a promuovere il rinnovamento morale, politico e
sociale dell’Italia.
Basti ricordare a questo proposito gli stretti rapporti instaurati
dal primo responsabile dell’AMG della Region 3 (Campania),
col. Hume, con gli esponenti dell’aristocrazia e dell’alta
borghesia napoletana; i contatti stabiliti dai responsabili
dell’Economics & Supply Division e della Finance Division
dell’AMG con i principali imprenditori e uomini d’affari
napoletani, anche quando risultavano pesantemente coinvolti col
regime fascista (intervenendo a loro favore persino quando, come nel
caso del direttore del Banco di Napoli Frignani, del presidente della
“Cirio” Signorini e dell’agente marittimo De Luca,
erano stati arrestati dagli organi di sicurezza alleati), o. per
finire, l’aperta ostilità dimostrata da ufficiali come
il maggiore Simpson nei confronti dei Comitati di Liberazione
Nazionale.
Ma la principale difficoltà a creare un’ampia base di
consenso tra i napoletani al progetto dei responsabili più
avanzati dell’AMG di «insegnare la democrazia»
derivava dall’acuta crisi economica in cui erano ancora
costretti a vivere e dalla limitata consistenza degli aiuti forniti
alla popolazione dagli Alleati.
Vi erano in realtà seri motivi pratici alla base del rifiuto
degli anglo-americani di fornire maggiori aiuti agli italiani: le
previsioni sulla capacità produttiva dell’agricoltura
dell’Italia Liberata che si erano rivelate troppo ottimiste, la
farraginosa struttura messa in piedi dai Comandi Alleati per
organizzare i rifornimenti di viveri per i civili, e, soprattutto, la
scarsa disponibilità di naviglio per poter trasportare le
derrate alimentari destinate ai civili, perché le Marine
anglo-americane erano totalmente impegnate a sostenere le unità
militari impiegate nei vari fronti di guerra e a preparare
l’invasione della Francia dalla Manica.
Tutte le risorse logistiche degli Alleati furono comunque chiamate ad
affrontare la situazione di assoluta emergenza determinata già
nell’autunno del 1943 dall’imprevista e drammatica crisi
alimentare che aveva colpito l’intera Italia Liberata, tanto
grave da far temere un’esplosione di sommosse e di rivolte
popolari, che potevano compromettere il mantenimento dell’ordine
nelle retrovie e la stessa sicurezza delle Armate.
Gli Alleati, anzi, già si erano trovati ad affrontare in
Sicilia una situazione critica sin dalle prime fasi dell’occupazione.
Quando furono occupate Palermo e Trapani, poterono infatti essere
forniti solo 150 g. di pane e quando fu conquistata Messina, nella
terza settimana di agosto, la razione assicurata in quella città
raggiunse a stento i 100 grammi,
così che si diffuse rapidamente tra i siciliani un sentimento
di disincanto verso gli occupanti, tanto maggiore quanto più
forti erano state le aspettative sollevate dalla stessa propaganda
alleata.
All’inizio, infatti, gli anglo-americani erano stati salutati
con genuino entusiasmo dalla popolazione,
anche per la convinzione che il loro arrivo avrebbe segnato l’avvento
in Sicilia del regno dell’abbondanza e che cioè «la
guerra fosse finalmente finita col raggiungimento di quel benessere
sociale da tanto tempo agognato»,
come confermavano le lettere esaminate dalla censura anglo-americana,
che contenevano frasi di questo genere:
«Non ti preoccupare per noi, siamo già
diventati americani, siamo contentissimi, perché ci trattano
bene. Sono quasi tutti figli di siciliani e italiani, e quando
parlano si fanno capire bene.
Siamo stati liberati dagli americani e sono molto
gentili e generosi. Non avevo pensato che le cose sarebbero andate
così. Ho quasi pensato di star vivendo in un mondo nuovo, del
tutto diverso da quello dell’odiato Mussolini. Ci era stato
detto che se gli americani fossero sbarcati ci avrebbero trattati
male tutti, specie le donne. Al contrario, si sono comportati meglio
degli stessi siciliani».
Ma già l’8 agosto Lord Rennell doveva lamentare un
«sostanziale cambiamento nello spirito pubblico»
nell’Isola, perché i siciliani avevano compreso che
l’arrivo degli Alleati non aveva «significato il regno
dell’abbondanza» e perciò avevano abbandonato
l’«atteggiamento di cani bastonati e di cuccioli
scodinzolanti» e di «servilismo», adottato
immediatamente dopo lo sbarco, per cominciare invece «a
chiedere e, nei più grandi centri, a pretendere»
,
e qualche settimana dopo doveva segnalare che «il fallimento
degli Alleati nell’assicurare il regno dell’abbondanza»
e nel rispettare «le promesse fatte per radio di viveri e di
merci per i paesi occupati» stavano determinando un serio
malumore e prevedeva sempre più numerose lagnanze «per
molti mesi», del tutto «giustificabili in quanto noi non
abbiamo tenuto fede alla nostra propaganda».
In questo stesso rapporto, anzi, Rennell doveva anche registrare con
allarme la rapida crescita dell’organizzazione e della
propaganda comunista soprattutto tra i solfatari rimasti disoccupati
per la chiusura delle miniere, segnalando che «vi è un
considerevole elemento potenziale di comunismo proletario o
anarchismo in queste comunità che potrebbe esplodere in
disordini e violenze».
Ma, nonostante le segnalazioni allarmate dei responsabili dell’AMGOT
[Allied Military Government of Occupied Territory: primo nome
dell’AMG], la mancanza di scorte di farina costrinse le
autorità alleate a ridurre ulteriormente le razioni e così
la crescente carenza di viveri, la conseguente fortissima ascesa del
costo della vita e il divario ormai incolmabile tra i salari e i
prezzi dei generi di prima necessità, insieme al crollo
dell’occupazione di manodopera per la semi-paralisi
dell’industria, provocarono un’ondata di manifestazioni e
di scioperi in tutta l’Isola, che culminò nella strage
di Palermo del 19 ottobre, quando le truppe italiane aprirono il
fuoco contro la folla che manifestava davanti al Municipio e al
palazzo della Prefettura, uccidendo 14 dimostranti.
Una situazione altrettanto critica si registrò anche nei
territori del Mezzogiorno conquistati dopo gli sbarchi delle Armate
alleate in Calabria e a Salerno, soprattutto per assicurare adeguati
rifornimenti alla popolazione concentrata nei grandi centri urbani
meridionali, a quella napoletana in primo luogo, la cui alimentazione
era stata assicurata sino all’8 settembre dai cereali forniti
dai grandi centri agricoli del Centro-Nord.
Nel mese di novembre la situazione apparve così grave da
spingere le autorità alleate ad adottare misure d’assoluta
emergenza, come la requisizione della quota di cereali destinata
all’alimentazione delle famiglie degli agricoltori e perciò
esentata dall’obbligo di conferimento agli ammassi, e persino
del grano trattenuto come semenza per i futuri raccolti, per
garantire un minimo funzionamento del sistema del razionamento. Nel
dicembre, infine, la situazione sembrò precipitare in tutta
l’Italia Liberata, e soprattutto a Napoli e a Salerno, dove la
popolazione era letteralmente ridotta alla fame.
A Napoli, in particolare, la situazione appariva assolutamente
drammatica, perché il grosso della popolazione per nutrirsi
poteva fare affidamento solo sul razionamento, che, dopo le prime
occasionali distribuzioni di pane per la popolazione, era stato
ripristinato solo il 21 ottobre dagli alleati, con una certa
regolarità, ma per appena 100 grammi di pane pro capite.
Le stesse autorità alleate si mostravano seriamente
preoccupate per la gravità della crisi alimentare, soprattutto
per i rischi sanitari che questa comportava, come doveva segnalare
con allarme il responsabile della Public Health della Region 3
[Campania] nel rapporto mensile per il dicembre 1943.
«La denutrizione è diffusa nelle aree
urbane – affermava il col. Crichton -. Oltre i casi limite di
persone moribonde per il freddo e la fame, è stato possibile
accertare attraverso gli ospedali civili che la sofferenza è
stata acuta durante il mese scorso a causa della mancanza di adeguate
forniture alimentari. Non sono stati diagnosticati al momento casi di
avitaminosi ma l’aspetto smunto e miserabile della popolazione
più povera fornisce una chiara prova della denutrizione anche
ad un profano.
[...] La crisi alimentare durante dicembre è
stata grave e dalla fine del mese, quando ogni riserva si è
esaurita, è diventata acuta rivelandosi un importante fattore
per la diffusione del tifo e delle VD [venereal diseases]. Per motivi
che questa Division non è in grado di giudicare, la
popolazione ha potuto ottenere solo [...] 125 g. di pane e 1/2 Kg di
pasta. L’olio, un elemento indispensabile dell’alimentazione
italiana, è introvabile [...], il prezzo al «mercato
nero» è di 200 lire al litro [...].
I prezzi degli altri generi essenziali al “mercato
nero” sono della stessa proibitiva natura e la vita sta
diventando un incubo in molte case della prolifica popolazione
italiana. I fagioli disdegnati da generazioni da tutti tranne
che dalle classi più umili sono ascesi al rango di
prelibatezza che può essere ottenuta solo dai benestanti a 150
lire al chilo, in confronto alla sola lira, o anche meno, dei tempi
normali. Non è compito di questa Division discutere gli
effetti politici che questa crisi sta determinando e probabilmente
provocherà, ma è necessario mettere in evidenza la
serietà della situazione da un punto di vista medico».
Per Adlai Stevenson, futuro candidato alla Presidenza americana,
allora in missione nell’Italia Liberata per la Foreign
Economic Administration, una gran parte della popolazione della
città, per una percentuale compresa tra il 40 e l’80%
del totale, stava letteralmente soffrendo d’inedia e la
denutrizione indeboliva sensibilmente la resistenza dei napoletani
alla diffusione delle malattie.
E’ il caso di mettere in evidenza che queste valutazioni non
risultano affatto esagerate, perché in quel periodo si
registrarono effettivamente a Napoli diversi casi di morte per fame.
L’insufficienza dei rifornimenti alleati, la difficoltà
di portare nelle città i prodotti dei principali centri di
produzione granaria del Sud, per la crisi dei trasporti interni, che
aveva frantumato l’economia dell’Italia Liberata in un
arcipelago di isole chiuse, di dimensione per lo più
provinciale, rigidamente separate le une dalle altre, ed, infine, il
collasso del sistema del razionamento e degli ammassi, ebbero come
inevitabile conseguenza una brusca impennata del costo della vita e
un’impressionante crescita del mercato nero, diventato come mai
per il passato determinante per assicurare la sopravvivenza fisica
della popolazione.
L’impennata dell’inflazione era anche favorita dal severo
tasso di cambio della lira (100 lire per un dollaro e 400 per una
sterlina) imposto dagli Alleati, ed anche più
dall’incontrollata circolazione di am-lire, la moneta di
occupazione utilizzata dagli alleati, calcolata in 10 miliardi alla
fine del 1943 e oltre 20 alla fine dell’aprile 1944,
per un volume equivalente all’intera massa di carta moneta in
circolazione nel Sud prima dell’arrivo degli alleati, con un
effetto inflazionistico devastante perché incideva su un
mercato asfittico per l’estrema carenza anche dei generi più
essenziali.
Altro serio motivo di malumore per la popolazione era dato dalla
pratica indiscriminata seguita dagli Alleati, soprattutto a Foggia e
a Napoli, di requisire edifici pubblici ma anche e soprattutto
appartamenti privati per alloggiare i propri soldati e ufficiali.
L’occupazione alleata non sembrava più neppure garantire
del tutto la popolazione dai pericoli della guerra, come avevano
dimostrato i raid aerei tedeschi su Napoli del 21 e 23 ottobre e del
1° novembre, e la micidiale incursione sul porto di Bari nella
notte tra il 1° e il 2 dicembre, che provocò
l’affondamento di ben 17 navi alleate e circa 1.000 vittime fra
i civili.
Ma era soprattutto il clima di violenza provocato dal comportamento
di molti militari alleati a provocare la maggiore delusione tra gli
italiani. Le segnalazioni dei CCRR e i rapporti dell’AMG erano
infatti concordi nel descrivere con preoccupazione la propensione
alla violenza largamente presente tra i soldati alleati in tutta
l’Italia Liberata, più che testimoniata dai dati
ufficiali sui crimini da questi commessi in Italia dall’8
settembre 1943 al 31 dicembre 1946: 547 omicidi, 1.905 ferimenti,
2.293 aggressioni e risse, 7.662 rapine e furti, 1.157 violenze
carnali consumate e 290 tentate.
La situazione era particolarmente grave nelle zone rurali
dell’interno, per i frequenti assalti ai cascinali da parte dei
soldati, nelle campagne di Campobasso, come in Irpinia, nel
Beneventano o nel Foggiano.
Il clima di paura e di violenza diffuso nelle campagne era, inoltre,
destinato ad aggravarsi con l’arrivo delle truppe coloniali del
Corpo di spedizione francese in Italia, per la frequenza dei casi di
violenza e di stupri compiuti dai «marocchini» (ma in
quei reparti erano presenti anche algerini e tunisini) ai danni della
popolazione civile.
Non meno grave era poi la situazione dell’ordine pubblico a
Napoli, nonostante il controllo esercitato dalla Military Police
e dalle forze di polizia locale, per le maggiori possibilità
di incidenti determinate dalla massiccia, permanente presenza di
truppe in città. Fino a tutto il maggio 1944, Napoli costituì
il principale centro d’attrazione e d’intrattenimento per
i militari alleati impegnati sulla linea del fronte, che distava
solo poche decine di chilometri dalla città. Ed anche quando
finalmente fu travolta la linea Gustav aggirando le posizioni
tedesche a Cassino, e le armate alleate poterono finalmente
avanzare, liberando Roma e poi dilagando verso Nord, almeno fin
quando non furono nuovamente fermate dai tedeschi sulla linea Gotica,
continuarono a stazionare nella città diverse migliaia di
soldati alleati, fino alla fine della guerra, perché Napoli
costituiva ancora la principale base logistica alleata nel
Mediterraneo per l’intenso flusso di rifornimenti per le armate
anglo-americane che costantemente passava per il suo porto e per il
gran numero di caserme, magazzini, officine e depositi alleati,
disseminati in città e nell’immediato circondario.
Le forze di polizia alleate ed italiane dovevano perciò
registrare un numero impressionante di atti di violenza o di libidine
e di risse con i civili e, soprattutto, un impressionante stillicidio
di furti e di rapine a mano armata nelle strade, nelle case, nei
negozi, che avevano per protagonisti militari alleati, per lo più
in evidente stato di ubriachezza, per non parlare dei frequenti abusi
da loro commessi nelle requisizioni di autoveicoli e di proprietà
dei civili, così come della loro larga partecipazione ai
traffici illegali di sigarette, di viveri, di benzina e di merci e
strumenti di ogni tipo destinati alle unità alleate e
dirottati invece al «mercato nero».
Era tanto alto il numero di incidenti provocato dai militari che i
responsabili della Police Section della città di Napoli, col.
Doherty, e della Public Safety per la Region 3, col. Francis, avevano
dovuto definire francamente «pessimo» il comportamento
delle truppe, soprattutto di quelle americane.
La violenza dei rapporti tra soldati e popolazione e la difficoltà
a distinguere tra «liberatori» e «occupanti»
si erano manifestate sin dai primissimi giorni dell’occupazione
per il comportamento mantenuto da molti militari alleati verso le
donne, in particolare per la brutalità spesso dimostrata
verso le donne costrette a prostituirsi per la fame. Si può
ricordare a questo proposito la cruda descrizione fatta da Lewis di
un caso di commercio carnale al quale aveva assistito il 4 ottobre,
in un municipio a qualche chilometro da Napoli, “in uno
stanzone in cui si accalcava una soldataglia tumultuante”:
«Quelli che stavano in fondo spintonavano per
avanzare, incitando sguaiatamente gli altri; ma se si raggiungeva il
fronte della folla, l’atmosfera si faceva più calma e
assorta. Le signore sedevano in fila, a intervalli di circa un metro
l’una dall’altra, con la schiena appoggiata al muro.
Vestite con gli abiti di tutti i giorni, queste donne avevano facce
comuni, pulite e perbene di massaie, di popolane che vedi in giro a
spettegolare o fare la spesa. Di fianco a ognuna era appoggiata una
pila di scatolette [di generi alimentari], ed era evidente subito che
aggiungendone un’altra si poteva far l’amore con una
qualsiasi di loro, lì, davanti a tutti. Le donne rimanevano
assolutamente immobili, in silenzio, e i loro volti erano privi
d’espressione, come scolpiti. Potevano star vendendo pesce, non
fosse che a quel luogo mancava l’animazione di un mercato del
pesce. Non un incoraggiamento, non un ammicco, niente di provocante,
neppure la più discreta e casuale esibizione di nudità.
I più animosi, con le scatolette in mano, si erano fatti
avanti fino alla prima fila, ma ora, di fronte a quelle madri di
famiglia, donne coi piedi per terra spinte fin lì dalle
dispense vuote, sembravano esitare. Ancora una volta, la realtà
aveva tradito il sogno, e l’atmosfera si stava facendo greve.
Qualche risolino imbarazzato, qualche battuta caduta nel vuoto, e la
visibile tentazione di ritirarsi in buon ordine. Alla fine un soldato
un pò alticcio, istigato di continuo dagli amici, ha deposto
la sua scatola con la razione vicino a una donna, si è
sbottonato e si è chinato su di lei. Un movimento meccanico
delle anche, ed è subito finito tutto. Un attimo dopo il
soldato era di nuovo in piedi e si riabbottonava. Era stata una
faccenda da sbrigare nel più breve tempo possibile. Si sarebbe
detto che il soldato, più che fare l’amore, si fosse
sottoposto a una punizione da campo».
Gli Alleati, inoltre, si erano impegnati a rimettere immediatamente
in funzione il porto e a ristabilire i servizi essenziali, ma non
avevano neppure tentato di avviare l’opera di ricostruzione
dell’industria napoletana – la terza in Italia
nell’anteguerra, dopo quella torinese e quella milanese, per
capacità produttiva e forza motrice impiegata -, prostrata dai
continui bombardamenti subiti durante tutta la guerra e dalla
sistematica opera di sabotaggio e di distruzioni attuata dai tedeschi
all’indomani dell’8 settembre.
Napoli era dunque una città ancora largamente dominata dalla
fame, ricacciata indietro di decenni nella sua capacità di
produrre beni e servizi, sottoposta alle brutalità che
inevitabilmente si accompagnano ad ogni tipo d’occupazione
militare, priva di qualsiasi prospettiva e di qualsiasi speranza per
l’immediato futuro. E’ perciò pienamente
comprensibile che un osservatore americano sia giunto ad affermare
che nell’inverno 1943-44 Napoli “era probabilmente la
città peggio governata del mondo occidentale”.
Quello che più colpiva gli osservatori, le autorità
locali e gli organi di polizia, più ancora della condizione
di miseria cui era ridotta gran parte della popolazione urbana
meridionale, era il degrado morale che a questa si accompagnava, in
particolare per l’estensione del fenomeno della prostituzione
occasionale, che a Napoli, aveva raggiunto dimensioni realmente
impressionanti, tanto che il PWB [Psychological Warfare Branch]
sarebbe giunto a stimare addirittura in 42.000 il numero di
prostitute presenti in città, cioè più di un
quarto dell’intera popolazione femminile nubile locale.
L’immagine della plebe napoletana diposta a vendere anche la
propria umiliazione e depravazione pur di sopravvivere, che tanta
fortuna letteraria ha avuto per le opere di Curzio Malaparte
e Norman Lewis, trova conferma anche in tante testimonianze sulla
Napoli di quel periodo, che appariva una città sofferente,
disperata, in preda al collasso economico e morale ma ancora capace
di sprazzi di sorprendente vitalità.
Come per Malaparte, anche per il regista John Huston, allora capitano
in servizio presso il Signal Corps per girare documentari di
propaganda, la disperazione e l’abbrutimento della Napoli di
quei mesi offriva abbondante materiale per immagini letterarie a
forti tinte. Come avrebbe raccontato il regista nel suo libro di
memorie,
«Napoli era come una puttana malmenata da un
bruto: denti spezzati, occhi neri, naso rotto, puzza di sporcizia e
di vomito. Mancava il sapone, e persino le gambe nude delle ragazze
erano sporche. Le sigarette erano la merce di scambio comunemente
impiegata, e per un pacchetto si poteva avere qualsiasi cosa. I
bambini offrivano sorelle e madri in vendita. Di notte, durante
l’oscuramento, dalle case sbucavano a frotte i topi e se ne
stavano semplicemente lì, a guardarti con gli occhi rossi,
senza muoversi. Si camminava evitandoli. Salivano vapori su dai
vicoli, lungo i quali c’erano locali che mettevano in scena
atti «carnali» fra degli animali e dei bambini. Gli
uomini e le donne di Napoli erano un popolo diseredato, affamato,
disperato, disposto a fare assolutamente tutto per sopravvivere.
L’anima della gente era stata stuprata. Era veramente una città
senza dio».
Più sinteticamente, il giornalista Moorehead avrebbe
ricordato:
«La fame dominava su tutto [...] Di fatto stavamo
assistendo al crollo morale di un popolo. Non avevano più
nessun orgoglio, né dignità. La lotta bestiale per la
sopravvivenza dominava su tutto. Il cibo era l’unica cosa che
importava: cibo per i bambini, cibo per se stessi, cibo a costo di
qualsiasi abiezione e depravazione. E dopo il cibo un pò di
caldo e un riparo».
Una condanna anche più severa della corruzione morale del
«popolino», accusato di essersi subito adattato alle
nuove condizioni, senza farsi alcuno scrupolo, era espressa dai
rapporti trasmessi in quei giorni dalle autorità locali e
dalle forze dell’ordine, che, del resto, riflettevano le
posizioni e i pregiudizi dei ceti medi. Un rapporto dei Carabinieri
da Napoli, del 14 novembre, ad esempio, segnalava:
«La disonestà dilaga in circostanze simili.
Il contrabbando ed il mercato nero su cui ogni controllo è
venuto meno sono divenuti normale risorsa di una grande quantità
di persone. La miseria alimenta la prostituzione e non è
infrequente lo spettacolo ripugnante di donne italiane a braccetto
di soldati negri [sottolineato nel testo] nelle strade della
città».
A conclusioni apparentemente analoghe giungevano anche le relazioni
trasmesse in quei giorni dagli osservatori del PCI al Centro del
partito, nelle quali però l’insistenza sugli effetti
della paralisi industriale, della diffusione del mercato nero, del
generale degrado morale della città, rivelava soprattutto la
preoccupazione dei comunisti per il rischio che venisse disperso e
riassorbito nella tradizionale plebe il nucleo ancora fragile di
proletariato industriale napoletano. In un rapporto del dicembre, ad
esempio, si segnalava:
«Per le vie di Napoli era tutto un contrattare fra
italiani, scugnizzi, negri, americani, inglesi ecc. Si vedeva
abbastanza evidentemente che questo popolo era sceso al gradino
infimo della propria dignità. Nessuna meraviglia quindi ne
sortiva quando veniva fermato un qualche soldato anglo-americano e
richiesto di procurargli «vino» o «signorine»:
nessuna meraviglia se essi vedevano in ciascuno di noi un ruffiano e
un contrabbandiere.
Il popolo non capiva più niente ormai. Stordito
dalla fame, dopo di esserlo stato dai bombardamenti, sbalordito per
la ricchezza dei nuovi arrivati, non si interessava ormai più
che a risolvere ognuno per proprio conto l’arduo problema
giornaliero: se ora si pensa alla moralità cui il fascismo
aveva educato il popolo, e alla modalità alleata, o diciamo
delle truppe alleate, in un paese vinto, non è difficile
raffigurarsi il quadro risultante. Se non si scende a particolari,
riesce difficile per chi è abituato ai rapporti fra italiani e
tedeschi farsi un quadro della situazione».
E, in una relazione interna, trasmessa alla fine del 1943, un
dirigente comunista da poco tornato dall’esilio, Velio Spano,
scriveva:
«A Napoli, nessuno lavora salvo gli innumerevoli
piccoli rivenditori del mercato nero e le ancora più numerose
prostitute. Mi si dice che la prostituzione ha preso delle
proporzioni spaventose. [...] Le masse (si può parlare di
masse nel senso che noi gli diamo?) sono scoraggiate, disilluse,
facilmente ecitabili e eccitate ma troppo gravemente inerti [...]
Ora la gente è passiva, e non ha alcuna voglia di battersi, di
fare la guerra. Ci vorranno anni per ridare agli italiani del Sud una
dignità di popolo. Oggi la loro caratteristica essenziale
sembra essere la passività».
John Burns, nelle pagine del suo romanzo dedicate agli«scugnizzi»
napoletani, ha invece mostrato comprensione e autentica pietas
verso le reali sofferenze dei napoletani ed ha saputo descrivere con
forza la situazione di abbandono e di disperazione della città,
ma anche la sua capacità di reagire con un’estrema,
quasi animalesca vitalità:
«Napoli è il più vasto vivaio di
bambini del mondo. Appena fuori delle fasce, eccoli subito per la
strada. Imparano a camminare ed a parlare nei rigagnoli. Molti
sembrano viverci. Via via che il coprifuoco veniva spostato ad ora
sempre più tarda, i bimbi di Napoli passavano le serate sui
marciapiedi. Se dovesse rimanermi impressa nella memoria una sola
immagine del caleidoscopio napoletano, sarebbe quella di un fratello
e di una sorella di età inferiore ai dieci anni addormentati
sul marciapiede nel sole, con un pezzo di pane nero rosicchiato
accanto a loro [...]
Ricordo che tentai una volta di contare il numero degli
«sciuscià» [- termine adottato per questi piccoli
lustrascarpe per il loro continuo gridare «shoe-shine,
shoe-shine?» -] tra Via Diaz e la galleria Umberto. Non vi
riuscii perché nuove cassette di sciuscià si aprivano
alle mie spalle prima che io avessi percorso dieci metri. Quegli
incredibili scugnizzi! Non erano bambini, quegli
scugnizzi, ma saggi, mesti, beffardi folletti. Vendevano Yank
e Stars and Stripes [i giornali destinati ai soldati
americani]. Si appiattavano fuori della mensa per comperare le mie
razioni. Facevano i mezzani per le sorelle che mi
spiavano dietro il balcone del primo
piano. Vendevano amuleti e distintivi divisionali nelle strade. Si
improvvisavano imbonitori di dolciumi che sembravano ciambelle o
frittelle ma avevano il gusto della cartapesta arrostita. Rubavano
tutto con una destrezza, una furberia ed una costanza che mi facevano
pensare alle antiche favole arabe. Strillavano e si burlavano di me
in perfetto americano, un americano che sembrava imparato da qualche
marinaio che, sdraiato in un rigagnolo, imprecasse all’inferno
per levarsi un peso dal cuore. I bambini di Napoli erano decisi a non
morire, con quella determinazione con cui i fagociti fanno massa per
combattere il virus che li ha invasi. Possedevano la vitalità
dei dannati. E ridevano di me, di se stessi, del mondo intero. Spesso
pensavo che noi, l’esercito conquistatore, eravamo più
deboli e sciocchi di loro. Amavo gli scugnizzi perché non mi
facevo alcuna illusione sul conto loro».
Con l’aggravarsi della crisi economica, il malessere della
popolazione era comunque diventato così acuto da far temere
alle autorità italiane la possibilità di rivolte
popolari istigate dai comunisti: il 24 ottobre, ad esempio, i
Carabinieri di Napoli avevano avanzato «fosche previsioni»
e il giorno dopo erano giunti a sostenere che la situazione «assurda,
insostenibile, soprattutto pericolosa» in cui si trovava la
popolazione e «l’enorme delusione» del «volgo
profano» per lo scarso impegno alleato a favorire la ripresa
economica rendevano concreto persino il pericolo del comunismo.
Lo stato di malessere dei lavoratori non dipendeva però dalla
propaganda comunista, ma, come riconoscevano anche molti ufficiali
alleati, dalle condizioni di vita realmente insostenibili che
dovevano continuare a sopportare.
L’8 gennaio 1944 il contrammiraglio Morse, responsabile della
Royal Navy a Napoli (che impiegava circa 2.000 civili), si era
rivolto allo stesso nuovo Comandante in Capo per il teatro di guerra
mediterraneo, «Jumbo» Wilson (che proprio quel giorno era
subentrato in quell’incarico ad Eisenhower), sostenendo che «il
problema di nutrire adeguatamente la sua famiglia (e le famiglie in
Italia raggiungono dimensioni vittoriane)[era] quasi insolubile per
ogni dipendente o lavoratore in appalto con una paga che varia[va]
dalle 50 alle 120 lire al giorno» e che era perciò «solo
naturale che gli italiani paragon[assero] il trattamento loro
riservato ora con quello ricevuto sotto il giogo tedesco e il
confronto non sempre [era] favorevole agli Alleati», ed aveva
poi denunciato in un successivo rapporto che anche i dipendenti con
le qualifiche più alte «che normalmente dovrebbero
disprezzare un tale comportamento accetta[va]no di rischiare il
licenziamento e il carcere per rubare due o tre patate o qualche
altro piccolo quantitativo di cibo» e che perciò
«nessuno che lavor[asse] vicino a generi alimentari [poteva]
essere ritenuto fidato»
.
Di certo, la situazione era tanto grave da spingere il responsabile
dell’AMG della Region 3, col. Hume, ad esprimere piena
approvazione per la decisione del Comando Militare Alleato di Napoli
di non perseguire più i civili trovati in possesso di poche
scatolette di cibo destinate ai militari, perché la fame era
tanto diffusa che neppure l’arresto e la condanna alla
carcerazione potevano servire da deterrente per questi piccoli furti
.
Nonostante le segnalazioni allarmate delle autorità alleate,
le condizioni di vita dei napoletani continuavano ad essere del tutto
critiche. I responsabili della Labor Division dovevano perciò
continuare a denunciare che i lavoratori potevano sopravvivere solo
dedicandosi al mercato nero, oppure rubando sul posto di lavoro,
oppure, ancora, privandosi di tutte le proprietà familiari e
di tutti gli effetti personali semplicemente per procurarsi «pane,
patate e forse fagioli».
Dovevano anche continuare a segnalare più volte con allarme la
materiale incapacità dei lavoratori di sostenere prolungati e
pesanti sforzi per lo stato permanente di spossatezza fisica cui
erano condannati, a causa delle troppo scarse razioni alimentari e
dei troppo bassi salari. Ancora il 5 aprile, ad esempio, il nuovo
responsabile della Labor Section della Region 3, il cap. Williams,
doveva denunciare:
«Stanno vendendo tutti i loro beni personali,
mobili e anche vestiti per compensare i salari inadeguati
nell’acquisto di viveri per le loro famiglie e per se stessi
[...].
L’attuale impossibilità del lavoratore di
aiutare se stesso e la sua famiglia col potere d’acquisto del
suo salario è stata manifestata vivamente nei ripetuti casi
d’incapacità fisica dei lavoratori di svolgere lavori
pesanti.
Nel caso della riparazione di un albergo, richiedendo il
lavoro specifico il trasporto di pesanti mattoni per diverse rampe di
scale, gli uomini inviati dal nostro servizio di collocamento hanno
tentato il lavoro ma non sono stati fisicamente in grado di
svolgerlo. [...] Si sono avuti casi di lavoratori svenuti in questo
ufficio mentre attendevano di essere chiamati al lavoro».
Per evitare che si creasse una situazione incontrollabile nei
territori liberati, gli alleati avevano allora varato il 3 gennaio
1944 un nuovo programma di aiuti, che avrebbe dovuto garantire, per
sei mesi, alla popolazione dell’Italia Liberata una razione
giornaliera pro capite di 1500 calorie, di cui1.006 (l’apporto
calorico fornito da una razione di 292,3 grammi di pane) assicurate
dagli stock accumulati in Nord Africa dagli Alleati) e le altre dalle
risorse locali.
Con l’invio di maggiori rifornimenti in Italia fu possibile
portare la razione, dal 7 febbraio, a 200 g. di pane e a fornire
piccole quote periodiche di altri generi alimentari, per lo più
cibi in scatola o ridotti in polvere, ma non fu raggiunto per diversi
mesi ancora neppure l’obiettivo delle 1.006 calorie pro
capite che avrebbe dovuto essere assicurato dai soli rifornimenti
alleati.
A Napoli, le calorie pro capite assicurate dal razionamento
passarono semplicemente da 478 nel dicembre 1943 a 620 nel marzo
1944,
così che le razioni concesse durante l’occupazione
alleata, almeno fino al luglio 1944, risultarono largamente inferiori
a quelle già misere in vigore a Napoli fino al giugno 1943.
In una tale situazione continuava a risultare inevitabile il ricorso
al mercato nero, che raggiunse perciò in quei mesi dimensioni
enormi, coinvolgendo nelle sue attività ampi strati della
popolazione più povera. Una «moltitudine» umana
faceva infatti quotidianamente la spola tra Napoli e le lontane
province rurali delle Puglie, della Lucania e della Calabria, usando
a volte i mezzi di trasporto disponibili, dai semplici carri trainati
da animali, ai pochi camion ancora in circolazione, alle semplici
biciclette, ma procedendo per lo più a piedi, come nel caso
delle interminabili file di contadini che dall’area foggiana si
dirigevano a piedi a Napoli, distante 168 Km, trasportando sulle
spalle carichi di 20-25 Kg di grano.
Al di là di singoli e occasionali casi di arricchimento
personali, che colpivano l’opinione pubblica soprattutto per il
loro carattere estremamente appariscente, al popolino urbano
impegnato in questi traffici come semplice manovalanza o come
terminali del circuito del mercato nero, andavano però solo le
briciole degli ingenti guadagni assicurati dal commercio clandestino.
I piccoli e medi contadini, a loro volta, pur lucrando sulla vendita
diretta dei prodotti sottratti agli ammassi, finivano col disporre
semplicemente di carta moneta che poteva essere utilizzata solo in
parte, per la semiparalisi della produzione industriale, per
acquistare beni e prodotti necessari per i loro cascinali e per il
loro lavoro, e che perciò era destinata in gran parte ad
essere erosa dall’inflazione.
I maggiori profitti del mercato nero erano perciò acquisiti
dagli agrari, dai titolari di società di trasporti e di
intermediazione, dagli armatori, e dagli stessi imprenditori, che
disponevano dei capitali, delle competenze tecniche e delle reti di
relazione necessarie per condurre con successo quel tipo di
operazioni e per poter reinvestire continuamente i guadagni nelle
attività che di volta in volta si fossero rivelate più
lucrose.
Il mercato nero, dunque, contrariamente alla convinzione allora
diffusa tra i ceti medi, ripresa anche in opere letterarie come la
Napoli milionaria di De Filippo, non aveva affatto favorito un
qualche ribaltamento nei tradizionali rapporti tra i gruppi sociali,
ed, anzi, determinando un’impennata del costo della vita, aveva
contribuito ad aggravare ulteriormente le condizioni di vita degli
strati più poveri della popolazione.
Le condizioni di vita della popolazione napoletana erano
ulteriormente e pesantemente aggravate dalla permanente presenza in
città, per tutta la durata della guerra, di migliaia e
migliaia di militari alleati. L’elevatissima capacità di
spesa di cui disponevano questi militari entrava infatti in
concorrenza col debole potere d’acquisto dei civili,
contribuendo a sottrarre una quota non indifferente dei pochi
prodotti disponibili al consumo della popolazione e trascinando
sempre più verso l’alto i prezzi. Dal momento che le
normali paghe dei militari alleati, in dollari o in sterline, erano
già molto alte per i livelli salariali medi degli italiani,
che il loro potere d’acquisto era moltiplicato dal tasso di
cambio di 100 lire per un dollaro e di 400 per una sterlina e che,
infine, potevano essere convertite in am-lire, un soldato semplice
americano finiva col ricevere una paga in dollari equivalente a 6.000
lire al mese, almeno pari in pratica allo stipendio di un alto
funzionario italiano; un sergente era pagato per l’equivalente
di 11.000 lire; un tenente di 27.000; tra gli inglesi, inoltre, un
capitano riceveva in sterline l’equivalente di 26.000 lire
mensili e un maggiore di 38.000. Inoltre, la principale causa di
inflazione nell’Italia Liberata, e cioè l’incontrollata
circolazione delle am-lire, era determinata per il 75% dalle paghe
dei militari e solo per il 25% dalle spese sostenute con i civili.
L’atmosfera già tetra dell’Italia Liberata era
stata, inoltre, ulteriormente incupita dall’improvvisa, dura
incursione aerea della Luftwaffe su Napoli nella notte tra il 14 e il
15 marzo, che aveva provocato oltre 300 morti tra i civili e numerose
vittime tra gli stessi soldati alleati, e dall’improvvisa e
spettacolare eruzione del Vesuvio, iniziata il 18 marzo e destinata a
durare fino al 30, che costrinse ad evacuare diversi comuni della
fascia vesuviana. Né le notizie dal fronte contribuivano a
rasserenare gli animi. Si era infatti conclusa con un nulla di fatto
anche la «terza battaglia di Cassino», iniziata il 15
marzo, perché, nonostante il massicio impiego delle forze
corazzate e il sostegno fornito dall’aviazione, i reparti
neozelandesi e indiani riuscirono solo ad aprirsi faticosamente la
strada tra le linee tedesche, senza però impadronirsi della
cerniera di Cassino.
Continuavano, inoltre, ad essere difficili i rapporti tra la
popolazione e i militari delle Nazioni Unite, che per lo più
si presentavano e agivano da «liberatori», ma che molto
spesso si comportavano nei confronti degli italiani come puri e
semplici «occupanti». Continuava infatti lo stillicidio
di aggressioni, di furti e di rapine da parte dei militari alleati ed
era ancora particolarmente vistoso il loro coinvolgimento nelle
attività di contrabbando, grazie agli stretti rapporti
intrecciati con elementi locali che organizzavano i traffici del
mercato nero.
Nei piccoli comuni interni del Napoletano, infine, la popolazione era
ancora sottoposta a continue rapine da parte dei militari alleati ed
era traumatizzata dai numerosi stupri di donne e di fanciulle da
parte dei «marocchini», con esperienze traumatizzanti e
dalle conseguenze devastanti per le vittime, come testimoniato dalla
richiesta d’aiuto finanziario presentata il 27 maggio 1944 al
Comando dell’AMG di Napoli per conto di una donna di Albanova,
la cui figlia dodicenne era stata violentata da soldati delle truppe
coloniali francesi:
«La sottoscritta col segno di croce firmata perché
analfabeta [...], mossa dalle sue miserevoli condizioni economiche,
si permette di rappresentare a codesto Comando quanto appresso: La
sera del decorso 4 marzo due o tre soldati Marocchini, di stanza ad
Albanova e non potuti identificare per l’oscurità, le
sottrassero dalla propria abitazione la sua bambina [...],
deflorandola e poscia abbandonandola in un campo nei pressi della
locale stazione ferroviaria.
La minore, al mattino successivo, visitata dal medico
condotto [...], fu dichiarata deflorata con ferita lacero a tutta la
regione perineale e fu fatta ricoverare nell’Ospedale della SS.
Trinità dei Pellegrini di Napoli, ove venne trasportata con
automezzo privato, sottoposta ad atto operatorio per ferita lacero
nella regione vulvo-vagino-perineo-sessale e dimessa il 27 detto.
La malcapitata, però, dovrà subire il
secondo ricovero nel predetto Ospedale e conseguentemente,
l’esponente, dovrà affrontare le nuove non indifferenti
spese, senza tacere che deve provvedere al necessario sostentamento
di altri due piccoli e che suo marito [...], soldato tuttora in
servizio militare non dà notizie fin dall’agosto 1943.
Pertanto, la ricorrente, confida che la presente venga
presa in benevola considerazione, al fine di elargirle un soccorso
pecuniario per appianare almeno le spese sostenute e ancora da
sostenere nella misura di oltre lire diecimila.
Unisce il relativo certificato medico.
Queste persistenti difficoltà nei rapporti tra «liberati»
e «liberatori» spiegano perché abbiano trovato
scarso consenso i programmi «politici» portati avanti,
nella primavera del 1944, da personaggi come il nuovo «governatore»
di Napoli, Charles Poletti e sia sostanzialmente fallito l’ambizioso
progetto di fare dell’AMG lo strumento dell’«educazione
alla democrazia» per gli italiani.
La tenuta del regime d’occupazione alleata risultava però
ancora relativamente salda, nonostante la gravità della crisi
economica e sociale, in primo luogo perché per la popolazione
la presenza stessa degli alleati forniva la sicurezza che la guerra
era veramente finita. Mentre poi i contadini potevano ribellarsi ai
prelievi dei loro prodotti realizzati dallo Stato col sistema degli
ammassi, gli abitanti dei grandi centri urbani potevano esprimere
malumore per l’assoluta insufficienza delle razioni alimentari,
ma erano anche perfettamente consapevoli che le loro stesse
possibilità di sopravvivenza erano comunque affidate solo ai
rifornimenti assicurati dagli Alleati.
A favore del regime di occupazione giocava poi la diffusa rete di
dipendenze che si era sviluppata, soprattutto a Napoli, con gli
alleati, e che si basava sui servizi e sulle prestazioni di ogni
genere, lecite e illecite, fornite dai civili ai singoli militari
anglo-americani (servizi di lavanderia, ospitalità nelle
proprie case in cambio di forniture di viveri e di merci, accordi per
le attività del mercato nero, vendita di alcòlici,
guide turistiche, fornitura di prestazioni sessuali) e, soprattutto,
sulla larga domanda di manodopera locale richiesta dalle autorità
anglo-americane per lo scarico delle merci nei porti, per la
rimozione delle macerie dalle strade, per il funzionamento delle
officine, dei depositi, dei magazzini e delle mense delle unità
alleate (nella sola Campania risultavano ingaggiati dagli uffici di
reclutamento alleati nel gennaio 1944 almeno 160.000 civili)
.
Contava infine l’impatto tra alleati ricchi e «portatori
di oggetti» e un Sud cronicamente «povero di cose»,
che portava a confrontare il «consumismo» degli occupanti
con la generale indigenza dei civili, perennemente alle prese col
problema di procurarsi cibo, forniti solo di vestiti sgualciti e
consunti e di calzature ormai completamente logore, privi di
medicinali, di mezzi di trasporto pubblici o privati e di qualsiasi
genere di conforto. Aveva perciò ripreso rapidamente forza il
mito dell’America, che portava da un lato a rinsaldare vecchi
legami e solidarietà connessi alle precedenti ondate
migratorie, anche grazie alla larga presenza di italo-americani tra
le truppe alleate, e contribuiva dall’altro a diffondere la
convinzione che solo l’America con le sue ricchezze poteva
risolvere i problemi italiani.
E così, in una lettera da Napoli, del gennaio 1944, rilevata
dalla censura alleata, si affermava:
«Spero che gli anglo-americani non se ne andranno
mai via ma che gli apparterremo per sempre, perché hanno una
concezione della vita differente da quella miserabile che abbiamo
conosciuto finora».
I partiti antifascisti non avevano, inoltre, ancora superato la fase
iniziale della ricostruzione - ma nel caso del Mezzogiorno sarebbe
più esatto dire della costruzione - delle stesse strutture
organizzative interne, ristabilendo i collegamenti tra i vari nuclei
di militanti e tra questi e i centri dirigenti nazionali, ed erano,
anzi, ancora impegnati a definire e presentare i propri programmi
ideologici e politici. Non erano perciò in grado di mettere in
discussione l’egemonia alleata nell’Italia Liberata e
tanto meno di preparare una rivoluzione – che in ogni caso la
componente moderata del CLN avrebbe avversato – perché
lo stesso PCI era poco più che una dispersa galassia di
piccoli gruppi di militanti che si riconoscevano genericamente nel
movimento comunista internazionale, ma che erano rimasti
sostanzialmente estranei alle vicende e all’evoluzione del
partito per la lunga mancanza di collegamenti con il centro dirigente
nazionale, così che gran parte delle sue energie erano
impegnate in un difficile confronto interno, particolarmente
travagliato in alcune realtà, come Catania, Salerno, e
soprattutto Napoli, dove si giunse persino a dar vita a due distinte
federazioni comuniste, tra la fine di ottobre e la fine di dicembre
1943, con la cosiddetta «scissione di Montesanto».
Anche gli aspetti ritenuti più negativi dell’occupazione
alleata mantenevano pur sempre un valore duplice, o comunque
implicavano almeno in parte un elemento positivo, così da
presentarsi come scotti inevitabili da pagare per una sopravivenza
comunque garantita dai soli alleati.
In un certo qual modo, come la polvere di piselli distribuita dagli
americani disgustava profondamente i meridionali perché troppo
difforme, per gusto, sapore e consistenza dalle loro abitudini
alimentari, ma era pur sempre bene accetta perché contribuiva
anch’essa ad assicurare l’apporto calorico indispensabile
per la sopravvivenza, così anche le attività di
contrabbando, la vendita lecita o clandestina di superalcolici e il
vistoso fenomeno della prostituzione che si accompagnavano alla larga
presenza di militari alleati, in qualche modo erano visti come modi
sgradevoli ma non evitabili di procacciare reddito e con esso viveri
per la popolazione.
Persino i rapporti con i soldati di colore americani acquistavano
contemporaneamente un significato negativo e uno positivo,
indissolubilmente intrecciati. Uno negativo, perché i «negri»
erano pur sempre nell’immaginario collettivo quelle popolazioni
arretrate e inferiori che gli italiani erano stati chiamati a
«civilizzare» con le guerre coloniali, ed era perciò
intollerabile per i benpensanti assistere allo spettacolo delle
«signorine» che camminavano per le strade al loro
braccio, così come era imbarazzante per le autorità
militari italiane consentire che i soldati delle unità
ausiliarie lavorassero alle dipendenze di sorveglianti neri. Ma anche
uno positivo, perché i soldati neri, per il regime di
sostanziale apartheid in vigore nell’esercito americano
dell’epoca, erano soprattutto adibiti ai servizi logistici,
alle mense e ai magazzini e potevano perciò agevolmente
disporre di scatolette di carne, cioccolata o qualsiasi altro bene,
da offrire o da contrattare, il che spiega il particolare favore con
cui tanti soldati neri furono «adottati» dalle famiglie
dei quartieri popolari di Napoli.
Il soldato nero era anche associato alla figura del cuoco delle mense
americane e perciò restava collegato ai sapori e agli odori
del pane bianco e dei pasti caldi offerti dalle unità
americane alla popolazione, anche in chi continuava a nutrire
pregiudizi razziali nei loro confronti, come appare evidente da un
brano del diario di Elena Canino, che esprimeva un malcelato razzismo
nei confronti dei «negri» ma che, nello stesso tempo,
rivelava quanto profondamente la loro presenza fosse associata al
cibo, al buon cibo assicurato dagli americani, perché la scena
descritta suscitava nella stessa Canino «orrore e pietà»,
ma anche «appetito», e non certo «disgusto»:
«L’Arenella [quartiere allora periferico
della zona alta di Napoli] è sbarrata in tutta la sua
larghezza dagli accampamenti dagli accampamenti dei negri.
Intorno alle reti del recinto si pigiava gente di ogni condizione ed
età e chiedeva cibo. Il cuoco aveva davanti a sé un
asse carico di pagnotte rigonfie, dorate. Benedetta, dimenticata
vista del pane. L’uomo traeva dalla pentola un ramaiolo, di
fagioli e carne, prendeva una pagnotta, la spaccava, l’imbottiva,
si dava una leccata alle mani, e, uno alla volta, contentava i
postulanti: «Ecco guà». La faccia lustra e nera
gli luceva d’orgoglio. Provavo orrore, pietà, appetito.
Durante la guerra, la gente diceva: «Poi ci faremo pulire le
scarpe dagli inglesi». Adesso siamo ridotti a chiedere
l’elemosina ai negri. Soprattutto le ragazze facevano festa.
Invece di aver paura di quei diavoli, erano tutte lì a
tirarli per il braccio, a strofinarsi contro le sentinelle, ad
offrirsi alle lunghe mani scimmiesche che tuttavia danno
sempre qualcosa».
Tra la primavera e l’estate del 1944 avevano cominciato a
registrarsi i primi timidi segnali di un miglioramento delle
condizioni di vita dei napoletani, perché era stato possibile
aggiungere progressivamente alla razione di 200 grammi di pane pro
capite al giorno, entrata in vigore il 7 febbraio, quote mensili
aggiuntive di generi alimentari, e il 1° luglio era entrata in
vigore in tutto il Mezzogiorno la nuova razione di 300 g. di pane (o
200 g. di pane e 80 di pasta).
Ma a Napoli – come in tutto il Mezzogiorno - la situazione
alimentare restava estremamente difficile, perché anche la
nuova razione, con le quote supplementari di zucchero, carne e
vegetali (che comunque non sempre venivano distribuite), poteva
fornire solo 906 calorie, quindi meno delle 1.006 calorie che i soli
rifornimenti alleati avrebbero dovuto assicurare, ed anche meno delle
960 calorie fornite dalle razioni in vigore in quelle stesse regioni,
durante la guerra, almeno fino al marzo 1942, che per giunta
prevedevano anche quote aggiuntive di cibo per particolari categorie
di civili.
Le difficoltà erano, inoltre, aggravate nell’intera
Italia Liberata dal sostanziale fallimento degli ammassi, per il
prezzo troppo basso fissato per il conferimento dei cereali, così
che, anche se il raccolto raggiunse risultati relativamente
soddisfacenti, la gran parte del grano prodotto fu sottratto agli
ammassi per essere dirottato nei canali del mercato nero.
E’ dunque comprensibile che nell’estate del 1944,
nonostante il relativo miglioramento della situazione economica, si
registrassero ancora serie tensioni nella popolazione.
Il malessere era diffuso soprattutto tra i ceti impiegatizi, travolti
dall’inflazione e convinti profondamente di essere stati e
continuare ad essere le principali vittime della guerra e della
sconfitta, più degli stessi ceti bassi, ritenuti più
disponibili a prestarsi alle attività illecite e immorali
legate all’occupazione alleata e a dedicarsi alle lucrose
attività del mercato nero, non solo per sopravvivere ma anche
per arricchirsi. Le rilevazioni della censura alleata sulla
corrispondenza dovevano infatti registrare una diffusa
insoddisfazione e preoccupazione per la situazione alimentare
soprattutto nei grandi centri urbani, a Napoli, come a Bari o a
Palermo. Erano infatti continuamente segnalate lettere inviate dalle
città che contenevano minuziosi elenchi dei prezzi, che
rivelavano l’attenzione ossessiva delle famiglie italiane, in
particolare di quelle dei ceti medi, verso il costante rialzo del
costo della vita e lo sconforto per la difficoltà a far
quadrare il bilancio domestico.
Erano inoltre certamente universali, nelle grandi città come
nei più piccoli comuni dei distretti rurali, le lagnanze per
la pratica impossibilità di provvedere ad acquistare scarpe e
capi d’abbigliamento per i prezzi proibitivi che avevano
raggiunto.
Pesava soprattutto l’impossibilità di sostituire le
scarpe ormai sfondate e ridotte a pezzi per l’uso eccessivo,
non solo perché impediva di muoversi («La gente deve
restare a casa perché non ha scarpe e non ha vestiti»
era scritto in una lettera da Taranto del 26 agosto), ma perché
limitava le stesse relazioni sociali obbligando, per mantenere il
decoro, a non uscire di casa, come era ricordato in una lettera da
Crispiano (Taranto) del 15 settembre, in cui si affermava:
«Mi piacerebbe venire a trovarti, ma come faccio?
Non posso uscire perché non ho scarpe. Sono andato a Taranto
con le scarpe di mio cugino. Lavoro giorno e notte ma non sono
riuscito a comprare un paio di scarpe perché devo aiutare in
famiglia».
Enormi difficoltà si incontravano in tutta l’Italia
Liberata per prendere case in fitto per i prezzi astronomici che
avevano raggiunto. Il maggiore motivo di malessere continuava,
comunque, ad essere fornito dall’insufficiente livello degli
stipendi, del tutto inadeguati a sostenere il costo della vita,
soprattutto per molti impiegati dello Stato che avevano subito
riduzioni dei salari netti, per la perdita di diverse indennità,
come quella per bombardamento, che ormai costituivano parte
integrante dello stipendio, così da dover ridurre il già
magro bilancio familiare:
La riduzione effettiva degli stipendi, inoltre, rendeva anche più
forti la delusione e l’irritazione per i tardivi e del tutto
insufficienti aumenti salariali concessi ai dipendenti pubblici. Per
sostenere i prezzi elevatissimi imposti dal mercato nero, persino
quelli che nell’anteguerra potevano essere definiti benestanti,
erano perciò costretti a vendere anche parte dei propri beni.
A maggior ragione, i lavoratori a reddito fisso, impiegati od operai
che fossero, erano costretti a privarsi dei beni più
essenziali: «Ieri ho dovuto vendere due materassi, non ce la
facevo a vedere i bambini morire di fame» era scritto in una
lettera inviata da Napoli nell’agosto.
Ma lo stato di disagio dei ceti medi era dovuto soprattutto al
ribaltamento dei ruoli sociali determinato dalle possibilità
di arricchirsi offerte ai contadini, agli «speculatori» e
agli stessi «lavoratori». La maggiore responsabilità
della critica situazione italiana era attribuita dai ceti medi urbani
soprattutto all’avidità di guadagno dei contadini, che
non solo erano ritenuti meno colpiti dai sacrifici imposti dalla
guerra - che sembravano aver gravato, per i bombardamenti e per la
crisi del razionamento, soprattutto sui ceti urbani -, ma erano anche
accusati di sottrarre i loro prodotti all’obbligo di ammasso e
di venderli a prezzi proibitivi, sfruttando la generale crisi
alimentare per arricchirsi col mercato nero alle spalle dei
cittadini.
L’ostilità verso i contadini era anzi tale che continui
appelli erano rivolti da singoli cittadini alle autorità
alleate per imporre le misure più severe contro gli evasori
agli ammassi, inclusa la stessa pena di morte.
Altro motivo di profondo malessere era dato dal degrado morale degli
strati più poveri della popolazione urbana, che era certamente
dovuto al peggioramento delle loro condizioni di vita e allo stato di
acuto bisogno in cui venivano a trovarsi come effetto della guerra,
dell’occupazione alleata e della generale crisi economica
dell’Italia Liberata, ma che, in qualche misura, era attribuito
anche ad una sorta di «predisposizione» al vizio del
popolino urbano, o, almeno, alle sue minori remore morali,
determinate dalla sua tradizionale disponibilità alle pratiche
illecite e ai reati minori per sbarcare il lunario, e che ora
apparivano confermate dalle dimensioni raggiunte dal fenomeno della
prostituzione, soprattutto di quella minorile, che sembrava
incoraggiata o addirittura imposta dalle stesse famiglie.
Il fenomeno sembrava aver raggiunto dimensioni impressionanti
soprattutto a Napoli: «Ieri abbiamo appreso - era scritto in un
articolo del «Popolo» del 26 agosto 1944 - che, solo
all’Ospedale della Pace, e in quindici giorni, sono state
visitate 4000 malate (e si può intuire di quali malattie) per
metà all’incirca minorenni!, e che uguali proporzioni si
riscontrano negli altri centri ospedalieri della provincia e della
regione», che confermava quante minorenni fossero dedite, o
meglio costrette alla prostituzione.
Finiva così col diffondersi tra gli stessi ceti medi
napoletani l’immagine che sarebbe stata in seguito accreditata
dalla Pelle di Curzio Malaparte e, in qualche misura, anche
dalla Napoli ’44 di Norman Lewis, di un’intera
città in cui, per sopravvivere, i fratelli prostituivano le
sorelle e i genitori vendevano i figli. E così nei continui
appelli dei benpensanti alle autorità alleate perché
intervenissero contro la prostituzione, si condannava senza appello
«una delle più losche attività» svolta
«nella più parte delle private abitazioni», in
«interi palazzi dal piano terreno all'ultimo piano», da
parte di «individui malfamati», di «donnine
allegre» e di «molti giovani che potrebbero rispondere
alle chiamate del lavoro [e che invece] se ne stanno tranquilli e
felici a caricare dollari nel loro lurido portafoglio»,
e, in un manifesto di un comitato cittadino di carità, si
lamentava la presenza di «bambine malate e gravide di 13, 12 e
persino 10 anni e mezzo, incoscienti, che giocano ancora con la
bambola, ignare del loro stato e del loro avvenire rovinato» e
si denunciava il caso di una dodicenne ricoverata in un ospedale per
le bastonature subite dal padre perché «non riesce a
‘guadagnare’ più di 2000 lire al giorno, mentre la
sorella quattordicenne ne ‘guadagna’ da 4 a 5 mila. Ma
essa, la dodicenne, non sa vincere la ripulsione di lasciarsi
avvicinare da negri».
Il fatto che l’esplosione del fenomeno della prostituzione
fosse evidentemente legata alla larga presenza di militari alleati
nelle città determinava anche spesso una profonda delusione e
un doloroso disincanto nei loro confronti, anche se forse il maggior
motivo di risentimento, tra i ceti medi e medio-alti, era determinato
dalla larga pratica ancora seguita dalle autorità alleate di
requisire abitazioni private, per alloggiarvi i militari. Eppure,
dalle rilevazioni della censura alleata emerge che era ancora
mantenuto un sostanziale consenso verso il regime di occupazione
anglo-americana, nella consapevolezza che la sopravvivenza stessa
degli italiani era assicurata dai sia pur insufficienti rifornimenti
alimentari alleati.
Il consenso era anche favorito dalle speranze in una ormai vicina
conclusione del conflitto suscitate dai successi riportati dagli
Alleati in Francia e in Italia ed anche dalla crisi del fronte
interno in Germania che sembrava rivelata dalla congiura dei generali
della Wehrmacht e dall’attentato ad Hitler del 20 luglio. Ma
proprio il favorevole andamento della guerra, provocando una
diminuzione delle unità alleate ancora presenti nelle
retrovie, rendeva più incerte le prospettive del locale
mercato del lavoro, creando nuovi motivi di depressione e di
angoscia.
Alla fine di agosto, mentre gli anglo-americani avevano già
completato la liberazione della Francia e si apprestavano a varcare
la frontiera belga e a tentare di aggirare la linea «Sigfriedo»
dall’Olanda, ed era in pieno corso la gigantesca offensiva
scatenata dall’Armata Rossa nel giugno lungo tutto il fronte
orientale, anche in Italia era ripresa l’offensiva alleata, con
il grande attacco iniziato il 25 contro la «Linea Gotica»,
sul cui esito favorevole Churchill nutriva tali speranze da aver
voluto assistere personalmente alle prime fasi dell’operazione.
Le speranze in un’ormai imminente conclusione del conflitto
avevano però contribuito solo in parte a migliorare la tenuta
del morale dei napoletani, perché ancora risentivano della
profonda crisi economica in cui la città continuava a
dibattersi.
Le rilevazioni della censura alleata dovevano perciò ancora
segnalare l’ossessiva attenzione prestata all’andamento
del costo della vita e al continuo allargamento della forbice tra
prezzi e salari dai ceti medi, per le difficoltà reali
incontrate anche solo per assicurare l’alimentazione per le
proprie famiglie, ed anche per il profondo disagio psicologico di
gruppi sociali che avevano fatto «del risparmio, dell’esigenza
di “far quadrare i conti” del bilancio domestico»
una «attitudine inveterata e consolidata, quasi una seconda
natura».
Così, in una lettera da Napoli, dell’ottobre 1944,
troviamo scritto:
«I miei guadagni non bastano per andare avanti. I
prezzi sono saliti sempre più alle stelle. Nel novembre 1943
riuscivamo a viver con 8 mila lire al mese. Poco alla volta, la
quantità di denaro necessaria è salita a 10, 12, 15 e
17 mila lire. Adesso ci vogliono circa 20 mila lire al mese per
sopravvivere. Tutti i miei risparmi in depositi e buoni del tesoro se
ne sono andati, e ho dovuto fare debiti. Lo scorso luglio ho dovuto
vendere la casa di Salerno e usare i soldi per le spese quotidiane».
In realtà, in quel periodo – come nel corso di tutta la
guerra - anche gli operai erano impegnati a seguire con apprensione
ogni minima variazione dei prezzi, perché avrebbe potuto
segnare l’impossibilità pratica di sfamare le proprie
famiglie, ed anzi gli operai, a differenza dei ceti medi, non
disponevano neppure della possibilità di dar fondo ai risparmi
accumulati in passato e neppure delle risorse assicurate dal circuito
del familismo economico ai ceti impiegatizi, che in buona parte erano
di recente inurbamento, e che perciò avevano mantenuto legami
con le terre d’origine, così da poter reperire scorte
alimentari tra parenti e amici rimasti a vivere in campagna.
La convinzione che si stesse attuando un radicale ribaltamento dei
rapporti tra i gruppi sociali, con l’ascesa dei ceti popolari a
detrimento di quelli medi, si affiancava, in questi ultimi, in
generale ad una denuncia del «caos», della corruzione
dominanti, del degrado morale del popolino e a dure critiche per
l’apatia delle autorità.
Così, in una lettera da Napoli del 31 ottobre 1944 si
affermava:
«Qui a Napoli la solita vita. Economicamente non
si può andare avanti, i prezzi sono addirittura proibitivi per
tutti i generi ed il contrabbando assume proporzioni sempre più
estesi. Chi sa dove si vuole arrivare. Un povero impiegato con lo
stipendio che percepisce non sa come fare. Intanto le presunte
autorità lasciano correre ogni cosa e di questo passo
indubbiamente ci avviamo al baratro, più di quello in cui
siamo già caduti.
Un malcontento generale regna in tutta la città,
tranne per il popolino, il quale, dandosi da fare in tutti i campi,
aziona frodando ogni categoria di media borghesia, senza rendersi
conto delle catastrofiche conseguenze.
Speriamo che presto tutto si accomodi ed in forma
definitiva, altrimenti la rivoluzione sarà imminente senza
salvezza di nessuno».
I ceti medi sembravano colpiti soprattutto dalla corruzione morale,
evidenziata in particolare dall’esplosione della prostituzione
anche minorile. Così, in un’altra lettera si affermava:
«La vita a Napoli è nel caos. Il vizio e il
furto dominano. La gente ha abbandonato la retta via. Nessuno si
accontenta del suo lavoro e di modesti guadagni; vogliono profitti
extra e niente lavoro duro; perciò rubano e si prostituiscono
e i padri spingono le figlie ancora adolescenti alla prostituzione.
E’ ricomparsa la malavita, su scala più grande. Ci sono
bande regolari che rubano e, in cambio di una generosa mancia,
scortano i soldati nei bordelli. Sporcizia e oscenità mai
viste prima».
E in un’altra lettera del settembre, scritta evidentemente da
una persona rimasta impressionata dal manifesto del «comitato
cittadino di carità» che denunciava lo sfruttamento
della prostituzione minorile:
«Quello che si arriva a vedere è
impensabile e amareggiante. Un padre che picchia la figlia perché
ha portato soltanto 2.000 lire invece di 4.000 lire come l’altra
sorella».
E, infine, ancora nel settembre:
«A Napoli, fra mercato nero e commercio di ogni
genere, specialmente in carne femminile, la situazione morale e
familiare è terribile, come vedi, non avremo da ricostruire
solo case e fabbriche, ma cosa ben più difficile –
dovremo ricostruire gli spiriti».
Ancora alla fine del 1944 i rapporti trasmessi dai questori e dai
prefetti e dall’Arma dei Carabinieri dimostravano come il primo
e principale problema degli italiani, che assorbiva tutte le loro
energie, fosse ancora quello di far fronte alla crisi economica e di
provvedere al cibo per le proprie famiglie. Le rilevazioni della
censura mettevano in evidenza, inoltre, quanto fosse ancora profondo
il malessere dei ceti medi e dei dipendenti pubblici per il divario
crescente tra il salario e il costo della vita, e quanto fosse dura
la lotta per la sopravvivenza per chi non era impegnato nelle lucrose
attività del mercato nero o almeno godeva del privilegio di
lavorare per i magazzini, i depositi e, soprattutto, per le mense
delle unità alleate, tanto da provocare una diffusa paura
nell’inevitabilità di una «rivoluzione generale»
per lo stato di esasperazione in cui si trovava il popolo. Il morale
degli italiani era poi depresso dallo spettacolo della «corruzione»
dilagante, dalle dimensioni raggiunte dal fenomeno della
prostituzione, dallo stato dell’ordine pubblico per l’audacia
della malavita che non esitava a compiere furti e rapine nelle città
anche in pieno giorno e che in molti centri rurali aveva ridato vita
al fenomeno del banditismo, ed infine dai continui episodi di
violenza di cui si rendevano protagonisti molti militari alleati
quando erano erano ubriachi. Sembrava così ora prevalere anche
la delusione e il risentimento nei confronti degli stessi Alleati,
tanto da registrare persino una ripresa dei tipici temi della
propaganda fascista, come si vede in una lettera inviata da Napoli il
15 novembre:
Gli alleati questi altri cialtroni, non fanno che predicare e
valorizzare le necessità di guerra che contrastano i
rifornimenti ai civili.
Ma loro si cibano 5 volte al giorno, ci spogliano di tutto quello che
trovano dandoci della carta che non ha nessun valore e si divertono
dalla mattina alla sera. I migliori negozi sono in mano loro perché
hanno bisogno di mille spacci per generi di conforto. Non fanno che
fondare Clubs, circoli e casini dove dare sfogo alle loro brame e per
ubbriacarsi in modo indegno per un uomo civile. Se questa è la
civiltà alla larga ... meglio i barbari col loro ordine e
con la loro dignità. Tu non hai ancora provato lo stringimento
di cuore che ti dà l’osservare centinaia di ragazzi
occupati a lustrare le scarpe ai negri e ancor più, nelle
osterie principali invitare i soldati a trincare o per offrirgli la
mamma, la sorella, ecc. ecc..
Per giunta, la controffensiva della Wehrmacht nelle Ardenne, iniziata
a metà dicembre, rivelando quanto fosse ancora forte la
macchina bellica tedesca, lasciava cadere ogni residua speranza in
una ormai vicina fine del conflitto.
Così, nonostante l’intensa campagna di propaganda
sostenuta dalle sinistre per la formazione di un’Armata
italiana,
la guerra di Liberazione restava un tema scarsamente popolare. Non si
registrarono a Napoli episodi come le sommosse popolari promosse in
Sicilia dal cosiddetto «Movimento dei Nonsiparte», ma di
certo anche in quella città il richiamo alle armi dei giovani
compresi tra i venti e i trent’anni si rivelò un
completo fallimento per la generale opposizione della popolazione.
Nei primi mesi del 1945 le condizioni di vita e persino il morale
della popolazione dell’Italia Liberata restavano ancora non
molto diversi da quelli registrati nelle fasi più critiche
dell’occupazione alleata nell’inverno 1943-44. Ancora nel
gennaio 1945, ad esempio, Napoli era descritta dal Direttore
dell’OSS, Donovan, in un rapporto destinato a Roosevelt, come
«un settore dello spazio sfasciato fisicamente ed abitato da
una massa grigia e nera di visi che non sorridono», come una
città ancora impegnata in una dura lotta giornaliera per la
sopravvivenza, perché
«In molti casi non vi è letteralmente
nulla da mangiare e le case sono così fredde e umide che alla
sera si va a letto molto presto. I servizi pubblici, come i telefoni
o i trasporti, o sono paralizzati o funzionano in modo irregolare.
La gente cerca di rubare un paio di calze qui, un po’
di burro là, perfino castagne, qualcosa che dia un po’
di caldo e un po’ di cibo almeno per un giorno. In questo
genere di attività, sono molto astuti: ad esempio, dopo che
una delegazione di sindacalisti sovietici era stata portata a spalla
lungo le strade da lavoratori italiani entusiasti, uno dei russi si
accorse di non avere più le scarpe.
Le donne sono talvolta costrette ad andare a letto con i
soldati; è una consuetudine molto diffusa. Gli uomini parlano
con amarezza di quella che chiamano la prostituzione
istituzionalizzata delle loro donne, eppure molti genitori mandano le
figlie per strada di modo che la famiglia possa avere di che campare.
[...] Gli stranieri sono continuamente assaliti da
italiani che cercano di procurarsi qualcosa, cibo o favori. Ciò
fa sì che il personale alleato sia spesso irritabile o cinico,
se non duro, nel modo di trattare con la popolazione locale».
Le osservazioni di Donovan su Napoli trovavano, inoltre, una piena
conferma nelle rilevazioni della censura alleata, che registravano
come il relativo miglioramento della situazione alimentare, con
l’apparizione di un maggior numero di prodotti sul mercato,
sembrava solo aver accentuato «il continuo contrasto tra le
necessità e le possibilità», come ricordava una
certa Olga in una lettera dell’ 11 febbraio, e come era
confermato da lettere, come quella inviata da S. Gennariello al
Vomero il 9 febbraio in cui si affermava: «Vi è ogni ben
di Dio ma bisognerebbe avere il portafoglio ben pieno per acquistare.
Pesce meraviglioso ma non possiamo che guardarlo ed accontentarci
dell’odore». Gli appartenenti al ceto medio dovevano
ancora provare una profonda umiliazione per non poter provvedere col
proprio lavoro alle esigenze delle famiglie, come annotava la stessa
lettera della già citata Olga: «Lo studio di mio marito
non va avanti e mi si stringe il cuore nel vedere come soffre e si
arrovella questo povero vecchio per non poter più sopperire
col suo guadagno ai modesti bisogni della famiglia».
La constatazione che i ceti medi e i lavoratori dipendenti erano
sottoposti agli stessi sacrifici provocava ora una comune ostilità
verso gli speculatori e i ricchi, come emerge, ad esempio, da una
lettera del 5 febbraio, in cui si sosteneva:
«Le classi che soffrono di più a Napoli
sono specialmente la classe media, l’impiegato, il lavoratore
dell’ufficio, il lavoratore manuale con un peso maggiore
derivato dall’aver obbedito al Duce. Le classi agiate ci sono:
pagano bene, hanno sempre vissuto di truffa, di rendita, di sapere
fare. Le classi infime hanno sempre vissuto nella marea ed hanno
sempre sorpassato ogni disagio con la massima pazienza vivendo sempre
lo stesso tenore di vita».
Ancora peggiori dovevano essere le condizioni di vita dei ceti
marginali, perché la sopravvivenza delle famiglie continuava
ad essere spesso affidata alla prostituzione delle donne, un
fenomeno, questo, che doveva aver raggiunto dimensioni
impressionanti, tenendo conto del fatto che nel 1945 furono
registrate 5.938 donne ricoverate per blenorragia e 935 per sifilide,
così come dovevano aver raggiunto proporzioni allarmanti il
fenomeno della prostituzione forzata e delle violenze sessuali sulle
minorenni, visto che tra le donne ricoverate, ben 310 erano
minorenni, ed alcune addirittura di soli 5 anni.
Eppure, i ceti medi continuavano ad attribuire la diffusione delle
attività illecite e della prostituzione non solo ad un reale
stato di bisogno, ma anche alla ricerca di facili guadagni. Il 22
febbraio, ad esempio, R.D. da Napoli scriveva:
«Qui è sempre la solita vita per i
napoletani, il compito dei giovani e ragazzi è di assalire
camion, levare portafogli dalle tasche senza far accorgere
all’individuo, e sono formati tutti a banda.
Ogni giorno una moltitudine vengono arrestate, ed il
giorno dopo invece di essere più pochi, sono sempre di più.
Poi il compito delle giovane: si trovano quasi in tutti
vicoli della Città, il meretricio e con un portafoglio
veramente pieno, vanno al mercato nero e possono spendere a qualsiasi
prezzo, perché la loro professione lo permette che guadagnano
assai in poche ore e con poca fatica.
Il giaio è delle poche famiglie, che soffrono, ed
anche degli operai che con misera giornata non possono comprare
neanche un pacchetto di sigarette».
Così, buona parte delle lettere segnalate dalla censura
insisteva sul tema della corruzione della città, come quella
del 6 febbraio, in cui si scriveva: «Non ti dico poi gli uomini
e le donne a che grado di lordura, e di sozzura sono arrivati. Questa
disgraziata città è diventata una fogna», e in
quella del 10 febbraio, che affermava: «qui è un vero
arrembaggio e affamamento degli stessi Italiani a nostro danno, a
danno delle persone oneste e da bene che non possono fare né
saprebbero fare mestieri loschi».
La maggiore responsabilità del degrado di Napoli finiva col
ricadere sugli stessi Alleati, soprattutto perché il loro
comportamento non trovava altra giustificazione che la ricerca del
profitto e del divertimento. Si tendeva allora ad attribuire in gran
parte agli americani anche l’esplosione dei furti e del mercato
nero, perché, come sosteneva un soldato in una lettera del
gennaio 1945,
«[...] in Napoli vi sono dei luoghi chiamati
«Duchesse». Nemmeno i poliziotti osano entrarvi perché
sarebbero immediatamente assassinati. Colà vengono ammassate e
rivendute le refurtive [...] Tutta la colpa è degli Americani.
Tra di essi vi è un numero immenso di disertori e latitanti i
quali, essendo di origine italiana e conoscendo la lingua e i
dialetti, sono riusciti ad organizzare il gangsterismo su vasta
scala».
Ed ancora nell’agosto 1945 un napoletano avrebbe scritto ad un
congiunto emigrato a New York:
«In quanto all’Italia che è infestata
da delinquenti non è vero. Per la miseria che c’è
e per quello che la gente ha sofferto quei pochi fatterelli sono
insignificanti. Il gangsterismo lo hanno importato i negri americani,
i quali si vendono i camion interi».
Ma qualcuno discolpava gli alleati della responsabilità del
degrado di Napoli e dell’intero Paese, attribuendola agli
stessi italiani, alla loro ansia di raggiungere un facile successo.
Per riportare l’«onestà» e la «moralità»,
ci si affidava allora alla possibilità di imporre «leggi
inflessibili», come si augurava la già citata Olga nella
lettera dell’11 febbraio, se non addirittura all’intervento
di una «mano provvidenziale», perché finché
non fosse stata ripristinata la moralità pubblica e privata,
anche quando fosse finita la guerra, i cittadini onesti avrebbero
conosciuto «giorni brutti, giorni neri, giorni tristi, giorni
diabolici», come profetizzava un abitante di una frazione di
Lacco Ameno, l’8 febbraio.
In questa situazione non c’è da stupirsi che il censore
dovesse registrare quanto malumore avessero provocato tra i giovani e
tra i genitori, in particolare tra le madri, le chiamate alle armi
decise dal Governo e le voci su arresti di renitenti alla leva.
Ma il fenomeno del rifiuto di continuare a combattere non era affatto
limitato alla sola Napoli o al solo Meridione, perché si
manifestava, ad esempio, anche a Firenze, provocando la reazione
indignata e delusa di un professore, che, in una lettera inviata da
quella città ad un avvocato napoletano il 12 febbraio,
lamentava come gli italiani tutti fossero diventati «mendicanti
nell’anima», più degli stessi «calunniatissimi
scugnizzi napoletani mendicanti che aspettano un boccone e lo
chiedono umiliandosi».
Nonostante tutti i limiti e gli errori dell’occupazione
alleata, va comunque sempre ricordato con profondo rispetto e
riconoscenza il duro contributo di sangue offerto nella campagna
d’Italia dagli inglesi e dagli americani, così come dai
polacchi, neozelandesi, canadesi, nord africani, indiani, brasiliani
e dagli appartenenti ai tanti contingenti militari nazionali
impegnati in Italia caduti per la liberazione del nostro Paese.
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