Il percorso della Libertà

Italia 1943 - 1945

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Il dopo Quattro Giornate: l’occupazione alleata a Napoli

Paolo De Marco  *


Negli ultimi mesi si è con insistenza sostenuto sulla stampa e in televisione che gli americani e gli inglesi sono intervenuti in Iraq per esportare in quel paese – sia pure con le armi – la democrazia e la libertà, allo stesso identico modo con cui sessanta anni fa, durante la seconda guerra mondiale, avevano «liberato» l’Europa dall’oppressione nazi-fascista.

Per quanto riguarda il nostro paese in particolare, si può ricordare che gli anglo-americani, quando sbarcarono in Italia, insediarono un Governo Militare Alleato che rispondeva direttamente alle autorità militari, esattamente come è stato fatto in Iraq, fino a poche settimane fa, il che potrebbe far pensare ad una continuità di scopi e di metodi – almeno nelle intenzioni – tra i «liberatori» anglo-americani della Seconda guerra mondiale e i «volenterosi» aderenti alla coalizione diretta da Bush, impegnati oggi ad «esportare la democrazia» nel Medio Oriente.

Le analogie tra la situazione italiana del 1943-45 e quella irachena di oggi sono però solo apparenti, perché risultano profondamente diverse le caratteristiche dei due Paesi e le condizioni politiche, sociali, culturali, ed anche religiose, così come risultano radicalmente mutati i contesti internazionali in cui si è realizzata la «liberazione» dell’Italia e dell’Iraq.

In primo luogo, durante la Seconda Guerra Mondiale, l’Italia stava attraversando una violentissima crisi politica e morale, che costringeva a rivedere l’idea stessa di Patria e a cercarne un nuovo significato, ma manteneva una sua precisa identità e la sua popolazione restava pur sempre dotata di un forte senso di appartenenza nazionale; in Iraq invece il senso di Nazione è condizionato dal fatto stesso che quel paese è nato come Stato per volontà del governo inglese, sulla base degli interessi imperiali britannici, e risulta ancora oggi seriamente indebolito dalle periodiche tentazioni separatiste delle diverse comunità che ne fanno parte, e dal peso ancora esercitato dalle tradizionali divisioni tribali. L’Italia era inoltre un paese in larghisima maggioranza cattolico, mentre la società irachena risente delle divisioni tra sciti e sunniti e tra le diverse sette e scuole religiose che si muovono all’interno di questi due grandi gruppi religiosi. Il nostro paese aveva conosciuto, prima del fascismo, sia pure con tanti limiti e contraddizioni, una lunga stagione di democrazia parlamentare, mentre fino ad oggi in Iraq non c’è mai stata una reale democrazia. Infine, durante la Seconda Guerra Mondiale gli inglesi avevano partecipato alla pari con gli americani alla liberazione dell’Europa ed avevano, anzi, sostenuto con le loro truppe il peso maggiore della campagna d’Italia, mentre oggi gli americani si accollano da soli quasi l’intero peso dell’occupazione militare dell’Iraq, con un contributo solo molto modesto offerto dai loro alleati, compresi gli stessi inglesi.

Ma, soprattutto, inglesi e americani sono intervenuti in Iraq per propria scelta, contro il parere dei governi della «Vecchia Europa» e della stessa Onu, mentre, all’epoca, invasero l’Italia perché Mussolini aveva loro dichiarato guerra e perché l’occupazione dell’Italia sembrava, a torto o a ragione, utile per accelerare la sconfitta della Germania nazista.

Per quanto, infine, riguarda la liberazione di Napoli nell’ottobre del 1943, va ricordato che questa fu salutata con sollievo e gioia dai napoletani soprattutto perché segnava la fine del regime di terrore imposto dai tedeschi e sembrava annunciare la fine dei timori e dei sacrifici imposti dalla guerra, mentre la liberazione di Bagdad appare soprattutto come effetto di una guerra, che per giunta non può dirsi ancora completamente cessata, perché continua in qualche modo sotto la forma del terrorismo.


Per analizzare il periodo dell’occupazione alleata a Napoli, bisogna ricordare che, al momento dello sbarco in Sicilia, il 10 luglio 1943, gli Italiani erano ancora «nemici» a tutti gli effetti, e che l’armistizio del settembre 1943 non segnò immediatamente un rovesciamento delle alleanze e un passaggio dell’Italia nello schieramento delle Nazioni Unite, perché si limitava a sancire la «resa incondizionata» dell’Italia.

Il repentino tracollo delle Forze Armate, all’indomani dell’8 settembre, aveva infatti impedito agli italiani di realizzare un effettivo rovesciamento di fronte e di conquistare sul campo il diritto a far parte a pieno titolo dello schieramento delle Nazioni Unite. L’Italia continuò ad essere pertanto, per i governi inglese e americano, semplicemente un «paese nemico sconfitto», in quanto tale obbligato ad accettare le pesantissime clausole dell’armistizio «lungo» del 29 settembre, anche se le era offerta la possibilità di «pagare il biglietto di ritorno» tra i Paesi democratici, e di modificare il suo status internazionale, se non in quello di paese «alleato» almeno in quello di paese «cobelligerante» degli anglo-americani.

Gli Alleati pertanto esercitavano pieni poteri nei territori italiani che man mano venivano liberati, attuando un controllo «diretto» attraverso l’AMG (Allied Military Government), ed esercitavano poteri sostanziali di veto e di controllo anche sui territori del «Regno del Sud» (in sostanza, fino al gennaio 1944, la sola Puglia, tranne la provincia di Foggia, e la Sardegna), lasciati formalmente alla sovranità italiana e perciò, in teoria, sottoposti unicamente all’autorità del Sovrano e del Governo Badoglio, attuando un controllo «indiretto» inizialmente con la AMM (Allied Military Mission) e, poi, dal novembre 1943, con l’ACC (Allied Control Commission).

Il reale modo di intendere i rapporti col governo italiano era francamente ammesso, nel rapporto trasmesso il 28 settembre al responsabile della Civil Affairs Division di Washington, generale J. H. Hilldring, dal Capo della Military Government Section dell’AFHQ, generale Julius Holmes, inviato a Brindisi con Lord Rennell per trovare un modus vivendi col governo di Brindisi in attesa di istruzioni definitive dei Capi di Stato Maggiori congiunti anglo-americani:


«Il Generale Rennell ed io abbiamo fatto una visita la settimana scorsa e con il generale [Mason-] MacFarlane abbiamo lavorato su un accordo ad interim con il maresciallo Badoglio, sotto i cui termini abbiamo concordato di non proclamare il Governo Militare nelle quattro province della Puglia. Nella circostanza ci parve inopportuno dare pubblica notizia del nostro controllo del diritto di sovranità (italiana) sotto il naso del piccolo re e del vecchio maresciallo. Anziché insediare il governo militare, abbiamo deciso di permettere al maresciallo di governare queste quattro province con ufficiali dell’AMG nelle prefetture e in altri posti in qualità di ufficiali di collegamento, ma con la precisa intesa che avrebbero esercitato un’effettiva influenza nell’amministrazione locale. Badoglio era perfettamente d’accordo su questo perché lui e tutti gli interessati erano pienamente consapevoli del fatto che qualsiasi riluttanza da parte degli italiani a fare quello che noi chiedevamo per portare avanti la campagna poteva portare rapidamente all’instaurazione di un totale controllo militare»1.

La totale dipendenza del Governo Badoglio dagli Alleati era, del resto, resa inevitabile dalla estrema debolezza di quel Governo, che, in quei giorni, risultava privo anche delle più elementari strutture amministrative e dei servizi indispensabili, non disponendo neppure di dattilografi così che le stesse comunicazioni ufficiali consegnate agli Alleati non erano altro che lettere scritte a mano da Badoglio2. La stessa sopravvivenza fisica dell’apparato burocratico di Brindisi era tra l’altro affidata alle razioni alimentari concesse dagli Alleati ai funzionari e agli impiegati dei Ministeri ed agli stessi membri del Governo, compreso lo stesso Maresciallo Badoglio.

Dal momento che l’AMG era un organismo militare, che rispondeva direttamente ai comandanti delle Armate alleate e al Comandante Supremo alleato per il teatro di guerra mediterraneo (Eisenhower fino all’8 gennaio 1943) le sue finalità, a Napoli come in tutti gli altri territori liberati, erano in primo luogo militari. Gli aiuti alla popolazione erano cioè previsti solo nella misura strettamente necessaria per evitare il pericolo di rivolte e di epidemie, che potevano coinvolgere anche i militari delle Armate alleate sbarcate in Italia, perché lo scopo prioritario dell’AMG era quello di sostenere l’attività dei reparti alleati, mobilitando a loro favore tutte le risorse locali.

Ovviamente, la prima iniziativa presa a Napoli dagli alleati fu la ricerca degli ordigni esplosivi a tempo disseminati dai tedeschi in città, che provocarono diverse esplosioni con molti morti tra la popolazione, come al Palazzo delle Poste, dove il 7 ottobre rimasero uccisi 30 civili ed altri 84 furono gravemente feriti, ma anche tra i militari alleati, tra i quali si registrarono 24 morti e 47 feriti l’11 ottobre, quando saltarono in aria le baracche di una caserma dell’artiglieria italiana, da loro occupate [Sarebbe forse il caso di esaminare con attenzione le meticolose piantine preparate dai comandi tedeschi, custodite nell’archivio di Friburgo3, con l’indicazione della precisa posizione delle mine nascoste dai guastatori tedeschi in molti edifici napoletani, per assicurarsi che siano state tutte effettivamente recuperate e neutralizzate].

Ma anche le altre primissime misure prese dagli Alleati a Napoli avevano una finalità militare, anche quando andavano comunque a vantaggio della popolazione: così la rimessa in funzione del Porto risultava essenziale per ripristinare i rifornimenti alimentari alla città, ma serviva prima di tutto a garantire il necessario supporto logistico alle Armate alleate impegnate in Italia; il ripristino della distribuzione dell’acqua e dei servizi essenziali aveva evidentemente lo scopo di salvare i napoletani dalla sete e dalla fame, ma anche quello di impedire la altrimenti inevitabile dispersione della popolazione nelle aree circostanti, che avrebbe intralciato i movimenti delle unità militari. Lo stesso provvidenziale, massiccio impegno degli Alleati nel contrastare una gravissima epidemia di tifo petecchiale esplosa in città, con un’azione sanitaria tanto vasta da essere definita la «seconda battaglia per Napoli» salvò i napoletani dal pericolo concreto di una incontrollabile pandemia, ma servì anche a tutelare la sicurezza dei militari alleati, riducendo il rischio che anche loro venissero contagiati dal morbo.

La visione della ricchissima dotazione di mezzi dei soldati statunitensi aveva ovviamente favorito una ripresa del mito americano.

Già nel corso della campagna di Sicilia, era apparso prepotentemente tra i soldati italiani impegnati nell’Isola il mito americano (in qualche modo esteso anche all’Inghilterra), che portava a giudicare quasi in termini favolistici, magici, la potenza, o meglio l’onnipotenza anglo-americana, esprimendo in tal modo l’ammirazione e il senso di placida inferiorità che i soldati-contadini di un’Italia ancora largamente rurale, nutrivano nei confronti dei guerrieri tecnologizzati di una società industriale ricca ed evoluta come quella anglo-sassone.

Come ha ricordato Giorgio Corona sulle sue esperienze come ufficiale in quella campagna:


Sono sorte tra i soldati sulla guerra storie fantastiche e bizzarre che rivelano quanto questa guerra sia per loro estranea e irreale e, come guerra, quasi incomprensibile. Essi mi spiegano che gli aerei a due code, quelli di cui hanno più paura, sono tutti guidati da donne. Rido, ma loro giurano che è vero: presso i resti di uno di questi aerei sono stati anche trovati i corpi di due meravigliose donne bionde, ancora intatte, come per miracolo, ma, chissà come, completamente nude [...] Con senso altrettanto favoloso mi descrivono anche i soldati negri, alti e fortissimi, che hanno visto a Gela: questi negri, improvvisamente, si mettevano a parlare italiano così come gli animali nelle fiabe si alzano in piedi e parlano da umani.

E proseguiva:

A Gela essi hanno fatto prigionieri che poi hanno perso ritirandosi e perfino nel descrivere gli attrezzi, le divise, le munizioni, i viveri, trovati o visti addosso a questi nemici, rendono tutto strano e meraviglioso: gli americani si ungono la faccia con pomate di vari colori, per lo più colore terra o nero: c’è chi dice per mimetizzarsi, c’è chi dice per fare paura, c’è chi dice contro le zanzare. Gli inglesi hanno misteriosi viveri, di fronte a cui le nostre scatolette, così desiderate dai soldati, sono un cibo pressoché rudimentale: hanno biscotti, dolci, cioccolata, piccole borracce di liquori e soprattutto hanno certe tavolette di una sostanza grigiastra e gassosa che ti verrebbe da buttarle via ed invece un soldato mi spergiurava che gli è accaduto di mangiarne una e per due giorni non ha più avuto fame e si sentiva forte come un leone4.

A Napoli l’arrivo degli alleati era stato salutato in un’atmosfera entusiastica, con tratti persino d’autentica isteria collettiva, da una popolazione travolta e frastornata dall’esibizione di potenza e di opulenza fornita dalla Quinta Armata col numero, le dimensioni e la varietà dei tank e dei mezzi di trasporto e di traino in dotazione, con lo spettacolo ubriacante delle variopinte divise dei reparti inglesi, americani, canadesi, scozzesi e delle truppe di colore che continuamente arrivavano in città, con l’incredibile varietà dei gusti e degli aromi dei prodotti offerti con larghezza dai militari alleati, dei quali molti dimenticati, come quello del pane bianco, della cioccolata e del caffè autentico, e alcuni insoliti o del tutto sconosciuti, come quello del chewing-gum, dei life savers (le caramelle col buco) e della coca cola o quello melassato delle Camel, delle Lucky Strike e delle Pall Mall o quello aromatico delle sigarette inglesi.

Anche nelle giornate e nelle settimane successive si registrava una piena ammirazione dei napoletani, logorati fisicamente dalle privazioni alimentari di una lunga guerra, costretti spesso ad indossare capi d’abbigliamento ridotti a brandelli, spesso privi anche delle scarpe, nei confronti dei soldati anglo-americani, alti, ben nutriti, dotati tutti di eccellente vestiario e di solide calzature, per non parlare della larga disponibilità di generi di conforto d’ogni tipo (sigarette, cioccolata, gomme masticanti, generi alimentari, bevande) ad essi assicurata e della stupefacente capacità di spesa di cui tutti loro, compresi i soldati di colore, sembravano godere, che rivelavano appieno l’abissale divario tra le condizioni dei vincitori, tipiche di una società opulenta, e quelle miserevoli dei soldati vinti, risultato inevitabile di un’Italia povera e frugale, prostrata da una guerra rovinosa.

Non va, inoltre, trascurato il valore innovativo, dopo 20 anni di regime poliziesco, dei modelli istituzionali e giuridici anglo-americani: si pensi, per fare un esempio, all’introduzione della regola dell’Habeas Corpus in un’Italia in cui gli imputati di un qualche reato erano trattenuti in carcere per tutto il tempo necessario per la polizia per raccogliere tutte le prove a loro carico, senza che fossero neppure informati di quale reato fossero accusati; all’assoluto divieto di ricostituire sotto qualunque forma il partito fascista imposto dagli anglo-americani come precisa clausola dell’armistizio – e in seguito, del trattato di pace; si pensi, soprattutto, al ripristino della libertà individuali attuato dagli anglo-americani, eliminando i limiti imposti dal regime fascista alla libertà di parola e al diritto di svolgere attività politiche e sindacali – naturalmente entro i rigidi vincoli imposti dallo stato di guerra -, ed eliminando le misure discriminatorie esercitate in base al credo religioso professato o all’appartenenza ad una razza diversa da quella ariana.

Va messo in evidenza che non esisteva una politica univoca degli alleati, ma che vi erano, a proposito dell’atteggiamento da tenere nei confronti degli italiani, del Governo Badoglio e dei partiti antifascisti posizioni molto diverse di inglesi e di americani, e che anche all’interno di questi singoli gruppi nazionali, si registravano posizioni anche profondamente diverse tra i militari degli organismi alleati di controllo, in base al loro orientamento politico, ideologico, culturale.

Bisogna ricordare, ad esempio, che molti inglesi d’orientamento laburista e molti americani che si riconoscevano nelle posizioni più avanzate del New Deal rooseveltiano guardavano con molta simpatia agli antifascisti italiani e mostravano una sincera disponibilità ad impegnarsi personalmente per promuovere il rinnovamento politico e sociale dell’Italia.

Il sincero antifascismo di questi personaggi è testimoniato ampiamente dal racconto fatto il 19 ottobre 1943 dal capitano Downes al capo dell’OSS (Office of Strategic Service: l’agenzia dell’intelligence americana di allora), Donovan, su come aveva proceduto a sequestrare la villa di Achille Lauro a Via Crispi.

La sontuosa palazzina di marmo bianco del potente armatore napoletano era stata scelta da Downes come sede del comando dell’unità dell’OSS che operava con la Quinta Armata, sia per motivi morali, volendo punire il primo nome della lista nera dei fascisti predisposta dagli alleati, sia per motivi di sicurezza perché si riteneva che difficilmente i tedeschi avrebbero predisposto bombe trappole nella casa di un uomo che vantava legami di amicizia personale con Mussolini e che aveva ospitato lo stesso Hermann Göring.

«Mi sono recato nella casa del signor Lauro a via Crispi 71 scriveva Downes -ed ho trovato che era un grande, moderno palazzo di marmo. Uno dei nostri uomini era stato lì il giorno prima per discutere la possibilità di requisire l’edificio. Il signor Lauro aveva acconsentito a consegnarci due stanze al pianterreno.

Sono entrato e ho trovato il signor Lauro mentre stava pranzando e l’ho informato che invece di prendere le due stanze, noi volevamo prendere l’intero edificio e che egli avrebbe dovuto andarsene il giorno dopo alle 9 di mattina.

Lui si è rifiutato ed io l’ho informato che ero molto spiacente ma non potevo accettare il suo rifiuto e che avrebbe dovuto lasciare la casa il mattino dopo alle 9. Il signor Lauro ha allora cominciato ad addurre a pretesto gli stenti che sarebbero caduti sulla sua famiglia e su se stesso se avesse lasciato la casa, soprattutto per le sue quattro figlie di età compresa all’incirca tra i 17 e i 25 anni. Io ho detto al signor Lauro che poiché aveva larga disponibilità di mezzi finanziari non avrebbe trovato difficoltà a procurarsi un altro posto per vivere e che io non ero particolarmente interessato al lusso o al comfort della sua famiglia perché sapevo che lui non era stato molto interessato al lusso, al comfort o anche alla vita o alla libertà degli Italiani negli ultimi 21 anni. A questo punto il signor Lauro ha mutato atteggiamento e ha cominciato a minacciarmi con i suoi influenti amici di Londra e di Washington, al che io ho replicato che senza dubbio aveva amici molto influenti, ma avrebbe trovato difficile mettersi in contatto con loro. Nel frattempo sarei andato a vivere nella sua casa e gli ho detto che io e i miei uomini eravamo armati e che se si opponeva a lasciare la casa non sarebbe certamente più entrato in contatto con nessuno e che poiché era stato così sgradevole su questo trovavo necessario ordinargli di lasciare la casa entro due ore.

In silenzio egli cominciò ad accondiscendere a portare fuori dai nascondigli quattro lussuose automobili ordinando di riempirle con i letti e con le sue scorte di viveri.

Poiché noi avevamo estremo bisogno di tutti e tre questi generi, l’ho informato che le automobili erano già state requisite da noi e che egli non poteva portare fuori dalla casa nient’altro che i suoi indumenti personali, il suo danaro e i suoi articoli di toeletta, e che lo stesso valeva per i membri della sua famiglia.

Dopo che il signor Lauro ha lasciato la casa ho predisposto un inventario della proprietà e ho trovato numerosi documenti organizzativi fascisti che ho ordinato di consegnare al C.I.C. [Counter Intelligence Corps, il servizio d’informazione dell’Esercito americano] come prove a carico del signor Lauro. Tra gli altri generi ho trovato i viveri qui elencati:

A. 36 prosciutti.

B. 12 casse di corneed beef americano catturato in Africa.

C. Circa 120 libbre di caffè americano catturato in Africa.

D. Circa mezza tonnellata di spaghetti, maccheroni e fagioli secchi.

E. Circa 20 casse di latte svizzero condensato.

F. 400 libbre di zucchero.

G. Grandi quantità di salami, caviale e paté de foie gras.

H. Sufficiente vino, brandy, Scotch whiskey e vodka per mandar giù quanto sopra.

Più tardi ho scoperto che il signor Lauro era stato ulteriormente scomodato per aver avuto requisita la villa di sua moglie dal Magg. Ridgeway Knight per uso del Comandante Generale dell’82a A/B [Airborne: aerotrasportata].

Poiché il cibo era scarso a Napoli i miei volontari e reclute italiani hanno cenato questa notte con corneed beef americano, prosciutto, formaggio e salame, tagliati a lume di candele con pugnali fascisti e baionette italiane. L’effetto sul morale delle nostre reclute antifasciste è stato poco meno che magico»5.

Ma agli ufficiali alleati di orientamento “progressista” se ne contrapponevano almeno altrettanti schierati su posizioni conservatrici se non francamente reazionarie o che mostravano uno scarso interesse a promuovere il rinnovamento morale, politico e sociale dell’Italia.

Basti ricordare a questo proposito gli stretti rapporti instaurati dal primo responsabile dell’AMG della Region 3 (Campania), col. Hume, con gli esponenti dell’aristocrazia e dell’alta borghesia napoletana; i contatti stabiliti dai responsabili dell’Economics & Supply Division e della Finance Division dell’AMG con i principali imprenditori e uomini d’affari napoletani, anche quando risultavano pesantemente coinvolti col regime fascista (intervenendo a loro favore persino quando, come nel caso del direttore del Banco di Napoli Frignani, del presidente della “Cirio” Signorini e dell’agente marittimo De Luca, erano stati arrestati dagli organi di sicurezza alleati), o. per finire, l’aperta ostilità dimostrata da ufficiali come il maggiore Simpson nei confronti dei Comitati di Liberazione Nazionale.

Ma la principale difficoltà a creare un’ampia base di consenso tra i napoletani al progetto dei responsabili più avanzati dell’AMG di «insegnare la democrazia» derivava dall’acuta crisi economica in cui erano ancora costretti a vivere e dalla limitata consistenza degli aiuti forniti alla popolazione dagli Alleati.


Vi erano in realtà seri motivi pratici alla base del rifiuto degli anglo-americani di fornire maggiori aiuti agli italiani: le previsioni sulla capacità produttiva dell’agricoltura dell’Italia Liberata che si erano rivelate troppo ottimiste, la farraginosa struttura messa in piedi dai Comandi Alleati per organizzare i rifornimenti di viveri per i civili, e, soprattutto, la scarsa disponibilità di naviglio per poter trasportare le derrate alimentari destinate ai civili, perché le Marine anglo-americane erano totalmente impegnate a sostenere le unità militari impiegate nei vari fronti di guerra e a preparare l’invasione della Francia dalla Manica.

Tutte le risorse logistiche degli Alleati furono comunque chiamate ad affrontare la situazione di assoluta emergenza determinata già nell’autunno del 1943 dall’imprevista e drammatica crisi alimentare che aveva colpito l’intera Italia Liberata, tanto grave da far temere un’esplosione di sommosse e di rivolte popolari, che potevano compromettere il mantenimento dell’ordine nelle retrovie e la stessa sicurezza delle Armate.

Gli Alleati, anzi, già si erano trovati ad affrontare in Sicilia una situazione critica sin dalle prime fasi dell’occupazione. Quando furono occupate Palermo e Trapani, poterono infatti essere forniti solo 150 g. di pane e quando fu conquistata Messina, nella terza settimana di agosto, la razione assicurata in quella città raggiunse a stento i 100 grammi6, così che si diffuse rapidamente tra i siciliani un sentimento di disincanto verso gli occupanti, tanto maggiore quanto più forti erano state le aspettative sollevate dalla stessa propaganda alleata.

All’inizio, infatti, gli anglo-americani erano stati salutati con genuino entusiasmo dalla popolazione7, anche per la convinzione che il loro arrivo avrebbe segnato l’avvento in Sicilia del regno dell’abbondanza e che cioè «la guerra fosse finalmente finita col raggiungimento di quel benessere sociale da tanto tempo agognato»8, come confermavano le lettere esaminate dalla censura anglo-americana, che contenevano frasi di questo genere:

«Non ti preoccupare per noi, siamo già diventati americani, siamo contentissimi, perché ci trattano bene. Sono quasi tutti figli di siciliani e italiani, e quando parlano si fanno capire bene.


Siamo stati liberati dagli americani e sono molto gentili e generosi. Non avevo pensato che le cose sarebbero andate così. Ho quasi pensato di star vivendo in un mondo nuovo, del tutto diverso da quello dell’odiato Mussolini. Ci era stato detto che se gli americani fossero sbarcati ci avrebbero trattati male tutti, specie le donne. Al contrario, si sono comportati meglio degli stessi siciliani»9.


Ma già l’8 agosto Lord Rennell doveva lamentare un «sostanziale cambiamento nello spirito pubblico» nell’Isola, perché i siciliani avevano compreso che l’arrivo degli Alleati non aveva «significato il regno dell’abbondanza» e perciò avevano abbandonato l’«atteggiamento di cani bastonati e di cuccioli scodinzolanti» e di «servilismo», adottato immediatamente dopo lo sbarco, per cominciare invece «a chiedere e, nei più grandi centri, a pretendere» 10, e qualche settimana dopo doveva segnalare che «il fallimento degli Alleati nell’assicurare il regno dell’abbondanza» e nel rispettare «le promesse fatte per radio di viveri e di merci per i paesi occupati» stavano determinando un serio malumore e prevedeva sempre più numerose lagnanze «per molti mesi», del tutto «giustificabili in quanto noi non abbiamo tenuto fede alla nostra propaganda»11.

In questo stesso rapporto, anzi, Rennell doveva anche registrare con allarme la rapida crescita dell’organizzazione e della propaganda comunista soprattutto tra i solfatari rimasti disoccupati per la chiusura delle miniere, segnalando che «vi è un considerevole elemento potenziale di comunismo proletario o anarchismo in queste comunità che potrebbe esplodere in disordini e violenze»12.

Ma, nonostante le segnalazioni allarmate dei responsabili dell’AMGOT [Allied Military Government of Occupied Territory: primo nome dell’AMG], la mancanza di scorte di farina costrinse le autorità alleate a ridurre ulteriormente le razioni e così la crescente carenza di viveri, la conseguente fortissima ascesa del costo della vita e il divario ormai incolmabile tra i salari e i prezzi dei generi di prima necessità, insieme al crollo dell’occupazione di manodopera per la semi-paralisi dell’industria, provocarono un’ondata di manifestazioni e di scioperi in tutta l’Isola, che culminò nella strage di Palermo del 19 ottobre, quando le truppe italiane aprirono il fuoco contro la folla che manifestava davanti al Municipio e al palazzo della Prefettura, uccidendo 14 dimostranti13.

Una situazione altrettanto critica si registrò anche nei territori del Mezzogiorno conquistati dopo gli sbarchi delle Armate alleate in Calabria e a Salerno, soprattutto per assicurare adeguati rifornimenti alla popolazione concentrata nei grandi centri urbani meridionali, a quella napoletana in primo luogo, la cui alimentazione era stata assicurata sino all’8 settembre dai cereali forniti dai grandi centri agricoli del Centro-Nord.

Nel mese di novembre la situazione apparve così grave da spingere le autorità alleate ad adottare misure d’assoluta emergenza, come la requisizione della quota di cereali destinata all’alimentazione delle famiglie degli agricoltori e perciò esentata dall’obbligo di conferimento agli ammassi, e persino del grano trattenuto come semenza per i futuri raccolti, per garantire un minimo funzionamento del sistema del razionamento. Nel dicembre, infine, la situazione sembrò precipitare in tutta l’Italia Liberata, e soprattutto a Napoli e a Salerno, dove la popolazione era letteralmente ridotta alla fame14. A Napoli, in particolare, la situazione appariva assolutamente drammatica, perché il grosso della popolazione per nutrirsi poteva fare affidamento solo sul razionamento, che, dopo le prime occasionali distribuzioni di pane per la popolazione, era stato ripristinato solo il 21 ottobre dagli alleati, con una certa regolarità, ma per appena 100 grammi di pane pro capite.

Le stesse autorità alleate si mostravano seriamente preoccupate per la gravità della crisi alimentare, soprattutto per i rischi sanitari che questa comportava, come doveva segnalare con allarme il responsabile della Public Health della Region 3 [Campania] nel rapporto mensile per il dicembre 1943.

«La denutrizione è diffusa nelle aree urbane – affermava il col. Crichton -. Oltre i casi limite di persone moribonde per il freddo e la fame, è stato possibile accertare attraverso gli ospedali civili che la sofferenza è stata acuta durante il mese scorso a causa della mancanza di adeguate forniture alimentari. Non sono stati diagnosticati al momento casi di avitaminosi ma l’aspetto smunto e miserabile della popolazione più povera fornisce una chiara prova della denutrizione anche ad un profano.

[...] La crisi alimentare durante dicembre è stata grave e dalla fine del mese, quando ogni riserva si è esaurita, è diventata acuta rivelandosi un importante fattore per la diffusione del tifo e delle VD [venereal diseases]. Per motivi che questa Division non è in grado di giudicare, la popolazione ha potuto ottenere solo [...] 125 g. di pane e 1/2 Kg di pasta. L’olio, un elemento indispensabile dell’alimentazione italiana, è introvabile [...], il prezzo al «mercato nero» è di 200 lire al litro [...].

I prezzi degli altri generi essenziali al “mercato nero” sono della stessa proibitiva natura e la vita sta diventando un incubo in molte case della prolifica popolazione italiana. I fagioli disdegnati da generazioni da tutti tranne che dalle classi più umili sono ascesi al rango di prelibatezza che può essere ottenuta solo dai benestanti a 150 lire al chilo, in confronto alla sola lira, o anche meno, dei tempi normali. Non è compito di questa Division discutere gli effetti politici che questa crisi sta determinando e probabilmente provocherà, ma è necessario mettere in evidenza la serietà della situazione da un punto di vista medico»15.


Per Adlai Stevenson, futuro candidato alla Presidenza americana, allora in missione nell’Italia Liberata per la Foreign Economic Administration, una gran parte della popolazione della città, per una percentuale compresa tra il 40 e l’80% del totale, stava letteralmente soffrendo d’inedia e la denutrizione indeboliva sensibilmente la resistenza dei napoletani alla diffusione delle malattie16.

E’ il caso di mettere in evidenza che queste valutazioni non risultano affatto esagerate, perché in quel periodo si registrarono effettivamente a Napoli diversi casi di morte per fame17.

L’insufficienza dei rifornimenti alleati, la difficoltà di portare nelle città i prodotti dei principali centri di produzione granaria del Sud, per la crisi dei trasporti interni, che aveva frantumato l’economia dell’Italia Liberata in un arcipelago di isole chiuse, di dimensione per lo più provinciale, rigidamente separate le une dalle altre, ed, infine, il collasso del sistema del razionamento e degli ammassi, ebbero come inevitabile conseguenza una brusca impennata del costo della vita e un’impressionante crescita del mercato nero, diventato come mai per il passato determinante per assicurare la sopravvivenza fisica della popolazione.

L’impennata dell’inflazione era anche favorita dal severo tasso di cambio della lira (100 lire per un dollaro e 400 per una sterlina) imposto dagli Alleati, ed anche più dall’incontrollata circolazione di am-lire, la moneta di occupazione utilizzata dagli alleati, calcolata in 10 miliardi alla fine del 1943 e oltre 20 alla fine dell’aprile 194418, per un volume equivalente all’intera massa di carta moneta in circolazione nel Sud prima dell’arrivo degli alleati, con un effetto inflazionistico devastante perché incideva su un mercato asfittico per l’estrema carenza anche dei generi più essenziali.

Altro serio motivo di malumore per la popolazione era dato dalla pratica indiscriminata seguita dagli Alleati, soprattutto a Foggia e a Napoli, di requisire edifici pubblici ma anche e soprattutto appartamenti privati per alloggiare i propri soldati e ufficiali.

L’occupazione alleata non sembrava più neppure garantire del tutto la popolazione dai pericoli della guerra, come avevano dimostrato i raid aerei tedeschi su Napoli del 21 e 23 ottobre e del 1° novembre, e la micidiale incursione sul porto di Bari nella notte tra il 1° e il 2 dicembre, che provocò l’affondamento di ben 17 navi alleate e circa 1.000 vittime fra i civili19.


Ma era soprattutto il clima di violenza provocato dal comportamento di molti militari alleati a provocare la maggiore delusione tra gli italiani. Le segnalazioni dei CCRR e i rapporti dell’AMG erano infatti concordi nel descrivere con preoccupazione la propensione alla violenza largamente presente tra i soldati alleati in tutta l’Italia Liberata, più che testimoniata dai dati ufficiali sui crimini da questi commessi in Italia dall’8 settembre 1943 al 31 dicembre 1946: 547 omicidi, 1.905 ferimenti, 2.293 aggressioni e risse, 7.662 rapine e furti, 1.157 violenze carnali consumate e 290 tentate20. La situazione era particolarmente grave nelle zone rurali dell’interno, per i frequenti assalti ai cascinali da parte dei soldati, nelle campagne di Campobasso, come in Irpinia, nel Beneventano o nel Foggiano21. Il clima di paura e di violenza diffuso nelle campagne era, inoltre, destinato ad aggravarsi con l’arrivo delle truppe coloniali del Corpo di spedizione francese in Italia, per la frequenza dei casi di violenza e di stupri compiuti dai «marocchini» (ma in quei reparti erano presenti anche algerini e tunisini) ai danni della popolazione civile.

Non meno grave era poi la situazione dell’ordine pubblico a Napoli, nonostante il controllo esercitato dalla Military Police e dalle forze di polizia locale, per le maggiori possibilità di incidenti determinate dalla massiccia, permanente presenza di truppe in città. Fino a tutto il maggio 1944, Napoli costituì il principale centro d’attrazione e d’intrattenimento per i militari alleati impegnati sulla linea del fronte, che distava solo poche decine di chilometri dalla città. Ed anche quando finalmente fu travolta la linea Gustav aggirando le posizioni tedesche a Cassino, e le armate alleate poterono finalmente avanzare, liberando Roma e poi dilagando verso Nord, almeno fin quando non furono nuovamente fermate dai tedeschi sulla linea Gotica, continuarono a stazionare nella città diverse migliaia di soldati alleati, fino alla fine della guerra, perché Napoli costituiva ancora la principale base logistica alleata nel Mediterraneo per l’intenso flusso di rifornimenti per le armate anglo-americane che costantemente passava per il suo porto e per il gran numero di caserme, magazzini, officine e depositi alleati, disseminati in città e nell’immediato circondario.

Le forze di polizia alleate ed italiane dovevano perciò registrare un numero impressionante di atti di violenza o di libidine e di risse con i civili e, soprattutto, un impressionante stillicidio di furti e di rapine a mano armata nelle strade, nelle case, nei negozi, che avevano per protagonisti militari alleati, per lo più in evidente stato di ubriachezza, per non parlare dei frequenti abusi da loro commessi nelle requisizioni di autoveicoli e di proprietà dei civili, così come della loro larga partecipazione ai traffici illegali di sigarette, di viveri, di benzina e di merci e strumenti di ogni tipo destinati alle unità alleate e dirottati invece al «mercato nero»22. Era tanto alto il numero di incidenti provocato dai militari che i responsabili della Police Section della città di Napoli, col. Doherty, e della Public Safety per la Region 3, col. Francis, avevano dovuto definire francamente «pessimo» il comportamento delle truppe, soprattutto di quelle americane23.

La violenza dei rapporti tra soldati e popolazione e la difficoltà a distinguere tra «liberatori» e «occupanti» si erano manifestate sin dai primissimi giorni dell’occupazione per il comportamento mantenuto da molti militari alleati verso le donne, in particolare per la brutalità spesso dimostrata verso le donne costrette a prostituirsi per la fame. Si può ricordare a questo proposito la cruda descrizione fatta da Lewis di un caso di commercio carnale al quale aveva assistito il 4 ottobre, in un municipio a qualche chilometro da Napoli, “in uno stanzone in cui si accalcava una soldataglia tumultuante”:

«Quelli che stavano in fondo spintonavano per avanzare, incitando sguaiatamente gli altri; ma se si raggiungeva il fronte della folla, l’atmosfera si faceva più calma e assorta. Le signore sedevano in fila, a intervalli di circa un metro l’una dall’altra, con la schiena appoggiata al muro. Vestite con gli abiti di tutti i giorni, queste donne avevano facce comuni, pulite e perbene di massaie, di popolane che vedi in giro a spettegolare o fare la spesa. Di fianco a ognuna era appoggiata una pila di scatolette [di generi alimentari], ed era evidente subito che aggiungendone un’altra si poteva far l’amore con una qualsiasi di loro, lì, davanti a tutti. Le donne rimanevano assolutamente immobili, in silenzio, e i loro volti erano privi d’espressione, come scolpiti. Potevano star vendendo pesce, non fosse che a quel luogo mancava l’animazione di un mercato del pesce. Non un incoraggiamento, non un ammicco, niente di provocante, neppure la più discreta e casuale esibizione di nudità. I più animosi, con le scatolette in mano, si erano fatti avanti fino alla prima fila, ma ora, di fronte a quelle madri di famiglia, donne coi piedi per terra spinte fin lì dalle dispense vuote, sembravano esitare. Ancora una volta, la realtà aveva tradito il sogno, e l’atmosfera si stava facendo greve. Qualche risolino imbarazzato, qualche battuta caduta nel vuoto, e la visibile tentazione di ritirarsi in buon ordine. Alla fine un soldato un pò alticcio, istigato di continuo dagli amici, ha deposto la sua scatola con la razione vicino a una donna, si è sbottonato e si è chinato su di lei. Un movimento meccanico delle anche, ed è subito finito tutto. Un attimo dopo il soldato era di nuovo in piedi e si riabbottonava. Era stata una faccenda da sbrigare nel più breve tempo possibile. Si sarebbe detto che il soldato, più che fare l’amore, si fosse sottoposto a una punizione da campo»24.

Gli Alleati, inoltre, si erano impegnati a rimettere immediatamente in funzione il porto e a ristabilire i servizi essenziali, ma non avevano neppure tentato di avviare l’opera di ricostruzione dell’industria napoletana – la terza in Italia nell’anteguerra, dopo quella torinese e quella milanese, per capacità produttiva e forza motrice impiegata -, prostrata dai continui bombardamenti subiti durante tutta la guerra e dalla sistematica opera di sabotaggio e di distruzioni attuata dai tedeschi all’indomani dell’8 settembre.

Napoli era dunque una città ancora largamente dominata dalla fame, ricacciata indietro di decenni nella sua capacità di produrre beni e servizi, sottoposta alle brutalità che inevitabilmente si accompagnano ad ogni tipo d’occupazione militare, priva di qualsiasi prospettiva e di qualsiasi speranza per l’immediato futuro. E’ perciò pienamente comprensibile che un osservatore americano sia giunto ad affermare che nell’inverno 1943-44 Napoli “era probabilmente la città peggio governata del mondo occidentale”25.

Quello che più colpiva gli osservatori, le autorità locali e gli organi di polizia, più ancora della condizione di miseria cui era ridotta gran parte della popolazione urbana meridionale, era il degrado morale che a questa si accompagnava, in particolare per l’estensione del fenomeno della prostituzione occasionale, che a Napoli, aveva raggiunto dimensioni realmente impressionanti, tanto che il PWB [Psychological Warfare Branch] sarebbe giunto a stimare addirittura in 42.000 il numero di prostitute presenti in città, cioè più di un quarto dell’intera popolazione femminile nubile locale26.

L’immagine della plebe napoletana diposta a vendere anche la propria umiliazione e depravazione pur di sopravvivere, che tanta fortuna letteraria ha avuto per le opere di Curzio Malaparte27 e Norman Lewis, trova conferma anche in tante testimonianze sulla Napoli di quel periodo, che appariva una città sofferente, disperata, in preda al collasso economico e morale ma ancora capace di sprazzi di sorprendente vitalità.

Come per Malaparte, anche per il regista John Huston, allora capitano in servizio presso il Signal Corps per girare documentari di propaganda, la disperazione e l’abbrutimento della Napoli di quei mesi offriva abbondante materiale per immagini letterarie a forti tinte. Come avrebbe raccontato il regista nel suo libro di memorie,

«Napoli era come una puttana malmenata da un bruto: denti spezzati, occhi neri, naso rotto, puzza di sporcizia e di vomito. Mancava il sapone, e persino le gambe nude delle ragazze erano sporche. Le sigarette erano la merce di scambio comunemente impiegata, e per un pacchetto si poteva avere qualsiasi cosa. I bambini offrivano sorelle e madri in vendita. Di notte, durante l’oscuramento, dalle case sbucavano a frotte i topi e se ne stavano semplicemente lì, a guardarti con gli occhi rossi, senza muoversi. Si camminava evitandoli. Salivano vapori su dai vicoli, lungo i quali c’erano locali che mettevano in scena atti «carnali» fra degli animali e dei bambini. Gli uomini e le donne di Napoli erano un popolo diseredato, affamato, disperato, disposto a fare assolutamente tutto per sopravvivere. L’anima della gente era stata stuprata. Era veramente una città senza dio»28.

Più sinteticamente, il giornalista Moorehead avrebbe ricordato:

«La fame dominava su tutto [...] Di fatto stavamo assistendo al crollo morale di un popolo. Non avevano più nessun orgoglio, né dignità. La lotta bestiale per la sopravvivenza dominava su tutto. Il cibo era l’unica cosa che importava: cibo per i bambini, cibo per se stessi, cibo a costo di qualsiasi abiezione e depravazione. E dopo il cibo un pò di caldo e un riparo»29.

Una condanna anche più severa della corruzione morale del «popolino», accusato di essersi subito adattato alle nuove condizioni, senza farsi alcuno scrupolo, era espressa dai rapporti trasmessi in quei giorni dalle autorità locali e dalle forze dell’ordine, che, del resto, riflettevano le posizioni e i pregiudizi dei ceti medi. Un rapporto dei Carabinieri da Napoli, del 14 novembre, ad esempio, segnalava:

«La disonestà dilaga in circostanze simili. Il contrabbando ed il mercato nero su cui ogni controllo è venuto meno sono divenuti normale risorsa di una grande quantità di persone. La miseria alimenta la prostituzione e non è infrequente lo spettacolo ripugnante di donne italiane a braccetto di soldati negri [sottolineato nel testo] nelle strade della città»30.

A conclusioni apparentemente analoghe giungevano anche le relazioni trasmesse in quei giorni dagli osservatori del PCI al Centro del partito, nelle quali però l’insistenza sugli effetti della paralisi industriale, della diffusione del mercato nero, del generale degrado morale della città, rivelava soprattutto la preoccupazione dei comunisti per il rischio che venisse disperso e riassorbito nella tradizionale plebe il nucleo ancora fragile di proletariato industriale napoletano. In un rapporto del dicembre, ad esempio, si segnalava:

«Per le vie di Napoli era tutto un contrattare fra italiani, scugnizzi, negri, americani, inglesi ecc. Si vedeva abbastanza evidentemente che questo popolo era sceso al gradino infimo della propria dignità. Nessuna meraviglia quindi ne sortiva quando veniva fermato un qualche soldato anglo-americano e richiesto di procurargli «vino» o «signorine»: nessuna meraviglia se essi vedevano in ciascuno di noi un ruffiano e un contrabbandiere.

Il popolo non capiva più niente ormai. Stordito dalla fame, dopo di esserlo stato dai bombardamenti, sbalordito per la ricchezza dei nuovi arrivati, non si interessava ormai più che a risolvere ognuno per proprio conto l’arduo problema giornaliero: se ora si pensa alla moralità cui il fascismo aveva educato il popolo, e alla modalità alleata, o diciamo delle truppe alleate, in un paese vinto, non è difficile raffigurarsi il quadro risultante. Se non si scende a particolari, riesce difficile per chi è abituato ai rapporti fra italiani e tedeschi farsi un quadro della situazione»31.

E, in una relazione interna, trasmessa alla fine del 1943, un dirigente comunista da poco tornato dall’esilio, Velio Spano, scriveva:

«A Napoli, nessuno lavora salvo gli innumerevoli piccoli rivenditori del mercato nero e le ancora più numerose prostitute. Mi si dice che la prostituzione ha preso delle proporzioni spaventose. [...] Le masse (si può parlare di masse nel senso che noi gli diamo?) sono scoraggiate, disilluse, facilmente ecitabili e eccitate ma troppo gravemente inerti [...] Ora la gente è passiva, e non ha alcuna voglia di battersi, di fare la guerra. Ci vorranno anni per ridare agli italiani del Sud una dignità di popolo. Oggi la loro caratteristica essenziale sembra essere la passività»32.

John Burns, nelle pagine del suo romanzo dedicate agli«scugnizzi» napoletani, ha invece mostrato comprensione e autentica pietas verso le reali sofferenze dei napoletani ed ha saputo descrivere con forza la situazione di abbandono e di disperazione della città, ma anche la sua capacità di reagire con un’estrema, quasi animalesca vitalità:

«Napoli è il più vasto vivaio di bambini del mondo. Appena fuori delle fasce, eccoli subito per la strada. Imparano a camminare ed a parlare nei rigagnoli. Molti sembrano viverci. Via via che il coprifuoco veniva spostato ad ora sempre più tarda, i bimbi di Napoli passavano le serate sui marciapiedi. Se dovesse rimanermi impressa nella memoria una sola immagine del caleidoscopio napoletano, sarebbe quella di un fratello e di una sorella di età inferiore ai dieci anni addormentati sul marciapiede nel sole, con un pezzo di pane nero rosicchiato accanto a loro [...]

Ricordo che tentai una volta di contare il numero degli «sciuscià» [- termine adottato per questi piccoli lustrascarpe per il loro continuo gridare «shoe-shine, shoe-shine?» -] tra Via Diaz e la galleria Umberto. Non vi riuscii perché nuove cassette di sciuscià si aprivano alle mie spalle prima che io avessi percorso dieci metri. Quegli incredibili scugnizzi! Non erano bambini, quegli scugnizzi, ma saggi, mesti, beffardi folletti. Vendevano Yank e Stars and Stripes [i giornali destinati ai soldati americani]. Si appiattavano fuori della mensa per comperare le mie razioni. Facevano i mezzani per le sorelle che mi spiavano dietro il balcone del primo piano. Vendevano amuleti e distintivi divisionali nelle strade. Si improvvisavano imbonitori di dolciumi che sembravano ciambelle o frittelle ma avevano il gusto della cartapesta arrostita. Rubavano tutto con una destrezza, una furberia ed una costanza che mi facevano pensare alle antiche favole arabe. Strillavano e si burlavano di me in perfetto americano, un americano che sembrava imparato da qualche marinaio che, sdraiato in un rigagnolo, imprecasse all’inferno per levarsi un peso dal cuore. I bambini di Napoli erano decisi a non morire, con quella determinazione con cui i fagociti fanno massa per combattere il virus che li ha invasi. Possedevano la vitalità dei dannati. E ridevano di me, di se stessi, del mondo intero. Spesso pensavo che noi, l’esercito conquistatore, eravamo più deboli e sciocchi di loro. Amavo gli scugnizzi perché non mi facevo alcuna illusione sul conto loro»33.

Con l’aggravarsi della crisi economica, il malessere della popolazione era comunque diventato così acuto da far temere alle autorità italiane la possibilità di rivolte popolari istigate dai comunisti: il 24 ottobre, ad esempio, i Carabinieri di Napoli avevano avanzato «fosche previsioni» e il giorno dopo erano giunti a sostenere che la situazione «assurda, insostenibile, soprattutto pericolosa» in cui si trovava la popolazione e «l’enorme delusione» del «volgo profano» per lo scarso impegno alleato a favorire la ripresa economica rendevano concreto persino il pericolo del comunismo34.

Lo stato di malessere dei lavoratori non dipendeva però dalla propaganda comunista, ma, come riconoscevano anche molti ufficiali alleati, dalle condizioni di vita realmente insostenibili che dovevano continuare a sopportare.

L’8 gennaio 1944 il contrammiraglio Morse, responsabile della Royal Navy a Napoli (che impiegava circa 2.000 civili), si era rivolto allo stesso nuovo Comandante in Capo per il teatro di guerra mediterraneo, «Jumbo» Wilson (che proprio quel giorno era subentrato in quell’incarico ad Eisenhower), sostenendo che «il problema di nutrire adeguatamente la sua famiglia (e le famiglie in Italia raggiungono dimensioni vittoriane)[era] quasi insolubile per ogni dipendente o lavoratore in appalto con una paga che varia[va] dalle 50 alle 120 lire al giorno» e che era perciò «solo naturale che gli italiani paragon[assero] il trattamento loro riservato ora con quello ricevuto sotto il giogo tedesco e il confronto non sempre [era] favorevole agli Alleati», ed aveva poi denunciato in un successivo rapporto che anche i dipendenti con le qualifiche più alte «che normalmente dovrebbero disprezzare un tale comportamento accetta[va]no di rischiare il licenziamento e il carcere per rubare due o tre patate o qualche altro piccolo quantitativo di cibo» e che perciò «nessuno che lavor[asse] vicino a generi alimentari [poteva] essere ritenuto fidato» 35. Di certo, la situazione era tanto grave da spingere il responsabile dell’AMG della Region 3, col. Hume, ad esprimere piena approvazione per la decisione del Comando Militare Alleato di Napoli di non perseguire più i civili trovati in possesso di poche scatolette di cibo destinate ai militari, perché la fame era tanto diffusa che neppure l’arresto e la condanna alla carcerazione potevano servire da deterrente per questi piccoli furti 36.

Nonostante le segnalazioni allarmate delle autorità alleate, le condizioni di vita dei napoletani continuavano ad essere del tutto critiche. I responsabili della Labor Division dovevano perciò continuare a denunciare che i lavoratori potevano sopravvivere solo dedicandosi al mercato nero, oppure rubando sul posto di lavoro, oppure, ancora, privandosi di tutte le proprietà familiari e di tutti gli effetti personali semplicemente per procurarsi «pane, patate e forse fagioli»37. Dovevano anche continuare a segnalare più volte con allarme la materiale incapacità dei lavoratori di sostenere prolungati e pesanti sforzi per lo stato permanente di spossatezza fisica cui erano condannati, a causa delle troppo scarse razioni alimentari e dei troppo bassi salari. Ancora il 5 aprile, ad esempio, il nuovo responsabile della Labor Section della Region 3, il cap. Williams, doveva denunciare:

«Stanno vendendo tutti i loro beni personali, mobili e anche vestiti per compensare i salari inadeguati nell’acquisto di viveri per le loro famiglie e per se stessi [...].

L’attuale impossibilità del lavoratore di aiutare se stesso e la sua famiglia col potere d’acquisto del suo salario è stata manifestata vivamente nei ripetuti casi d’incapacità fisica dei lavoratori di svolgere lavori pesanti.

Nel caso della riparazione di un albergo, richiedendo il lavoro specifico il trasporto di pesanti mattoni per diverse rampe di scale, gli uomini inviati dal nostro servizio di collocamento hanno tentato il lavoro ma non sono stati fisicamente in grado di svolgerlo. [...] Si sono avuti casi di lavoratori svenuti in questo ufficio mentre attendevano di essere chiamati al lavoro»38.

Per evitare che si creasse una situazione incontrollabile nei territori liberati, gli alleati avevano allora varato il 3 gennaio 1944 un nuovo programma di aiuti, che avrebbe dovuto garantire, per sei mesi, alla popolazione dell’Italia Liberata una razione giornaliera pro capite di 1500 calorie, di cui1.006 (l’apporto calorico fornito da una razione di 292,3 grammi di pane) assicurate dagli stock accumulati in Nord Africa dagli Alleati) e le altre dalle risorse locali39.

Con l’invio di maggiori rifornimenti in Italia fu possibile portare la razione, dal 7 febbraio, a 200 g. di pane e a fornire piccole quote periodiche di altri generi alimentari, per lo più cibi in scatola o ridotti in polvere, ma non fu raggiunto per diversi mesi ancora neppure l’obiettivo delle 1.006 calorie pro capite che avrebbe dovuto essere assicurato dai soli rifornimenti alleati.

A Napoli, le calorie pro capite assicurate dal razionamento passarono semplicemente da 478 nel dicembre 1943 a 620 nel marzo 194440, così che le razioni concesse durante l’occupazione alleata, almeno fino al luglio 1944, risultarono largamente inferiori a quelle già misere in vigore a Napoli fino al giugno 194341.

In una tale situazione continuava a risultare inevitabile il ricorso al mercato nero, che raggiunse perciò in quei mesi dimensioni enormi, coinvolgendo nelle sue attività ampi strati della popolazione più povera. Una «moltitudine» umana42 faceva infatti quotidianamente la spola tra Napoli e le lontane province rurali delle Puglie, della Lucania e della Calabria, usando a volte i mezzi di trasporto disponibili, dai semplici carri trainati da animali, ai pochi camion ancora in circolazione, alle semplici biciclette, ma procedendo per lo più a piedi, come nel caso delle interminabili file di contadini che dall’area foggiana si dirigevano a piedi a Napoli, distante 168 Km, trasportando sulle spalle carichi di 20-25 Kg di grano43.

Al di là di singoli e occasionali casi di arricchimento personali, che colpivano l’opinione pubblica soprattutto per il loro carattere estremamente appariscente, al popolino urbano impegnato in questi traffici come semplice manovalanza o come terminali del circuito del mercato nero, andavano però solo le briciole degli ingenti guadagni assicurati dal commercio clandestino. I piccoli e medi contadini, a loro volta, pur lucrando sulla vendita diretta dei prodotti sottratti agli ammassi, finivano col disporre semplicemente di carta moneta che poteva essere utilizzata solo in parte, per la semiparalisi della produzione industriale, per acquistare beni e prodotti necessari per i loro cascinali e per il loro lavoro, e che perciò era destinata in gran parte ad essere erosa dall’inflazione.

I maggiori profitti del mercato nero erano perciò acquisiti dagli agrari, dai titolari di società di trasporti e di intermediazione, dagli armatori, e dagli stessi imprenditori, che disponevano dei capitali, delle competenze tecniche e delle reti di relazione necessarie per condurre con successo quel tipo di operazioni e per poter reinvestire continuamente i guadagni nelle attività che di volta in volta si fossero rivelate più lucrose.

Il mercato nero, dunque, contrariamente alla convinzione allora diffusa tra i ceti medi, ripresa anche in opere letterarie come la Napoli milionaria di De Filippo, non aveva affatto favorito un qualche ribaltamento nei tradizionali rapporti tra i gruppi sociali, ed, anzi, determinando un’impennata del costo della vita, aveva contribuito ad aggravare ulteriormente le condizioni di vita degli strati più poveri della popolazione.

Le condizioni di vita della popolazione napoletana erano ulteriormente e pesantemente aggravate dalla permanente presenza in città, per tutta la durata della guerra, di migliaia e migliaia di militari alleati. L’elevatissima capacità di spesa di cui disponevano questi militari entrava infatti in concorrenza col debole potere d’acquisto dei civili, contribuendo a sottrarre una quota non indifferente dei pochi prodotti disponibili al consumo della popolazione e trascinando sempre più verso l’alto i prezzi. Dal momento che le normali paghe dei militari alleati, in dollari o in sterline, erano già molto alte per i livelli salariali medi degli italiani, che il loro potere d’acquisto era moltiplicato dal tasso di cambio di 100 lire per un dollaro e di 400 per una sterlina e che, infine, potevano essere convertite in am-lire, un soldato semplice americano finiva col ricevere una paga in dollari equivalente a 6.000 lire al mese, almeno pari in pratica allo stipendio di un alto funzionario italiano; un sergente era pagato per l’equivalente di 11.000 lire; un tenente di 27.000; tra gli inglesi, inoltre, un capitano riceveva in sterline l’equivalente di 26.000 lire mensili e un maggiore di 38.000. Inoltre, la principale causa di inflazione nell’Italia Liberata, e cioè l’incontrollata circolazione delle am-lire, era determinata per il 75% dalle paghe dei militari e solo per il 25% dalle spese sostenute con i civili44.


L’atmosfera già tetra dell’Italia Liberata era stata, inoltre, ulteriormente incupita dall’improvvisa, dura incursione aerea della Luftwaffe su Napoli nella notte tra il 14 e il 15 marzo, che aveva provocato oltre 300 morti tra i civili e numerose vittime tra gli stessi soldati alleati, e dall’improvvisa e spettacolare eruzione del Vesuvio, iniziata il 18 marzo e destinata a durare fino al 30, che costrinse ad evacuare diversi comuni della fascia vesuviana. Né le notizie dal fronte contribuivano a rasserenare gli animi. Si era infatti conclusa con un nulla di fatto anche la «terza battaglia di Cassino», iniziata il 15 marzo, perché, nonostante il massicio impiego delle forze corazzate e il sostegno fornito dall’aviazione, i reparti neozelandesi e indiani riuscirono solo ad aprirsi faticosamente la strada tra le linee tedesche, senza però impadronirsi della cerniera di Cassino.

Continuavano, inoltre, ad essere difficili i rapporti tra la popolazione e i militari delle Nazioni Unite, che per lo più si presentavano e agivano da «liberatori», ma che molto spesso si comportavano nei confronti degli italiani come puri e semplici «occupanti». Continuava infatti lo stillicidio di aggressioni, di furti e di rapine da parte dei militari alleati ed era ancora particolarmente vistoso il loro coinvolgimento nelle attività di contrabbando, grazie agli stretti rapporti intrecciati con elementi locali che organizzavano i traffici del mercato nero.

Nei piccoli comuni interni del Napoletano, infine, la popolazione era ancora sottoposta a continue rapine da parte dei militari alleati ed era traumatizzata dai numerosi stupri di donne e di fanciulle da parte dei «marocchini», con esperienze traumatizzanti e dalle conseguenze devastanti per le vittime, come testimoniato dalla richiesta d’aiuto finanziario presentata il 27 maggio 1944 al Comando dell’AMG di Napoli per conto di una donna di Albanova, la cui figlia dodicenne era stata violentata da soldati delle truppe coloniali francesi:

«La sottoscritta col segno di croce firmata perché analfabeta [...], mossa dalle sue miserevoli condizioni economiche, si permette di rappresentare a codesto Comando quanto appresso: La sera del decorso 4 marzo due o tre soldati Marocchini, di stanza ad Albanova e non potuti identificare per l’oscurità, le sottrassero dalla propria abitazione la sua bambina [...], deflorandola e poscia abbandonandola in un campo nei pressi della locale stazione ferroviaria.

La minore, al mattino successivo, visitata dal medico condotto [...], fu dichiarata deflorata con ferita lacero a tutta la regione perineale e fu fatta ricoverare nell’Ospedale della SS. Trinità dei Pellegrini di Napoli, ove venne trasportata con automezzo privato, sottoposta ad atto operatorio per ferita lacero nella regione vulvo-vagino-perineo-sessale e dimessa il 27 detto.

La malcapitata, però, dovrà subire il secondo ricovero nel predetto Ospedale e conseguentemente, l’esponente, dovrà affrontare le nuove non indifferenti spese, senza tacere che deve provvedere al necessario sostentamento di altri due piccoli e che suo marito [...], soldato tuttora in servizio militare non dà notizie fin dall’agosto 1943.

Pertanto, la ricorrente, confida che la presente venga presa in benevola considerazione, al fine di elargirle un soccorso pecuniario per appianare almeno le spese sostenute e ancora da sostenere nella misura di oltre lire diecimila.

Unisce il relativo certificato medico45.

Queste persistenti difficoltà nei rapporti tra «liberati» e «liberatori» spiegano perché abbiano trovato scarso consenso i programmi «politici» portati avanti, nella primavera del 1944, da personaggi come il nuovo «governatore» di Napoli, Charles Poletti e sia sostanzialmente fallito l’ambizioso progetto di fare dell’AMG lo strumento dell’«educazione alla democrazia» per gli italiani.


La tenuta del regime d’occupazione alleata risultava però ancora relativamente salda, nonostante la gravità della crisi economica e sociale, in primo luogo perché per la popolazione la presenza stessa degli alleati forniva la sicurezza che la guerra era veramente finita. Mentre poi i contadini potevano ribellarsi ai prelievi dei loro prodotti realizzati dallo Stato col sistema degli ammassi, gli abitanti dei grandi centri urbani potevano esprimere malumore per l’assoluta insufficienza delle razioni alimentari, ma erano anche perfettamente consapevoli che le loro stesse possibilità di sopravvivenza erano comunque affidate solo ai rifornimenti assicurati dagli Alleati.

A favore del regime di occupazione giocava poi la diffusa rete di dipendenze che si era sviluppata, soprattutto a Napoli, con gli alleati, e che si basava sui servizi e sulle prestazioni di ogni genere, lecite e illecite, fornite dai civili ai singoli militari anglo-americani (servizi di lavanderia, ospitalità nelle proprie case in cambio di forniture di viveri e di merci, accordi per le attività del mercato nero, vendita di alcòlici, guide turistiche, fornitura di prestazioni sessuali) e, soprattutto, sulla larga domanda di manodopera locale richiesta dalle autorità anglo-americane per lo scarico delle merci nei porti, per la rimozione delle macerie dalle strade, per il funzionamento delle officine, dei depositi, dei magazzini e delle mense delle unità alleate (nella sola Campania risultavano ingaggiati dagli uffici di reclutamento alleati nel gennaio 1944 almeno 160.000 civili) 46.


Contava infine l’impatto tra alleati ricchi e «portatori di oggetti» e un Sud cronicamente «povero di cose», che portava a confrontare il «consumismo» degli occupanti con la generale indigenza dei civili, perennemente alle prese col problema di procurarsi cibo, forniti solo di vestiti sgualciti e consunti e di calzature ormai completamente logore, privi di medicinali, di mezzi di trasporto pubblici o privati e di qualsiasi genere di conforto. Aveva perciò ripreso rapidamente forza il mito dell’America, che portava da un lato a rinsaldare vecchi legami e solidarietà connessi alle precedenti ondate migratorie, anche grazie alla larga presenza di italo-americani tra le truppe alleate, e contribuiva dall’altro a diffondere la convinzione che solo l’America con le sue ricchezze poteva risolvere i problemi italiani.

E così, in una lettera da Napoli, del gennaio 1944, rilevata dalla censura alleata, si affermava:

«Spero che gli anglo-americani non se ne andranno mai via ma che gli apparterremo per sempre, perché hanno una concezione della vita differente da quella miserabile che abbiamo conosciuto finora»47.

I partiti antifascisti non avevano, inoltre, ancora superato la fase iniziale della ricostruzione - ma nel caso del Mezzogiorno sarebbe più esatto dire della costruzione - delle stesse strutture organizzative interne, ristabilendo i collegamenti tra i vari nuclei di militanti e tra questi e i centri dirigenti nazionali, ed erano, anzi, ancora impegnati a definire e presentare i propri programmi ideologici e politici. Non erano perciò in grado di mettere in discussione l’egemonia alleata nell’Italia Liberata e tanto meno di preparare una rivoluzione – che in ogni caso la componente moderata del CLN avrebbe avversato – perché lo stesso PCI era poco più che una dispersa galassia di piccoli gruppi di militanti che si riconoscevano genericamente nel movimento comunista internazionale, ma che erano rimasti sostanzialmente estranei alle vicende e all’evoluzione del partito per la lunga mancanza di collegamenti con il centro dirigente nazionale, così che gran parte delle sue energie erano impegnate in un difficile confronto interno, particolarmente travagliato in alcune realtà, come Catania, Salerno, e soprattutto Napoli, dove si giunse persino a dar vita a due distinte federazioni comuniste, tra la fine di ottobre e la fine di dicembre 1943, con la cosiddetta «scissione di Montesanto».


Anche gli aspetti ritenuti più negativi dell’occupazione alleata mantenevano pur sempre un valore duplice, o comunque implicavano almeno in parte un elemento positivo, così da presentarsi come scotti inevitabili da pagare per una sopravivenza comunque garantita dai soli alleati.

In un certo qual modo, come la polvere di piselli distribuita dagli americani disgustava profondamente i meridionali perché troppo difforme, per gusto, sapore e consistenza dalle loro abitudini alimentari, ma era pur sempre bene accetta perché contribuiva anch’essa ad assicurare l’apporto calorico indispensabile per la sopravvivenza, così anche le attività di contrabbando, la vendita lecita o clandestina di superalcolici e il vistoso fenomeno della prostituzione che si accompagnavano alla larga presenza di militari alleati, in qualche modo erano visti come modi sgradevoli ma non evitabili di procacciare reddito e con esso viveri per la popolazione.

Persino i rapporti con i soldati di colore americani acquistavano contemporaneamente un significato negativo e uno positivo, indissolubilmente intrecciati. Uno negativo, perché i «negri» erano pur sempre nell’immaginario collettivo quelle popolazioni arretrate e inferiori che gli italiani erano stati chiamati a «civilizzare» con le guerre coloniali, ed era perciò intollerabile per i benpensanti assistere allo spettacolo delle «signorine» che camminavano per le strade al loro braccio, così come era imbarazzante per le autorità militari italiane consentire che i soldati delle unità ausiliarie lavorassero alle dipendenze di sorveglianti neri. Ma anche uno positivo, perché i soldati neri, per il regime di sostanziale apartheid in vigore nell’esercito americano dell’epoca, erano soprattutto adibiti ai servizi logistici, alle mense e ai magazzini e potevano perciò agevolmente disporre di scatolette di carne, cioccolata o qualsiasi altro bene, da offrire o da contrattare, il che spiega il particolare favore con cui tanti soldati neri furono «adottati» dalle famiglie dei quartieri popolari di Napoli.

Il soldato nero era anche associato alla figura del cuoco delle mense americane e perciò restava collegato ai sapori e agli odori del pane bianco e dei pasti caldi offerti dalle unità americane alla popolazione, anche in chi continuava a nutrire pregiudizi razziali nei loro confronti, come appare evidente da un brano del diario di Elena Canino, che esprimeva un malcelato razzismo nei confronti dei «negri» ma che, nello stesso tempo, rivelava quanto profondamente la loro presenza fosse associata al cibo, al buon cibo assicurato dagli americani, perché la scena descritta suscitava nella stessa Canino «orrore e pietà», ma anche «appetito», e non certo «disgusto»:

«L’Arenella [quartiere allora periferico della zona alta di Napoli] è sbarrata in tutta la sua larghezza dagli accampamenti dagli accampamenti dei negri. Intorno alle reti del recinto si pigiava gente di ogni condizione ed età e chiedeva cibo. Il cuoco aveva davanti a sé un asse carico di pagnotte rigonfie, dorate. Benedetta, dimenticata vista del pane. L’uomo traeva dalla pentola un ramaiolo, di fagioli e carne, prendeva una pagnotta, la spaccava, l’imbottiva, si dava una leccata alle mani, e, uno alla volta, contentava i postulanti: «Ecco guà». La faccia lustra e nera gli luceva d’orgoglio. Provavo orrore, pietà, appetito. Durante la guerra, la gente diceva: «Poi ci faremo pulire le scarpe dagli inglesi». Adesso siamo ridotti a chiedere l’elemosina ai negri. Soprattutto le ragazze facevano festa. Invece di aver paura di quei diavoli, erano tutte lì a tirarli per il braccio, a strofinarsi contro le sentinelle, ad offrirsi alle lunghe mani scimmiesche che tuttavia danno sempre qualcosa»48.

Tra la primavera e l’estate del 1944 avevano cominciato a registrarsi i primi timidi segnali di un miglioramento delle condizioni di vita dei napoletani, perché era stato possibile aggiungere progressivamente alla razione di 200 grammi di pane pro capite al giorno, entrata in vigore il 7 febbraio, quote mensili aggiuntive di generi alimentari, e il 1° luglio era entrata in vigore in tutto il Mezzogiorno la nuova razione di 300 g. di pane (o 200 g. di pane e 80 di pasta).

Ma a Napoli – come in tutto il Mezzogiorno - la situazione alimentare restava estremamente difficile, perché anche la nuova razione, con le quote supplementari di zucchero, carne e vegetali (che comunque non sempre venivano distribuite), poteva fornire solo 906 calorie, quindi meno delle 1.006 calorie che i soli rifornimenti alleati avrebbero dovuto assicurare, ed anche meno delle 960 calorie fornite dalle razioni in vigore in quelle stesse regioni, durante la guerra, almeno fino al marzo 1942, che per giunta prevedevano anche quote aggiuntive di cibo per particolari categorie di civili49.

Le difficoltà erano, inoltre, aggravate nell’intera Italia Liberata dal sostanziale fallimento degli ammassi, per il prezzo troppo basso fissato per il conferimento dei cereali, così che, anche se il raccolto raggiunse risultati relativamente soddisfacenti, la gran parte del grano prodotto fu sottratto agli ammassi per essere dirottato nei canali del mercato nero.

E’ dunque comprensibile che nell’estate del 1944, nonostante il relativo miglioramento della situazione economica, si registrassero ancora serie tensioni nella popolazione.

Il malessere era diffuso soprattutto tra i ceti impiegatizi, travolti dall’inflazione e convinti profondamente di essere stati e continuare ad essere le principali vittime della guerra e della sconfitta, più degli stessi ceti bassi, ritenuti più disponibili a prestarsi alle attività illecite e immorali legate all’occupazione alleata e a dedicarsi alle lucrose attività del mercato nero, non solo per sopravvivere ma anche per arricchirsi. Le rilevazioni della censura alleata sulla corrispondenza dovevano infatti registrare una diffusa insoddisfazione e preoccupazione per la situazione alimentare soprattutto nei grandi centri urbani, a Napoli, come a Bari o a Palermo. Erano infatti continuamente segnalate lettere inviate dalle città che contenevano minuziosi elenchi dei prezzi, che rivelavano l’attenzione ossessiva delle famiglie italiane, in particolare di quelle dei ceti medi, verso il costante rialzo del costo della vita e lo sconforto per la difficoltà a far quadrare il bilancio domestico.

Erano inoltre certamente universali, nelle grandi città come nei più piccoli comuni dei distretti rurali, le lagnanze per la pratica impossibilità di provvedere ad acquistare scarpe e capi d’abbigliamento per i prezzi proibitivi che avevano raggiunto.

Pesava soprattutto l’impossibilità di sostituire le scarpe ormai sfondate e ridotte a pezzi per l’uso eccessivo, non solo perché impediva di muoversi («La gente deve restare a casa perché non ha scarpe e non ha vestiti» era scritto in una lettera da Taranto del 26 agosto), ma perché limitava le stesse relazioni sociali obbligando, per mantenere il decoro, a non uscire di casa, come era ricordato in una lettera da Crispiano (Taranto) del 15 settembre, in cui si affermava:

«Mi piacerebbe venire a trovarti, ma come faccio? Non posso uscire perché non ho scarpe. Sono andato a Taranto con le scarpe di mio cugino. Lavoro giorno e notte ma non sono riuscito a comprare un paio di scarpe perché devo aiutare in famiglia».

Enormi difficoltà si incontravano in tutta l’Italia Liberata per prendere case in fitto per i prezzi astronomici che avevano raggiunto. Il maggiore motivo di malessere continuava, comunque, ad essere fornito dall’insufficiente livello degli stipendi, del tutto inadeguati a sostenere il costo della vita, soprattutto per molti impiegati dello Stato che avevano subito riduzioni dei salari netti, per la perdita di diverse indennità, come quella per bombardamento, che ormai costituivano parte integrante dello stipendio, così da dover ridurre il già magro bilancio familiare:

La riduzione effettiva degli stipendi, inoltre, rendeva anche più forti la delusione e l’irritazione per i tardivi e del tutto insufficienti aumenti salariali concessi ai dipendenti pubblici. Per sostenere i prezzi elevatissimi imposti dal mercato nero, persino quelli che nell’anteguerra potevano essere definiti benestanti, erano perciò costretti a vendere anche parte dei propri beni. A maggior ragione, i lavoratori a reddito fisso, impiegati od operai che fossero, erano costretti a privarsi dei beni più essenziali: «Ieri ho dovuto vendere due materassi, non ce la facevo a vedere i bambini morire di fame» era scritto in una lettera inviata da Napoli nell’agosto50.

Ma lo stato di disagio dei ceti medi era dovuto soprattutto al ribaltamento dei ruoli sociali determinato dalle possibilità di arricchirsi offerte ai contadini, agli «speculatori» e agli stessi «lavoratori». La maggiore responsabilità della critica situazione italiana era attribuita dai ceti medi urbani soprattutto all’avidità di guadagno dei contadini, che non solo erano ritenuti meno colpiti dai sacrifici imposti dalla guerra - che sembravano aver gravato, per i bombardamenti e per la crisi del razionamento, soprattutto sui ceti urbani -, ma erano anche accusati di sottrarre i loro prodotti all’obbligo di ammasso e di venderli a prezzi proibitivi, sfruttando la generale crisi alimentare per arricchirsi col mercato nero alle spalle dei cittadini.

L’ostilità verso i contadini era anzi tale che continui appelli erano rivolti da singoli cittadini alle autorità alleate per imporre le misure più severe contro gli evasori agli ammassi, inclusa la stessa pena di morte51.

Altro motivo di profondo malessere era dato dal degrado morale degli strati più poveri della popolazione urbana, che era certamente dovuto al peggioramento delle loro condizioni di vita e allo stato di acuto bisogno in cui venivano a trovarsi come effetto della guerra, dell’occupazione alleata e della generale crisi economica dell’Italia Liberata, ma che, in qualche misura, era attribuito anche ad una sorta di «predisposizione» al vizio del popolino urbano, o, almeno, alle sue minori remore morali, determinate dalla sua tradizionale disponibilità alle pratiche illecite e ai reati minori per sbarcare il lunario, e che ora apparivano confermate dalle dimensioni raggiunte dal fenomeno della prostituzione, soprattutto di quella minorile, che sembrava incoraggiata o addirittura imposta dalle stesse famiglie.


Il fenomeno sembrava aver raggiunto dimensioni impressionanti soprattutto a Napoli: «Ieri abbiamo appreso - era scritto in un articolo del «Popolo» del 26 agosto 1944 - che, solo all’Ospedale della Pace, e in quindici giorni, sono state visitate 4000 malate (e si può intuire di quali malattie) per metà all’incirca minorenni!, e che uguali proporzioni si riscontrano negli altri centri ospedalieri della provincia e della regione», che confermava quante minorenni fossero dedite, o meglio costrette alla prostituzione.

Finiva così col diffondersi tra gli stessi ceti medi napoletani l’immagine che sarebbe stata in seguito accreditata dalla Pelle di Curzio Malaparte e, in qualche misura, anche dalla Napoli ’44 di Norman Lewis, di un’intera città in cui, per sopravvivere, i fratelli prostituivano le sorelle e i genitori vendevano i figli. E così nei continui appelli dei benpensanti alle autorità alleate perché intervenissero contro la prostituzione, si condannava senza appello «una delle più losche attività» svolta «nella più parte delle private abitazioni», in «interi palazzi dal piano terreno all'ultimo piano», da parte di «individui malfamati», di «donnine allegre» e di «molti giovani che potrebbero rispondere alle chiamate del lavoro [e che invece] se ne stanno tranquilli e felici a caricare dollari nel loro lurido portafoglio»52, e, in un manifesto di un comitato cittadino di carità, si lamentava la presenza di «bambine malate e gravide di 13, 12 e persino 10 anni e mezzo, incoscienti, che giocano ancora con la bambola, ignare del loro stato e del loro avvenire rovinato» e si denunciava il caso di una dodicenne ricoverata in un ospedale per le bastonature subite dal padre perché «non riesce a ‘guadagnare’ più di 2000 lire al giorno, mentre la sorella quattordicenne ne ‘guadagna’ da 4 a 5 mila. Ma essa, la dodicenne, non sa vincere la ripulsione di lasciarsi avvicinare da negri»53.


Il fatto che l’esplosione del fenomeno della prostituzione fosse evidentemente legata alla larga presenza di militari alleati nelle città determinava anche spesso una profonda delusione e un doloroso disincanto nei loro confronti, anche se forse il maggior motivo di risentimento, tra i ceti medi e medio-alti, era determinato dalla larga pratica ancora seguita dalle autorità alleate di requisire abitazioni private, per alloggiarvi i militari. Eppure, dalle rilevazioni della censura alleata emerge che era ancora mantenuto un sostanziale consenso verso il regime di occupazione anglo-americana, nella consapevolezza che la sopravvivenza stessa degli italiani era assicurata dai sia pur insufficienti rifornimenti alimentari alleati.

Il consenso era anche favorito dalle speranze in una ormai vicina conclusione del conflitto suscitate dai successi riportati dagli Alleati in Francia e in Italia ed anche dalla crisi del fronte interno in Germania che sembrava rivelata dalla congiura dei generali della Wehrmacht e dall’attentato ad Hitler del 20 luglio. Ma proprio il favorevole andamento della guerra, provocando una diminuzione delle unità alleate ancora presenti nelle retrovie, rendeva più incerte le prospettive del locale mercato del lavoro, creando nuovi motivi di depressione e di angoscia54.


Alla fine di agosto, mentre gli anglo-americani avevano già completato la liberazione della Francia e si apprestavano a varcare la frontiera belga e a tentare di aggirare la linea «Sigfriedo» dall’Olanda, ed era in pieno corso la gigantesca offensiva scatenata dall’Armata Rossa nel giugno lungo tutto il fronte orientale, anche in Italia era ripresa l’offensiva alleata, con il grande attacco iniziato il 25 contro la «Linea Gotica», sul cui esito favorevole Churchill nutriva tali speranze da aver voluto assistere personalmente alle prime fasi dell’operazione.

Le speranze in un’ormai imminente conclusione del conflitto avevano però contribuito solo in parte a migliorare la tenuta del morale dei napoletani, perché ancora risentivano della profonda crisi economica in cui la città continuava a dibattersi.

Le rilevazioni della censura alleata dovevano perciò ancora segnalare l’ossessiva attenzione prestata all’andamento del costo della vita e al continuo allargamento della forbice tra prezzi e salari dai ceti medi, per le difficoltà reali incontrate anche solo per assicurare l’alimentazione per le proprie famiglie, ed anche per il profondo disagio psicologico di gruppi sociali che avevano fatto «del risparmio, dell’esigenza di “far quadrare i conti” del bilancio domestico» una «attitudine inveterata e consolidata, quasi una seconda natura»55.

Così, in una lettera da Napoli, dell’ottobre 1944, troviamo scritto:

«I miei guadagni non bastano per andare avanti. I prezzi sono saliti sempre più alle stelle. Nel novembre 1943 riuscivamo a viver con 8 mila lire al mese. Poco alla volta, la quantità di denaro necessaria è salita a 10, 12, 15 e 17 mila lire. Adesso ci vogliono circa 20 mila lire al mese per sopravvivere. Tutti i miei risparmi in depositi e buoni del tesoro se ne sono andati, e ho dovuto fare debiti. Lo scorso luglio ho dovuto vendere la casa di Salerno e usare i soldi per le spese quotidiane».

In realtà, in quel periodo – come nel corso di tutta la guerra - anche gli operai erano impegnati a seguire con apprensione ogni minima variazione dei prezzi, perché avrebbe potuto segnare l’impossibilità pratica di sfamare le proprie famiglie, ed anzi gli operai, a differenza dei ceti medi, non disponevano neppure della possibilità di dar fondo ai risparmi accumulati in passato e neppure delle risorse assicurate dal circuito del familismo economico ai ceti impiegatizi, che in buona parte erano di recente inurbamento, e che perciò avevano mantenuto legami con le terre d’origine, così da poter reperire scorte alimentari tra parenti e amici rimasti a vivere in campagna.

La convinzione che si stesse attuando un radicale ribaltamento dei rapporti tra i gruppi sociali, con l’ascesa dei ceti popolari a detrimento di quelli medi, si affiancava, in questi ultimi, in generale ad una denuncia del «caos», della corruzione dominanti, del degrado morale del popolino e a dure critiche per l’apatia delle autorità.

Così, in una lettera da Napoli del 31 ottobre 1944 si affermava:

«Qui a Napoli la solita vita. Economicamente non si può andare avanti, i prezzi sono addirittura proibitivi per tutti i generi ed il contrabbando assume proporzioni sempre più estesi. Chi sa dove si vuole arrivare. Un povero impiegato con lo stipendio che percepisce non sa come fare. Intanto le presunte autorità lasciano correre ogni cosa e di questo passo indubbiamente ci avviamo al baratro, più di quello in cui siamo già caduti.

Un malcontento generale regna in tutta la città, tranne per il popolino, il quale, dandosi da fare in tutti i campi, aziona frodando ogni categoria di media borghesia, senza rendersi conto delle catastrofiche conseguenze.

Speriamo che presto tutto si accomodi ed in forma definitiva, altrimenti la rivoluzione sarà imminente senza salvezza di nessuno».

I ceti medi sembravano colpiti soprattutto dalla corruzione morale, evidenziata in particolare dall’esplosione della prostituzione anche minorile. Così, in un’altra lettera si affermava:

«La vita a Napoli è nel caos. Il vizio e il furto dominano. La gente ha abbandonato la retta via. Nessuno si accontenta del suo lavoro e di modesti guadagni; vogliono profitti extra e niente lavoro duro; perciò rubano e si prostituiscono e i padri spingono le figlie ancora adolescenti alla prostituzione. E’ ricomparsa la malavita, su scala più grande. Ci sono bande regolari che rubano e, in cambio di una generosa mancia, scortano i soldati nei bordelli. Sporcizia e oscenità mai viste prima».

E in un’altra lettera del settembre, scritta evidentemente da una persona rimasta impressionata dal manifesto del «comitato cittadino di carità» che denunciava lo sfruttamento della prostituzione minorile:

«Quello che si arriva a vedere è impensabile e amareggiante. Un padre che picchia la figlia perché ha portato soltanto 2.000 lire invece di 4.000 lire come l’altra sorella».

E, infine, ancora nel settembre:

«A Napoli, fra mercato nero e commercio di ogni genere, specialmente in carne femminile, la situazione morale e familiare è terribile, come vedi, non avremo da ricostruire solo case e fabbriche, ma cosa ben più difficile – dovremo ricostruire gli spiriti»56.

Ancora alla fine del 1944 i rapporti trasmessi dai questori e dai prefetti e dall’Arma dei Carabinieri dimostravano come il primo e principale problema degli italiani, che assorbiva tutte le loro energie, fosse ancora quello di far fronte alla crisi economica e di provvedere al cibo per le proprie famiglie. Le rilevazioni della censura mettevano in evidenza, inoltre, quanto fosse ancora profondo il malessere dei ceti medi e dei dipendenti pubblici per il divario crescente tra il salario e il costo della vita, e quanto fosse dura la lotta per la sopravvivenza per chi non era impegnato nelle lucrose attività del mercato nero o almeno godeva del privilegio di lavorare per i magazzini, i depositi e, soprattutto, per le mense delle unità alleate, tanto da provocare una diffusa paura nell’inevitabilità di una «rivoluzione generale» per lo stato di esasperazione in cui si trovava il popolo. Il morale degli italiani era poi depresso dallo spettacolo della «corruzione» dilagante, dalle dimensioni raggiunte dal fenomeno della prostituzione, dallo stato dell’ordine pubblico per l’audacia della malavita che non esitava a compiere furti e rapine nelle città anche in pieno giorno e che in molti centri rurali aveva ridato vita al fenomeno del banditismo, ed infine dai continui episodi di violenza di cui si rendevano protagonisti molti militari alleati quando erano erano ubriachi. Sembrava così ora prevalere anche la delusione e il risentimento nei confronti degli stessi Alleati, tanto da registrare persino una ripresa dei tipici temi della propaganda fascista, come si vede in una lettera inviata da Napoli il 15 novembre:

Gli alleati questi altri cialtroni, non fanno che predicare e valorizzare le necessità di guerra che contrastano i rifornimenti ai civili.

Ma loro si cibano 5 volte al giorno, ci spogliano di tutto quello che trovano dandoci della carta che non ha nessun valore e si divertono dalla mattina alla sera. I migliori negozi sono in mano loro perché hanno bisogno di mille spacci per generi di conforto. Non fanno che fondare Clubs, circoli e casini dove dare sfogo alle loro brame e per ubbriacarsi in modo indegno per un uomo civile. Se questa è la civiltà alla larga ... meglio i barbari col loro ordine e con la loro dignità. Tu non hai ancora provato lo stringimento di cuore che ti dà l’osservare centinaia di ragazzi occupati a lustrare le scarpe ai negri e ancor più, nelle osterie principali invitare i soldati a trincare o per offrirgli la mamma, la sorella, ecc. ecc.57.


Per giunta, la controffensiva della Wehrmacht nelle Ardenne, iniziata a metà dicembre, rivelando quanto fosse ancora forte la macchina bellica tedesca, lasciava cadere ogni residua speranza in una ormai vicina fine del conflitto.

Così, nonostante l’intensa campagna di propaganda sostenuta dalle sinistre per la formazione di un’Armata italiana58, la guerra di Liberazione restava un tema scarsamente popolare. Non si registrarono a Napoli episodi come le sommosse popolari promosse in Sicilia dal cosiddetto «Movimento dei Nonsiparte», ma di certo anche in quella città il richiamo alle armi dei giovani compresi tra i venti e i trent’anni si rivelò un completo fallimento per la generale opposizione della popolazione59.


Nei primi mesi del 1945 le condizioni di vita e persino il morale della popolazione dell’Italia Liberata restavano ancora non molto diversi da quelli registrati nelle fasi più critiche dell’occupazione alleata nell’inverno 1943-44. Ancora nel gennaio 1945, ad esempio, Napoli era descritta dal Direttore dell’OSS, Donovan, in un rapporto destinato a Roosevelt, come «un settore dello spazio sfasciato fisicamente ed abitato da una massa grigia e nera di visi che non sorridono», come una città ancora impegnata in una dura lotta giornaliera per la sopravvivenza, perché

«In molti casi non vi è letteralmente nulla da mangiare e le case sono così fredde e umide che alla sera si va a letto molto presto. I servizi pubblici, come i telefoni o i trasporti, o sono paralizzati o funzionano in modo irregolare.

La gente cerca di rubare un paio di calze qui, un po’ di burro là, perfino castagne, qualcosa che dia un po’ di caldo e un po’ di cibo almeno per un giorno. In questo genere di attività, sono molto astuti: ad esempio, dopo che una delegazione di sindacalisti sovietici era stata portata a spalla lungo le strade da lavoratori italiani entusiasti, uno dei russi si accorse di non avere più le scarpe.

Le donne sono talvolta costrette ad andare a letto con i soldati; è una consuetudine molto diffusa. Gli uomini parlano con amarezza di quella che chiamano la prostituzione istituzionalizzata delle loro donne, eppure molti genitori mandano le figlie per strada di modo che la famiglia possa avere di che campare.

[...] Gli stranieri sono continuamente assaliti da italiani che cercano di procurarsi qualcosa, cibo o favori. Ciò fa sì che il personale alleato sia spesso irritabile o cinico, se non duro, nel modo di trattare con la popolazione locale»60.

Le osservazioni di Donovan su Napoli trovavano, inoltre, una piena conferma nelle rilevazioni della censura alleata, che registravano come il relativo miglioramento della situazione alimentare, con l’apparizione di un maggior numero di prodotti sul mercato, sembrava solo aver accentuato «il continuo contrasto tra le necessità e le possibilità», come ricordava una certa Olga in una lettera dell’ 11 febbraio, e come era confermato da lettere, come quella inviata da S. Gennariello al Vomero il 9 febbraio in cui si affermava: «Vi è ogni ben di Dio ma bisognerebbe avere il portafoglio ben pieno per acquistare. Pesce meraviglioso ma non possiamo che guardarlo ed accontentarci dell’odore». Gli appartenenti al ceto medio dovevano ancora provare una profonda umiliazione per non poter provvedere col proprio lavoro alle esigenze delle famiglie, come annotava la stessa lettera della già citata Olga: «Lo studio di mio marito non va avanti e mi si stringe il cuore nel vedere come soffre e si arrovella questo povero vecchio per non poter più sopperire col suo guadagno ai modesti bisogni della famiglia».


La constatazione che i ceti medi e i lavoratori dipendenti erano sottoposti agli stessi sacrifici provocava ora una comune ostilità verso gli speculatori e i ricchi, come emerge, ad esempio, da una lettera del 5 febbraio, in cui si sosteneva:

«Le classi che soffrono di più a Napoli sono specialmente la classe media, l’impiegato, il lavoratore dell’ufficio, il lavoratore manuale con un peso maggiore derivato dall’aver obbedito al Duce. Le classi agiate ci sono: pagano bene, hanno sempre vissuto di truffa, di rendita, di sapere fare. Le classi infime hanno sempre vissuto nella marea ed hanno sempre sorpassato ogni disagio con la massima pazienza vivendo sempre lo stesso tenore di vita»61.

Ancora peggiori dovevano essere le condizioni di vita dei ceti marginali, perché la sopravvivenza delle famiglie continuava ad essere spesso affidata alla prostituzione delle donne, un fenomeno, questo, che doveva aver raggiunto dimensioni impressionanti, tenendo conto del fatto che nel 1945 furono registrate 5.938 donne ricoverate per blenorragia e 935 per sifilide, così come dovevano aver raggiunto proporzioni allarmanti il fenomeno della prostituzione forzata e delle violenze sessuali sulle minorenni, visto che tra le donne ricoverate, ben 310 erano minorenni, ed alcune addirittura di soli 5 anni62.

Eppure, i ceti medi continuavano ad attribuire la diffusione delle attività illecite e della prostituzione non solo ad un reale stato di bisogno, ma anche alla ricerca di facili guadagni. Il 22 febbraio, ad esempio, R.D. da Napoli scriveva:

«Qui è sempre la solita vita per i napoletani, il compito dei giovani e ragazzi è di assalire camion, levare portafogli dalle tasche senza far accorgere all’individuo, e sono formati tutti a banda.

Ogni giorno una moltitudine vengono arrestate, ed il giorno dopo invece di essere più pochi, sono sempre di più.

Poi il compito delle giovane: si trovano quasi in tutti vicoli della Città, il meretricio e con un portafoglio veramente pieno, vanno al mercato nero e possono spendere a qualsiasi prezzo, perché la loro professione lo permette che guadagnano assai in poche ore e con poca fatica.

Il giaio è delle poche famiglie, che soffrono, ed anche degli operai che con misera giornata non possono comprare neanche un pacchetto di sigarette».

Così, buona parte delle lettere segnalate dalla censura insisteva sul tema della corruzione della città, come quella del 6 febbraio, in cui si scriveva: «Non ti dico poi gli uomini e le donne a che grado di lordura, e di sozzura sono arrivati. Questa disgraziata città è diventata una fogna», e in quella del 10 febbraio, che affermava: «qui è un vero arrembaggio e affamamento degli stessi Italiani a nostro danno, a danno delle persone oneste e da bene che non possono fare né saprebbero fare mestieri loschi»63.

La maggiore responsabilità del degrado di Napoli finiva col ricadere sugli stessi Alleati, soprattutto perché il loro comportamento non trovava altra giustificazione che la ricerca del profitto e del divertimento. Si tendeva allora ad attribuire in gran parte agli americani anche l’esplosione dei furti e del mercato nero, perché, come sosteneva un soldato in una lettera del gennaio 1945,

«[...] in Napoli vi sono dei luoghi chiamati «Duchesse». Nemmeno i poliziotti osano entrarvi perché sarebbero immediatamente assassinati. Colà vengono ammassate e rivendute le refurtive [...] Tutta la colpa è degli Americani. Tra di essi vi è un numero immenso di disertori e latitanti i quali, essendo di origine italiana e conoscendo la lingua e i dialetti, sono riusciti ad organizzare il gangsterismo su vasta scala».

Ed ancora nell’agosto 1945 un napoletano avrebbe scritto ad un congiunto emigrato a New York:

«In quanto all’Italia che è infestata da delinquenti non è vero. Per la miseria che c’è e per quello che la gente ha sofferto quei pochi fatterelli sono insignificanti. Il gangsterismo lo hanno importato i negri americani, i quali si vendono i camion interi»64.

Ma qualcuno discolpava gli alleati della responsabilità del degrado di Napoli e dell’intero Paese, attribuendola agli stessi italiani, alla loro ansia di raggiungere un facile successo. Per riportare l’«onestà» e la «moralità», ci si affidava allora alla possibilità di imporre «leggi inflessibili», come si augurava la già citata Olga nella lettera dell’11 febbraio, se non addirittura all’intervento di una «mano provvidenziale», perché finché non fosse stata ripristinata la moralità pubblica e privata, anche quando fosse finita la guerra, i cittadini onesti avrebbero conosciuto «giorni brutti, giorni neri, giorni tristi, giorni diabolici», come profetizzava un abitante di una frazione di Lacco Ameno, l’8 febbraio.


In questa situazione non c’è da stupirsi che il censore dovesse registrare quanto malumore avessero provocato tra i giovani e tra i genitori, in particolare tra le madri, le chiamate alle armi decise dal Governo e le voci su arresti di renitenti alla leva.

Ma il fenomeno del rifiuto di continuare a combattere non era affatto limitato alla sola Napoli o al solo Meridione, perché si manifestava, ad esempio, anche a Firenze, provocando la reazione indignata e delusa di un professore, che, in una lettera inviata da quella città ad un avvocato napoletano il 12 febbraio, lamentava come gli italiani tutti fossero diventati «mendicanti nell’anima», più degli stessi «calunniatissimi scugnizzi napoletani mendicanti che aspettano un boccone e lo chiedono umiliandosi»65.


Nonostante tutti i limiti e gli errori dell’occupazione alleata, va comunque sempre ricordato con profondo rispetto e riconoscenza il duro contributo di sangue offerto nella campagna d’Italia dagli inglesi e dagli americani, così come dai polacchi, neozelandesi, canadesi, nord africani, indiani, brasiliani e dagli appartenenti ai tanti contingenti militari nazionali impegnati in Italia caduti per la liberazione del nostro Paese.






* Università di Napoli.

1 Rapporto di Holmes del 28 settembre 1943 pubblicato in Harry L. Coles – Albert K. Weinberg, Civil Affairs: Soldiers become Governors, della serie Special Studies della storia ufficiale The U.S. Army in World War II, Washington, D.C., 1964, pp. 229-230.

2 Vedi la testimonianza resa in una conferenza del 22 da Ellery Stone, che in quei giorni ricopriva l’incarico di responsabile della Sezione Comunicazioni della Missione Militare Alleata, ibidem, p. 230.

3 Vedi le piantine custodite nel Bundesarchiv-Militärarchiv di Friburgo, RL32/ 20, 22, 30, 37.

4 Giorgio Corona, Sicilia ’43. Frammenti di taccuino, in «Nuovi Argomenti», n. 26 (maggio-giugno 1957), pp. 141-142, già cit. in Lamberto Mercuri, La Sicilia e gli Alleati, in L’Italia fra tedeschi e alleati. La politica estera fascista e la seconda guerra mondiale, a cura di Renzo De Felice, Bologna, Il Mulino, 1973

5 Donald C. Downes a Donovan, OSS Activities in the Neapolitan Campaign, D to D+21, 19 ottobre 1943, National Archives of Washington [d’ora in poi NAW], Record Group [d’ora in poi Rg] 226, Entry 99, box 38, folder 193. Sull'episodio e le successive vicende di Lauro, v. Roberto Ciuni, L'Italia di Badoglio, Milano, Rizzoli, 1993, pp. 265-267.

6 Cfr. AMGOT HQ, Report for September 1943, NAW Rg 331 10000/100/501, cit. in Coles-Weinberg, Civil Affairs, cit., pp. 309-310. Sulle presunte cause della rarefazione dei prodotti dal mercato, cfr. Lord Rennell, Report for August 1943, ivi, pp. 203-204.

7 Vedi il rapporto di Lord Rennell del 2 agosto 1943, ibidem, p. 208.

8 Arma dei CCRR, Condizioni politico-economiche della Sicilia, 30 marzo 1944, Archivio Centrale di Stato [d’ora in poi ACS], Pres. Cons. Min., 1943-44, Atti, cat. 3, cl. 12.

9 Lettere dalla Sicilia, citate in Nicola Gallerano, E’ arrivata l’America? Gli italiani e l’occupazione alleata nel Mezzogiorno (1943-45), in 1944 Salerno capitale. Istituzioni e società, a c. di Augusto Placanica, Napoli, ESI, 1986, p. 494.

10 Lord Rennell, Report, 8 agosto 1943, NAW Rg 331 10000/100/688.

11 Lord Rennell, Report for August 1943, in Coles-Weinberg, Civil Affairs, cit., p. 209-210.

12 Ibidem, p. 210.

13 Vedi il messaggio dell'AFHQ al CCAC del 20 ottobre 1943, in Coles-Weinberg, op. cit., p. 347.

14 Cfr. Charles R.S. Harris, Allied Military Administration of Italy, 1943-1945, HMSO, London 1957, p. 70.

15 Public Health Division, AMG Region 3, Report for December 1943, NAW Rg 331 10000/100/1091.

16 Adlai Stevenson, Report of FEA Survey Mission to Italy, febbraio 1944, p. II, NAW, Rg 169 (815). Buona parte del documento è pubblicato in Il rapporto Stevenson. Documenti sull’economia italiana e sulle direttive della politica americana in Italia nel 1943-1944, a c. di Elena Aga Rossi, Carecas, Roma, 1979.

17 Vedi le relazioni pubblicate nel 1944 dal dottor Francesco Postiglione sul «Bollettino della Società Italiana di Biologia Sperimentale», vol. XIX, fascicoli 7-9, e 10-12.

18 Cfr. Paolo De Marco, Polvere di piselli. La vita quotidiana a Napoli durante l’occupazione alleata (1943-1944), Napoli, Liguori, 1996, pp. 181-192. Dal libro sono tratte molte delle notizie riportate in questo intervento.

19 Cfr. «Il Risorgimento», 18 dicembre 1943.

20 Cfr. Ministero della Guerra, SMRE, Uff. Informazioni, Ispettorato Censura Militare, Statistica incidenti e crimini commessi dalle truppe alleate, 28 marzo 1947, ACS, Min. Int., Gab. 1947, b. 4, f. 121, cit. in Pietro Cavallo, America sognata, America desiderata. Mito e immagini USA in Italia dallo sbarco alla fine della guerra (1943-1945), in «Storia contemporanea», 1985, n. 4, p. 768, n. 88.

21 Cfr. Ufficio Affari Civili presso S.E. il Capo del Governo, Campobasso. Situazione politico-economica, 11 novembre 1943, NAW Rg 331 10210/115/108; AMG Prov. of Avellino, Monthly Report, 11 gennaio 1944, ivi 10260/143/210; HQ AMG Benevento Prov., Weekly Progress Report, 22 ottobre 1943, ivi 10260/115/95; e AMG Foggia Prov., Fortnightly Report N. 14. Period 1-15 Dec. 1943, ivi 10000/100/1092.

22 Vedi, per il solo mese di novembre 1943, i numerosi rapporti e le continue segnalazioni su questi episodi a Napoli, in NAW, Rg 331 10260/143/36.

23 Giudizi di Doherty in AMG R.3 Police Section, Weekly Report for 7 days ended 17th Dec. 1943 e in AMG Naples City, Public Safety, Monthly Report, 12 gennaio 1944 (tutti in NAW Rg 331 10260/143/213), giudizi di Francis in HQ R.3 AMG Office of Commissioner of P.S., Report on the activities of Regional HQ P.S. Div. to 15th December 1943, 5 gennaio 1944, e Public Safety Report for the month of December 1943, 17 gennaio 1944, NAW Rg 331 10260/143/210.

24 Norman Lewis, Napoli ’44, Adelphi, Milano, 1993, pp. 31-32.

25 Thomas R. Fisher, Allied Military Government in Italy, «Annals of the American Academy of Political and Social Sciences», January 1950, p.122.

26 Cfr. Lewis, Napoli ‘44, cit., pp. 136-137.

27 Curzio Malaparte, La pelle, Firenze, Vallecchi, 1968.

28 John Huston, Cinque mogli e sessanta film, Roma, Editori Riuniti, 1982, p. 135.

29 Alan Moorehead, Eclipse, London, 1945, pp. 62-63.

30 Relazione del s.ten. Federico Frascani al Commissariato per le Informazioni – Uff. Segreteria, 14 novembre 1943, ACS, Pres. Cons. Salerno, PS, vers. 1935-50, cat. 36.

31 Relazione sulla situazione nell'Italia Meridionale, n.f., s.d. (dicembre 1943), in Pietro Secchia, Il partito comunista italiana e la guerra di liberazione 1943-45, in «Annali della Fondazione G.G. Feltrinelli», XIII, Milano, 1971, pp. 257-258. Vedi anche il Rapporto da Napoli, n.f., s.d. (anch’esso del dicembre 1943), ivi, p. 255.

32 Relazione custodita presso l’Istituto Gramsci di Roma, 1530/16-17, parzialmente pubblicata in Paolo Spriano, Storia del partito comunista italiano, vol.V, La Resistenza. Togliatti e il partito nuovo, Torino, Einaudi, 1976, pp. 139-140.

33 Johm H. Burns, La Galleria, Garzanti, Milano, 1949, pp. 279-280.

34 Vedi i notiziari giornalieri del gruppo esterno della Legione Territoriale CCRR di Napoli del 24 e 25 ottobre 1943, firmati dal maggiore Alfredo Angrisani, ACS, Pres. Cons. Min., 1943-44, Atti, cat. 3, cl. 7, s.cl. 2. Vedi anche il notiziario giornaliero del 27 novembre del gruppo interno della Legione Terr. dei CCRR di Napoli (ACS, Pres. Cons. Min., 1943-44, Atti, cat. 16, cl. 13, s.cl. 8) e quello del 29 dell'ufficio servizio della stessa Legione (ACS, Min. Int., Dir. P.S., A.G.R., b. 1, fasc. 1, s.fasc. 4), cit. in Pasquale Iaccio, Condizioni di vita e ordine pubblico al Sud nei rapporti dei Carabinieri, in 1944 Salerno capitale. Istituzioni e società, a c. di Augusto Placanica, ESI, Napoli, 1986, p. 833.

35 Vedi i rapporti del Flag Officer, Western Italy, Naples, Treatment of Civilian Labour and Civilians Generally - Naples Area, e Supply of Food to Employees and Contractors Workmen, dell’8 e 20 gennaio 1944, in NAW, Rg 331 10260/146/92.

36 Cfr. Edgar E. Hume, Region 3 (Fifth Army) ) Sept. 1943 – 15 Dec. 1943, s.d., pp. 35-36, NAW Rg 331, 10000/129/167.

37 Labor Supply Weekly Report, 25 gennaio 1944, NAW Rg 331 10260/146/94. Vedi anche il Labor Supply Report for the Month of February, NAW Rg 331 10260/146/154.

38 HQ R.3 Labor Section, Monthly Report March, 1944, 5 aprile 1944, NAW Rg 331 10260/146/154.

39 Vedi il messaggio della MGS dell'AFHQ ai CCS del 26 novembre 1943, cit.; il rapporto del responsabile della Food S/C dell'ACC, Col. W.J. Legg al 19° meeting dell’Advisory Council for Italy del 25 agosto 1944, NAW Rg 331 10000/132/477; il rapporto dell’Economic Section ACC, Feeding Southern Italy del 1° settembre 1944, NAW Rg 331 10000/154/328, in Coles - Weinberg, Civil Affairs, cit., p. 318; Stevenson, Report of FEA Mission, cit., p. 7, e il rapporto del gen. J.F.M. Whiteley ai CCS del 26 novembre 1943, in allegato a Civil Affairs Division, Report of Overseas Mission made by Col. S.F. Clabaugh, 2 december 1943 – 18 february 1944, 28 febbraio 1944, NAW Rg 226 73884.

40 Cfr. Economics & Supply Div. R.3, Economic Facts & Factors, March 1944, NAW Rg 331 10000/136/417, e Ufficio Regionale del Lavoro di Napoli, Costo della vita e alimentazione a Napoli, s.d., NAW Rg 331 10260/146/71.

41 Vedi le tabelle pubblicate in Economic Facts & Factors, July 1944, NAW Rg 331 10000/136/417.

42 Cfr. Agostino Degli Espinosa, Il Regno del Sud, Parenti, Firenze, 1955,pp. 353-354. Vedi anche lo stupore di Togliatti, al suo rientro in Italia, per lo «spettacolo quasi apocalittico» fornito dalle strade «piene di gente che andava con tutti i mezzi, con carrettini, col cavallo, con l'asino, con mezzi motorizzati di fortuna sfuggiti alle requisizioni» per cercare nelle campagne prodotti da vendere in città, e la sua consapevolezza del fatto che il mercato nero era diventato «mezzo normale di esistenza per milioni di uomini». Cfr. Trent'anni di storia italiana (1915-1945). Dall’antifascismo alla Resistenza. Lezioni con testimonianze, a c. di Franco Antonicelli, Einaudi, Torino 1961, pp. 367-368.

43 Vedi il rapporto dell'OSS del 14 maggio 1944, riportato nel memorandum segreto della FEA del 20 giugno, in Aga Rossi, Il rapporto Stevenson, cit., p. 165.

44 Henry Grady (Vice Presidente dell’Economic Section dell’ACC), Inflationary Developments in Liberated Italy, 21 marzo 1944, ibidem, pp. 153-154.

45 Lettera di una donna di Albanova del 27 maggio 1944, NAW Rg 10260/143/41.

46 Cfr. AMG Labor Division Region III, Dadl (Civil) Status Report for Week ending 29 January, NAW Rg 331 10260/146/94.

47 Lettera citata in Nicola Gallerano, E’ arrivata l’America? Gli italiani e l’occupazione alleata nel Mezzogiorno (1943-45), in 1944 Salerno capitale, cit., p. 495.

48 Elena Canino, Clotilde tra le due guerre, Milano, Longanesi, 1956.

49 Cfr. Stone, Memorandum. Food ration scales in Italy, 21 ottobre 1944, e HQ ACC Economic Section, Comments on Report of Supply Mission, 12 giugno 1944, in NAW, rispettivamente Rg 331, 10000/132/190, e Rg 226, XL 1586.

50 Vedi gli stralci di lettere riportati negli Special Reports, nn. 43 e 45 dell’HQ ACC, Civil Censorship Group, Appreciation and censorship Report on Italian Civilian and Military Mail, del 5 e del 29 settembre 1944, NAW, Rg 331, 10000/136/598. Vedi anche i brani raccolti dalla censura alleata, ivi, 10260/143/43.

51 Vedi, ad esempio, le lettere ai responsabili della Region 3, raccolte in NAW Rg 331 10260/159/161.

52 Vedi l'appello di «famiglie onorate della Città di Napoli» al col. Hume del 23 dicembre 1943 con la richiesta di vietare ai militari alleati l'accesso alle abitazioni civili, in NAW, Rg 331, 10260/143/279.

53 Sulle donne ricoverate nel 1945, cfr. «La Voce del Mezzogiorno», 12 maggio 1945. Sulle minorenni risultate contagiate in quell'anno, v. l'articolo di Renzo Lapiccirella, Napoli o Singapore?, pubblicato sullo stesso giornale il 26 marzo 1949. Per l'articolo del «Popolo» del 26 agosto 1944 e il manifesto del comitato cittadino, cfr. Sergio Lambiase e G.Battista Nazzaro, Napoli 1940-1945, Longanesi, Milano, 1978, pp. 138-139.

54 Cfr. Special Reports, nn. 43 e 55 dell’HQ ACC, Civil Censorship Group, del 5 e 29 settembre 1944, cit.

55 Gallerano, E’ arrivata l’America?, cit., p. 501.

56 Stralci di lettere registrati dalla censura alleata, in NAW, Rg 331, 10260/143/43 e 10260/143/557, e da quella italiana, tratti dalla Relazione dell’Ispettorato censura militare del Servizio Informazioni Militari (SIM) relativa al mese di settembre 1944, cit., in appendice a Aga Rossi, La situazione politica ed economica nell’Italia, cit., pp. 137-144, ed, ancora, brani citati in Gallerano, E’ arrivata l’America?, cit., pp. 501-503.

57 Stralci di lettere esaminate dall’Allied Censor Control Office di Napoli, in NAW, Rg 331, 10260/143/557.

58 Vedi il documento della Direzione del PCI e l’appello di Velio Spano agli Alleati, sull’«Unità» del 30 dicembre 1944 e del 19 gennaio 1945.

59 Sul «Movimento dei Nonsiparte», vedi le considerazioni di Enzo Forcella, nell’introduzione a L’altro dopoguerra. Roma e il Sud 1943-1945, a c. di Nicola Gallerano, Milano, Franco Angeli, 1985, pp. 26-29.

60 Memorandum dell'OSS per il Presidente del 10 gennaio 1945, cit. in David W. Ellwood, L’alleato nemico. La politica dell’occupazione anglo-americana in Italia 1943-1946, Feltrinelli, Milano, p.128.

61 Stralci di lettere riportati in ACCO, Napoli [cap. Richard Garzarelli], Rapporto sulla pubblica opinione, 15 febbraio 1945, NAW, Rg 331, 10260/143/557.

62 Per i dati relativi ai ricoveri nell’Ospedale «Pace» nel 1945, cfr. «La Voce del Mezzogiorno», 12 maggio 1945. Per le notizie sulle minorenni trovate contagiate, v. l’articolo di Renzo Lapiccirella, Napoli o Singapore?, pubblicato sullo stesso giornale il 26 marzo 1949

63 Stralci di lettere del febbraio 1945 da Napoli, segnalati dal Civil Censorship Group, NAW, Rg 331, 10260/143/557.

64 Stralcio di una lettera di un fante riportato in Ministero della Guerra, Stato Maggiore R. Esercito, Ufficio Informazioni, Ispettorato Censura Militare, Relazione mensile, gennaio 1945, parte militare, p. 28, e lettera da Portici a New York del 18 agosto 1945. ACS, Pres. Cons. Min., 1944-1947, 1.2.2., f. 14884 (documenti citati in Cavallo, America sognata, cit., p. 782).

65 Stralci di lettere del febbraio 1945 da Napoli, segnalati dal Civil Censorship Group, NAW, Rg 331, 10260/143/557.





PROLUSIONE - 4 febbraio 2005
- Oscar Luigi Scàlfaro

BARI - 11 febbraio 2005
- Luciano Canfora
- Luigi Masella
- Vito Antonio Leuzzi


  NAPOLI - 16 febbraio 05
  - Francesco Paolo Casavola
  - Guido D'Agostino

 Paolo De Marco

  - Isabella Insolvibile


CATANIA - 22 febbraio 2005
- Giuseppe Barone
- Rosario Mangiameli
- Salvatore Lupo

ROMA - 3 marzo 2005
- Claudio Pavone
- Alessandro Portelli

CAGLIARI - 7 marzo 2005
- Manlio Brigaglia
- Giangiacomo Ortu

BOLOGNA - 9 marzo 2005
- Luciano Casali
- Antonio Parisella

PADOVA - 14 marzo 2005
- Angelo Ventura
- Emilio Franzina

TORINO - 16 marzo 2005
- Gianni Oliva
- Claudio Dellavalle

FIRENZE - 17 marzo 2005
- Michele Battini
- Ivano Tognarini

GENOVA - 17 marzo 2005
- M. Elisabetta Tonizzi
- Antonio Gibelli

TRIESTE - 19 marzo 2005
- Raoul Pupo
foto d'archivio
carte storiche
- Enzo Collotti

MILANO - 22 marzo 2005
- Mariuccia Salvati
- Claudio Dellavalle
- Gianni Perona



 
 
 
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