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1943: Guerra in Sicilia - Storiografia e memoria
Giuseppe Barone
La
decisione di un attacco alleato in Sicilia fu presa nella conferenza
di Casablanca e fu lo stesso Churchill a convincere il presidente
americano Roosevelt per centrare il triplice obiettivo di provocare
il crollo del fascismo in Italia, di impegnare l’esercito
tedesco in un’azione militare diversiva prima dello sbarco in
Normandia e di evitare che l’Unione Sovietica, lasciata sola a
combattere sul fonte orientale, potesse trattare una pace separata
con la Germania. Le perplessità non furono poche, anche perché
il generale Eisenhower riteneva di dover incontrare una tenace
resistenza, ma nell’estate del 1943 l’operazione Husky
ebbe pieno successo conseguendo tutti i risultati previsti.
Ben diversa si presentava la situazione in Italia. Il capo di Stato
maggiore generale Ambrosio nel febbraio del 1943 era consapevole
dell’inadeguatezza delle forze armate a resistere ad
un’invasione nemica, anche in seguito alle gravi sconfitte
subite dall’esercito su tutti i fronti. Pur mettendo in guardia
Mussolini sull’inferiorità militare italiana, Ambrosio
coltivò fino all’ultimo l’illusione che un
eventuale attacco angloamericano sarebbe scattato molto più
tardi e che avrebbe comunque costretto la Germania a concentrare la
propria azione nel Mediterraneo dopo aver stipulato una pace separata
con l’Unione Sovietica. Anche il generale Castellano, braccio
destro di Ambrosio, si mostrò fiducioso sull’esito
finale del conflitto, ritenendo che una volta disimpegnato dalla
fallimentare campagna di Russia Hitler avrebbe potenziato le difese
sullo scacchiere mediterraneo, così da consigliare prudenza
agli Alleati che a quel punto avrebbero potuto rinunciare
all’impresa. Come dimostrano le Memorie di Grandi
neppure la perdita della Tunisia e la resa precipitosa di Pantelleria
modificarono tali convinzioni.
I fatti però avrebbero presto smentito le speranze, e nel
luglio 1943 lo sbarco angloamericano in Sicilia determinò una
svolta cruciale della seconda guerra mondiale. Poteva essere davvero
bloccata l’invasione? Si trattò di una sconfitta
onorevole o di una vera e propria capitolazione? Di chi furono le
responsabilità maggiori? Quale strategia difensiva seguirono
le forze armate italo-tedesche ed in quale contesto sociale si svolse
la ritirata? A queste domande la storiografia più recente e la
documentazione archivistica consentono di dare attendibili risposte.
L’accusa
di “tradimento”, che fu subito mossa alle forze armate ed
agli alti comandi italiani incapaci di fronteggiare lo sbarco
angloamericano in Sicilia, ebbe inizialmente una chiara matrice
tedesca. Dalle dure prese di posizione del colonnello Schamalz
sull’ingiustificata resa della piazzaforte di Augusta, alle
proteste del generale Hube e del generale Rintelen circa il mancato
coordinamento delle truppe italo-tedesche nel luglio-agosto 1943,
risulta soprattutto evidente la forte diffidenza tra i due alleati
prima e dopo il 25 luglio, ma anche la difficoltà di stabili
relazioni politiche tra Italia e Germania durante la seconda guerra
mondiale. Alle inevitabili polemiche di parte tedesca, si aggiunsero
però immediatamente le recriminazioni politiche dei fascisti.
Subito dopo la resa di Augusta Farinacci attaccò in modo
sprezzante i vertici militari, delineando uno scenario inattendibile
di un Mussolini ingannato dal falso ottimismo dei suoi generali che
avrebbero occultato in mala fede le insufficienze dell’apparato
difensivo in Sicilia e che per viltà non avrebbero opposto
un’adeguata resistenza. Sulla scia di Farinacci, lo stesso
Mussolini in Storia di un anno non esitò
a lanciare accuse di disfattismo e sospetti sulla lealtà
istituzionale dei capi militari, inaugurando una lunga stagione di
“veleni” contro le forze armate che sarebbe continuata
anche nell’Italia repubblicana. Memorialistica e pamphlets dei
gerarchi fascisti avrebbero perciò accreditato a lungo la tesi
del tradimento militare, con l’obiettivo politico di addossare
sull’esercito le responsabilità della sconfitta. Così
Attilio Tamaro in Due anni di storia (1948) definiva
“menzognere” le assicurazioni fornite al duce dai
generali Ambrosio e Guzzoni circa l’efficienza del sistema
difensivo dell’isola; così Alfredo Cucco nel volume Non
volevamo perdere (1951) giustificava il famoso discorso
mussoliniano del “bagnasciuga” con l’inverosimile
storiella degli alti comandi fuggiti subito dopo la notizia dello
sbarco angloamericano; così il docente universitario
palermitano Giuseppe Maggiore si domandava ironicamente se mai fosse
stata combattuta nel 1943 una battaglia di Sicilia di fronte al
rapido sbandamento delle truppe italiane. Soprattutto nel clima
politico antimonarchico successivo al referendum del 1946 queste tesi
avrebbero temporaneamente ripreso vigore nel fuoco delle polemiche
tra esercito e marina in ordine alle rispettive responsabilità:
basti pensare al volume di Antonio Trizzino, Navi e poltrone
(1953) ed agli strascichi giudiziari che negli anni ’50
coinvolsero i vertici della Marina militare.
Ricondotta
alla sua doppia matrice tedesca e fascista, la tesi del presunto
“tradimento” non regge tuttavia sul piano storiografico.
Da un lato l’ampia letteratura di storia militare, le analisi e
le testimonianze dei protagonisti (si pensi alle Memorie dei
generali Roatta, Faldella, Zanussi, Rossi, Santoro), la
documentazione archivistica messa a disposizione dagli Stati Maggiori
dell’esercito e della marina; dall’altro i contributi
della ricerca storica più recente (Santoni, Aga Rossi)
accreditano soprattutto l’interpretazione sulle responsabilità
politiche della fallimentare difesa della Sicilia, mettendo in
evidenza le gravissime carenze del regime fascista e personali di
Mussolini nella preparazione e nella conduzione della guerra. Come ha
dimostrato puntualmente Alberto Santoni nella monografia Le
operazioni in Sicilia e in Calabria 1943 (1983) la difesa
dell’isola dall’invasione alleata risultò
praticamente impossibile per l’inadeguatezza delle forze
italo-tedesche terrestri, per la superiorità aerea e per
l’assoluto dominio del mare da parte angloamericana. Nonostante
l’evidente disparità logistica e di armamento, tuttavia,
la battaglia di Sicilia non si rivelò una semplice passeggiata
per gli alleati, che dovettero affrontare 40 giorni di pesanti
combattimenti, numerose perdite e dovettero alla fine riconoscere che
gli italiani erano riusciti ad organizzare una onorevole ritirata.
L’inferiorità
delle forze terrestri schierate nell’isola al momento dello
sbarco non era tanto di ordine quantitativo, ma di tipo qualitativo.
Nel complesso l’esercito italiano schierava 230 mila soldati
inquadrati nella VI Armata comandata dal generale Guzzoni ed
articolata in due Corpi d’armata (il XII del gen. Arisio e il
XVI del gen. Rossi); a queste quattro divisioni di manovra, si
aggiungevano cinque divisioni costiere, due brigate autonome ed
alcune unità di supporto logistico, oltre al contingente
militare tedesco, costituito inizialmente da due divisioni corazzate
di 28 mila uomini (che al momento della ritirata sarebbero aumentati
ad oltre 50 mila). Senonché alla quantità non
corrispondeva l’efficienza qualitativa dei reparti: dal novero
delle truppe effettive, infatti, non solo bisognava escludere i 57
mila militari adibiti ai servizi civili nell’isola, ma
soprattutto le divisioni costiere composte per due terzi da elementi
locali ed anziani, guidate da ufficiali della riserva, scarse di
mezzi di trasporto e di armamenti adeguati (1 pezzo di artiglieria
anticarro ogni 3 Km; 1 batteria ogni 8 Km). Fu proprio questa debole
difesa costiera il primo vero tallone d’Achille: divisioni
raccogliticce e senza tradizioni, attrezzate di sole biciclette e con
fucili obsoleti, abbandonate subito dai soldati siciliani che
preferirono rifugiarsi nei paesi d’origine o soccorrere i
propri familiari. Non considerando le unità prive di reale
capacità operativa ha perciò ragione Oreste Bovio
quando nella sua aggiornata Storia dell’esercito italiano
(1996) sottolinea come il rapporto di forze fosse nettamente a favore
degli attaccanti rispetto ai difensori. Anche se le truppe sbarcate
non superarono i 160 mila uomini, gli angloamericani poterono contare
su una maggiore densità degli armamenti: 66 battaglioni di
fanteria contro 47 degli italo-tedeschi, 600 carri armati contro 265,
1800 pezzi di artiglieria contro 500, 4000 aerei contro 800, mentre
per le forze navali non è neppure possibile fare il confronto
data la decisione italiana di non fare intervenire la flotta.
Più
che le forze terrestri, tuttavia, furono l’indiscussa
superiorità aerea e l’assoluto dominio sul mare degli
Alleati a rendere in partenza la difesa dell’isola un’impresa
senza molte probabilità di successo. Nonostante i molti errori
compiuti dall’aviazione angloamericana nel luglio del ’43
(fallimento dei primi aviolanci, mancanza di copertura aerea durante
la controffensiva italo-tedesca a Gela, scarso coordinamento con le
operazioni navali), i 4000 aerei utilizzati dagli Alleati non solo
misero subito fuori uso i dodici aeroporti militari della Sicilia, ma
non subirono mai una efficace azione di contrasto e di interdizione
sia per l’insufficiente appoggio dell’aeronautica tedesca
durante l’invasione, sia perché nettamente inferiori si
rivelarono le condizioni dell’aeronautica militare italiana
(armamento obsoleto, mancanza di aerosiluranti, logorio di mezzi e
materiali per le precedenti guerre d’Etiopia e di Spagna).
Il Mediterraneo rimase in ogni caso saldamente in mano agli Alleati,
che oltre alla continuità dei rifornimenti poterono contare
sulla netta superiorità dell’artiglieria navale (per
calibro, gittata di tiro, mascheramento e mobilità), la cui
protezione risultò decisiva nella fase iniziale dello sbarco e
nella successiva avanzata della fanteria lungo la costa.
Questo
dominio sul mare fu ancor più agevolato dalla decisione
“politica” di non impegnare la Regia Marina in uno
scontro in campo aperto col nemico. La flotta italiana rimase
completamente inattiva e durante l’invasione della Sicilia
restò ancorata a La Spezia e alla Maddalena, con le
inevitabili polemiche nel secondo dopoguerra circa le ragioni per le
quali il Regno d’Italia si fosse ridotto a possedere non tre,
ma solo due forze armate. Dov’era finita la “grande
Marina”, che pure nel 1940 disponeva di 6 corazzate, 31
incrociatori, 43 cacciatorpediniere, circa 60 torpediniere e oltre
100 sommergibili? Perché fu tenuta lontana dai campi di
battaglia e poi consegnata intatta agli Alleati a Malta nel 1943?
Quella di non impegnare la flotta fu in realtà una scelta
strategica fatta personalmente da Mussolini, che preferì non
rischiare l’uso della flotta nelle acque di Sicilia dove
comunque erano prevalenti le forze angloamericane con 7 portaerei, 6
corazzate, 20 incrociatori, 100 cacciatorpediniere e numeroso
naviglio da sbarco. Anche se nel giugno ’43 Supermarina si
dichiarò pronta per “un’azione estrema” nel
canale di Sicilia, lo stesso capo della marina germanica, ammiraglio
Doenitz, sconsigliò l’invio della flotta italiana che
andava risparmiata per una fase successiva del conflitto. Le cose
andarono però diversamente e dopo il 25 luglio il generale
Badoglio si convinse a non impiegare la flotta in operazioni
belliche, in modo da conservarla come possibile moneta di scambio
nelle trattative con gli Alleati per ottenere condizioni di resa meno
dure. Nel documentato volume di Angelo Iachino, Tramonto di una
grande Marina (1959) sono tuttavia elencate con competenza
tecnica alcune deficienze strutturali della nostra flotta: la mancata
costruzione di portaerei, l’arretratezza tecnologica (assenza
di radar), difficoltà nel rifornimento di nafta, logoramento
eccessivo del materiale nautico per garantire i traffici con le
colonie africane e nel canale di Sicilia. Senza pensare ad “un’azione
estrema” Iachino valuta un errore strategico non aver impiegato
la Marina militare con una tattica di contrasto “flessibile”
che avrebbe aiutato logisticamente la ritirata.
La
recente pubblicazione dei verbali delle riunioni dello Stato Maggiore
dell’Esercito nel 1943 mette in luce la forte preoccupazione
dei vertici militari circa le deficienze strutturali del sistema
difensivo nell’isola. Nella seduta del 2 Maggio il comandante
delle forze armate in Sicilia, generale Roatta, delineò un
quadro allarmante ma realistico della situazione: truppe equipaggiate
male, difesa costiera inadeguata, mancanza di materiali e di
manodopera per costruire le fortificazioni, difesa aerea
insufficiente ed aeroporti troppo vicini alle coste e quindi esposti
al fuoco nemico. Le critiche di Roatta erano rivolte esplicitamente
al regime fascista che non aveva mantenuto le promesse di dare
priorità alle necessità militari dell’isola in
previsione di uno sbarco angloamericano, né tacevano sulle
difficoltà degli approvvigionamenti alimentari per la
popolazione civile causate dalla precarietà dei trasporti
ferroviari e marittimi. La decisione di non coinvolgere la Marina
nelle operazioni militari in Sicilia indeboliva ulteriormente le
condizioni logistiche della difesa: allorché l’ammiraglio
Riccardi confermò l’orientamento di non impegnare la
flotta per contrastare lo sbarco, adducendo a giustificazione
l’assoluta inferiorità aerea, allo stesso Roatta non
restò altra replica se non quella di affermare che “allora
potremo fare solo un’onorevole resistenza”.
A fine
maggio a sostituire Roatta (nominato Capo di Stato maggiore
dell’Esercito) viene chiamato il generale Alfredo Guzzoni, che
dopo aver assunto il comando della VI Armata compie insieme al
colonnello Faldella una minuziosa ispezione nell’isola, che
confermò le gravi carenze logistiche nonché “lo
spirito depresso” della popolazione. Il suo rapporto riservato
al Capo di Stato maggiore dell’Esercito del 14 giugno è
davvero impietoso: in Sicilia non funziona niente, occorre rinforzare
al più presto le forze terrestri con altre divisioni italiane
ed almeno con un’altra divisione corazzata tedesca, soprattutto
perché le divisioni “Aosta” e “Napoli”
erano composte da siciliani “che risentono direttamente e
profondamente del disagio morale della popolazione civile”, non
diversamente dai rabberciati battaglioni costieri “formati da
siciliani anziani e comandati da inesperti ufficiali della Riserva”.
La circolare inviata da Guzzoni il 27 giugno ai comandanti dei
reparti col suo asciutto realismo contrasta con la retorica del
regime fascista (il discorso del “bagnasciuga” era stato
pronunziato dal duce tre giorni prima): occorreva evitare ogni
ingiustificato ottimismo, non nutrire eccessiva fiducia sul contegno
delle truppe “che mostrano segni di voler abbandonare il posto
di combattimento o di passare al nemico per proteggere i propri cari
e i propri interessi”.
Lo sbarco
degli Alleati in Sicilia avvenuto nella notte tra il 9 e il 10 luglio
costituì un brusco risveglio per tutti, smentendo
clamorosamente la propaganda fascista circa la inespugnabilità
dell’isola “centro strategico dell’impero” e
confermando l’errore di affidare la tenuta delle difese
costiere già scarse a truppe locali, che smobilitarono subito
di fronte ai massicci bombardamenti aeronavali e alla schiacciante
superiorità militare angloamericana. Appare davvero
paradossale che il regime fascista abbia tentato di applicare la
strategia patriottica della “nazione armata” confidando
sulla resistenza della popolazione locale, quando sin dal 1941
Mussolini aveva decretato il trasferimento coatto di migliaia di
pubblici funzionari dalla Sicilia perché considerati
politicamente “infedeli”. In realtà, più
che le consuete accuse di vigliaccheria e di tradimento, valgono a
spiegare lo sbandamento delle forze armate in Sicilia la
consapevolezza della inferiorità militare e il prevalere della
lealtà “prepolitiche” verso i propri familiari e
le proprie case da mettere al sicuro, tanto più che dopo il 25
luglio il crollo del fascismo aveva accresciuto il disorientamento
generale di soldati e civili.
Nella
drammatica congiuntura politica e militare del luglio-agosto 1943
toccò perciò ai pochi altri ufficiali di stanza in
Sicilia organizzare un’ordinata ritirata in Calabria, evitando
gli esiti catastrofici di una “Caporetto” meridionale. Le
carte private dell’ammiraglio Pietro Barone, comandante della
R. Marina in Sicilia e della piazzaforte di Messina, testimoniano
l’acuta consapevolezza della crisi sociale ma pure la necessità
di salvaguardare l’onore delle armi e la dignità della
patria. Il rapporto segreto inviato il 19 luglio al ministro della
Marina è un documento che non lascia spazio alle illusioni:
dopo lo sbarco nemico – annota l’ammiraglio – si
sono verificati a Messina l’abbandono del posto di lavoro nella
base di tutti i civili e militari, la spontanea cessazione dal
servizio delle milizie portuali e ferroviarie, lo “squagliamento”
di Polizia e Carabinieri, una diffusa tendenza delle truppe alla
diserzione e il contemporaneo disordinato ritorno dal continente di
soldati siciliani sbandati che cercavano di ricongiungersi alle loro
famiglie, l’interruzione delle comunicazioni telegrafiche e
telefoniche nonché del servizio di navi-traghetto sullo
stretto per i danni provocati dai bombardamenti alle invasature di
Reggio e Villa S. Giovanni, il collasso dei servizi pubblici in città
(acqua, luce, nettezza urbana). L’aspetto più
preoccupante riguardava tuttavia la scarsità di generi di
prima necessità per la popolazione civile e la carenza di
rifornimenti alimentari anche per le truppe, tanto che si erano
verificati saccheggi notturni ad opera di civili e militari a danno
sia di magazzini e case private, sia dei depositi dello Stato; i
piroscafi “Piemonte” e “Viminale” (alla fonda
per avarie) erano stati addirittura depredati dagli stessi equipaggi
che avevano disertato, mentre venivano segnalati assalti di civili e
sbandati ai vagoni ferroviari in stazione. Nella circostanza l’alto
ufficiale non si perse d’animo, istituì posti di blocco
per limitare il flusso continuo di sbandati che congestionava le
strade d’accesso alla città, né esitò ad
ordinare la fucilazione immediata per disertori e colpevoli di
pubblico saccheggio. La situazione restava però gravissima e
il malcontento popolare avrebbe potuto esplodere in sanguinosa
sommossa se lo Stato non dimostrava rapidamente di avere ancora
qualche capacità di difesa, come l’uso dell’aviazione
da caccia per contrastare il nemico.
Senza
flotta e privo di mezzi operativi l’ammiraglio Barone assiste
impotente alla resa incresciosa delle basi navali di Porto Empedocle
e di Augusta ed esorta il collega Manfredi che almeno “a
Trapani ed a Messina dobbiamo servire fino all’ultimo la
Patria, a costo della nostra vita, e salvaguardare l’onore
della Marina”.
Ma il 24 luglio è lo stesso alto ufficiale a consigliare a
Guzzoni di cominciare a predisporre per tempo un razionale piano di
evacuazione dall’isola per evitare caos e confusione
dell’ultima ora. Barone si mostra consapevole dei rischi della
ritirata nel continente di fronte all’assoluto dominio del mare
e del cielo da parte del nemico, né ritiene utile fare
assegnamento sul naviglio germanico riservato esclusivamente alle
truppe tedesche; nella impossibilità di realizzare una manovra
simile a quella effettuata a Dunkerque dagli inglesi durante la prima
guerra mondiale, occorreva “inventare” una “ritirata
flessibile” alternando prudenza e rapidità ed
utilizzando al meglio i due traghetti e le poche motozattere
disponibili.
A Roma però si criticarono come premature queste prese di
posizione. Nelle settimane precedenti i gerarchi del Partito
nazionale fascista avevano attaccato duramente l’ammiraglio
Barone, accusato di tramare in Sicilia contro il regime; dopo il 25
luglio è invece lo Stato maggiore dell’Esercito a
mettere in dubbio “la resistenza nervosa” dell’ufficiale,
ritenuto “depresso e sfiduciato e pronto a giustificare
disertori e saccheggiatori in pubbliche conversazioni”. Ma il
generale Guzzoni rifiuta di sostituire l’ammiraglio, che
riconosce “sfiduciato come la maggioranza di coloro che hanno
elementi per valutare la situazione in Sicilia”.
L’arresto
di Mussolini, la fine del fascismo e gli avvenimenti successivi al 25
luglio ebbero comunque un peso determinante sull’andamento
delle operazioni militari in Sicilia. Sin dal giorno 27 le divisioni
germaniche di stanza nell’isola cominciarono a ripiegare benché
gli angloamericani fossero ancora lontani dall’obiettivo del
pieno controllo del territorio. In un clima politico e militare di
grande incertezza il 31 luglio i tedeschi assunsero il comando
unificato delle forze armate in Sicilia ed intensificarono la
ritirata dopo l’attacco degli Alleati su Troina. Furono questi
giorni drammatici di tensioni e di incidenti tra soldati tedeschi ed
italiani, tra tedeschi e popolazione civile: scontri, ruberie,
rappresaglie, razzie e vere e proprie rivolte popolari si
susseguirono per tutto il mese di agosto, mentre interi battaglioni
italiani della divisione “Aosta” si consegnavano agli
angloamericani e ben 9000 uomini della divisione “Assetta”
disertavano.
Le carte dell’ammiraglio Barone documentano dall’osservatorio
messinese la fase finale del ripiegamento italo-tedesco sotto i
pesanti bombardamenti aeronavali degli Alleati che cercavano di
tagliare le linee di comunicazione. Sono giorni difficilissimi,
seminati di morte e distruzioni, tra soldati e civili atterriti dal
fuoco nemico e dai cacciabombardieri, con un piccolo gruppo di alti
ufficiali italiani che tentano di garantire le condizioni logistiche
minime per traghettare uomini e mezzi sulle coste calabre.
Il Diario
giornaliero dell’ammiraglio annota puntigliosamente le perdite
subite, i bombardamenti a tappeto sulla piazzaforte ma anche nel
centro storico e sugli ospedali della città, l’impossibilità
di dare ordini e mantenere in servizio gli equipaggi ed i lavoratori
portuali sottoposti a “sofferenze d’ogni genere che non
possono essere comprese da chi non sta sul posto”,
l’affondamento di motozattere e rimorchiatori, la paralisi
progressiva dei sistemi operativi della base navale di Messina
praticamente indifesa.
Nella
notte tra il 10 e l’11 agosto prende il via la complicata
operazione di trasferimento sul continente della macchina bellica
italo-tedesca. Le navi traghetto “Villa” e “Cariddi”
tra mille pericoli, avarie e attacchi aerei, trasportano 14.000
soldati italiani, 20.000 il giorno successivo, oltre alle motozattere
che fanno la spola e sono ad ogni viaggio assaltate da militari
sbandati che si mischiano alle truppe regolari. L’esercito
italiano e quello tedesco ripiegano in modo parallelo, ma tra i due
contingenti la tensione è altissima. Italiani e tedeschi sono
ancora formalmente alleati, ma per le trattative segrete condotte dal
governo Badoglio stanno per diventare nemici. Diffidenza, disprezzo,
odio e paura sono palpabili e rendono difficili i rapporti tra
ufficiali e truppe dei due paesi. Nel Diario del 12 agosto Barone
sottolinea ritardi e lentezze nella ritirata perché i tedeschi
avevano assunto il controllo delle strade e di tutti i punti
d’imbarco per partire per primi. Essi avevano inoltre requisito
il naviglio più grande e sicuro per traghettare automezzi e
pezzi di artiglieria, costringendo gli italiani ad abbandonare
materiali e mezzi militari.
Mentre le operazioni di trasferimento rallentano per mancanza di
imbarcazioni, il 15 agosto gravissimi incidenti scoppiano nel centro
di Messina tra la popolazione civile ed i soldati tedeschi che fanno
le ultime razzie: centinaia di abitanti assaltano con moschetti e
bombe a mano i convogli germanici in partenza, ma già quella
stessa sera violenti bombardamenti terrestri preannunciano che gli
angloamericani sono giunti alla periferia della città.
All’alba del giorno 16 gli ultimi ufficiali italiani salpano da
Messina e poche ore dopo brillano le potenti cariche di esplosivo che
fanno saltare “Villa Anna”, sede dell’alto comando
delle forze armate , insieme con le batterie contraeree e con tutte
le apparecchiature della base navale; dall’autodistruzione
restano esclusi solo i magazzini di generi alimentari che furono
aperti ai civili.
Dopo 38
giorni di guerra gli Alleati conquistavano la Sicilia. Ma non era
stata certo una passeggiata, se si consideravano i costi umani
dell’invasione: per gli angloamericani si contarono 5.187
morti, 9.000 feriti e 3.300 prigionieri, mentre nell’altro
schieramento si calcolano 4.325 caduti tra i tedeschi e 4.688 le
vittime italiane.
Le previsioni di Eisenhower di una campagna non più lunga di
una settimana si rivelarono errate, ma soprattutto la sconfitta
italo-tedesca fu mitigata dal buon esito delle operazioni di sgombero
dell’isola, condotte con tempestività e con ordine,
nonostante le pessime condizioni ambientali. I tedeschi riuscirono a
traghettare 40.000 uomini, 10.000 automezzi, 20.000 tonnellate di
materiali e un centinaio di pezzi di artiglieria; gli italiani misero
in salvo 75.000 uomini, 500 automezzi e 42 pezzi di artiglieria.
Questi dati confortano l’equilibrato giudizio di A. Santoni,
secondo il quale si trattò di una ritirata onorevole, che può
paragonarsi a quella anglo-francese di Dunquerke nella prima guerra
mondiale o a quella dei giapponesi a Guadalcanal.
Nel 1943 l’Italia era ormai “una nazione allo sbando”
(Aga Rossi), ma “l’operazione Husky” in Sicilia era
stata una guerra vera.
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