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Gli intellettuali dal fascismo alla Resistenza
Angelo Ventura
Il
fascismo, avvertiva Giovanni Amendola, “non ha mirato tanto a
governare l’Italia, quanto a monopolizzare il controllo delle
coscienze. Non gli basta il possesso del potere: vuole il possesso
della coscienza privata di tutti i cittadini”. Per il fascista,
afferma la voce Dottrina del fascismo pubblicata
nell’Enciclopedia italiana - firmata da Mussolini ma
preparata nelle linee fondamentali dal filosofo Giovanni Gentile -,
“tutto è nello Stato, e nulla di umano o spirituale
esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello Stato. Il tal senso il
fascismo è totalitario”. Esso, quindi, “riassume
tutte le forme della vita morale e intellettuale dell’uomo
[...]. Il fascismo insomma non è soltanto datore di leggi e
fondatore d’istituti, ma educatore e promotore di vita
spirituale. Vuol rifare non le forme della vita umana, ma il
contenuto, l’uomo, il carattere, la fede. E a questo fine vuole
disciplina, e autorità che scenda addentro negli spiriti, e vi
domini incontrastata”. Anche il Manifesto degli
intellettuali fascisti (21 aprile 1925), pure scritto da Giovanni
Gentile e riveduto da Mussolini, aveva proclamato “il carattere
religioso del Fascismo”.
Si
afferma così al potere, per la prima volta nel XX secolo, un
movimento politico che assume dichiaratamente la forma e la sostanza
di una religione politica: carattere specifico e fondamentale di ogni
regime totalitario.
Una religione integralistica e intollerante, che esigeva fede
indiscussa nei dogmi ideologici e nei miti che divinizzavano lo Stato
e la nazione, e nel culto del capo carismatico, fonte di verità
e guida infallibile (“Il Duce ha sempre ragione”),
imponendo alle masse irreggimentate, attraverso un complesso sistema
rituale, l’etica dell’obbedienza cieca e assoluta
(“Credere, obbedire, combattere”). A questi fini, per
formare “l’uomo nuovo fascista” e conseguire il
controllo della società di massa, non bastava instaurare un
potere dittatoriale assoluto, sopprimere tutti i diritti di libertà
e reprimere ogni forma di dissenso. Lo Stato totalitario, “Stato
etico”, doveva impadronirsi delle coscienze imponendo la
propria ideologia irrazionale e fideistica, per conquistare il
“consenso” dei diversi ceti sociali. Era un’operazione
di natura culturale e antropologica, che richiedeva l’impegno
sistematico di tutti gli strumenti idonei: la stampa, la radio, il
cinema e l’editoria, le accademie e gli istituti scientifici e
culturali, e soprattutto la scuola e l’università
dovevano essere fascistizzati. La politica culturale assumeva quindi
un’importanza centrale e pervasiva, che attribuiva ai ceti
intellettuali – docenti di ogni ordine e grado, scienziati,
giornalisti, artisti e scrittori - un ruolo politico e civile nuovo e
impegnativo, quasi di sacerdoti cui spettava il compito di elaborare
e trasmettere alle masse il nuovo verbo.
Ma
quale fu la risposta di questi ceti intellettuali? Quali furono, in
particolare, gli atteggiamenti delle élites intellettuali, e
quali i metodi praticati per imporre il loro allineamento al regime?
Certo, sin dalle origini e dal suo primo affermarsi al potere, nel
fascismo erano confluiti gli esponenti dei diversi movimenti politici
e culturali antiliberali e antidemocratici, sorti prima della grande
guerra in un clima di torbido spiritualismo, attivistico e
irrazionalistico, esaltanti il culto vitalistico dell’azione
per l’azione, il mito della violenza risolutrice e la volontà
di potenza: quali il movimento nazionalistico, il sindacalismo
rivoluzionario, il futurismo. Su un altro piano, culturalmente più
elevato, non meno importante era il contributo dell’attualismo
gentiliano.
Ma se muoviamo dal momento della svolta decisiva, tra l’autunno
del 1924 e il 3 gennaio 1925, quando, superata la crisi seguita al
delitto Matteotti, il regime instaura la dittatura a viso aperto,
possiamo constatare che tra gli intellettuali i fascisti
rappresentavano ancora una minoranza.
È
significativo in proposito l’ordine del giorno approvato quasi
all’unanimità per appello nominale (76 voti favorevoli
su 79 votanti), con il quale l’VIII Congresso nazionale della
Federazione della stampa italiana, riunito il 25-28 settembre 1924 a
Palermo, “riaffermando, al di sopra di ogni sentimento di parte
il principio della libertà di stampa, conquista iniziale della
nuova storia d’Italia e condizione necessaria alla vita di ogni
popolo civile; convinto che gli attuali decreti, sottraendo la stampa
alla legge comune per sottoporla agli arbitri
del potere esecutivo”, chiedeva che tali decreti – i Regi
decreti-legge 15 luglio 1923 e 10 luglio 1924 - fossero revocati. E
con un altro ordine del giorno rivolgeva “un riconoscente
saluto agli avvocati e giurisperiti italiani che nel loro recente
congresso di Torino, vollero, con tanta energia, esprimere la
coscienza giuridica della Nazione e salvaguardare le nobili
tradizioni liberali delle nostre curie, affermando il principio della
libertà di stampa”. Tutto il congresso si era risolto in
un’aspra e coraggiosa denuncia degli arbitri governativi e
delle violenze squadristiche che avevano colpito il giornalismo
italiano, e in un’appassionata manifestazione di “fede
nelle libertà conquistate dal popolo italiano”.
Vero
è, per contro, che numerosi, circa 250, erano i nomi dei
partecipanti e di quant’altri avevano inviato la propria
adesione al “Convegno per le istituzioni fasciste di cultura”,
svoltosi a Bologna a fine marzo 1925, dal quale era venuta
l’iniziativa del citato Manifesto degli intellettuali
fascisti. Tra costoro, comparivano molti accademici, diversi
artisti e letterati, e alcune presenze sconcertanti, come l’adesione
di Luigi Pirandello – iscrittosi al partito fascista nel 1924
dopo il delitto Matteotti – o quella di Lionello Venturi, uno
dei dodici professori universitari che nel 1931 rifiuteranno il
giuramento di fedeltà al fascismo, preferendo l’esilio
in Francia; o ancora quella di un liberale conservatore come Luigi
Messadaglia. Nell’insieme un gruppo alquanto eterogeneo, almeno
per quanto riguarda l’atteggiamento ideologico nei confronti
del fascismo. Non meno numerose però, e soprattutto più
autorevoli furono le adesioni al contromanifesto scritto da Benedetto
Croce e pubblicato il 1° maggio 1925, in risposta al manifesto
degli intellettuali fascisti. Nel mondo universitario, tra gli
esponenti dell’alta cultura un largo schieramento, certo
rappresentativo di un più largo fronte di opinione, scendeva
in campo apertamente contro il fascismo, in difesa dei principi di
libertà e democrazia.
Ma
intanto il fascismo procedeva rapidamente alla costruzione del regime
totalitario, ricorrendo a nuovi strumenti giuridici e alla violenza
squadristica per stroncare brutalmente ogni volontà di
resistenza. Il 5 settembre 1924, per mandato di Mussolini, Piero
Gobetti veniva aggredito selvaggiamente a bastonate, pugni e calci;
gravemente segnato nel fisico, morirà a Parigi nel febbraio
1926. Era poi la volta di Giovanni Amendola, già vittima di
un’aggressione nel dicembre ’23: pestato a sangue il 20
luglio ’25 non si sarebbe più ripreso e morirà
dopo alcuni mesi in Francia, il 7 aprile ’26. Nel frattempo,
l’8 giugno 1925 veniva arrestato Gaetano Salvemini, accusato
assieme a Ernesto Rossi, latitante, e altri (tra i responsabili non
individuati erano Carlo e Nello Rosselli e altri intellettuali
antifascisti) di aver partecipato alla pubblicazione del “Non
mollare”, il primo giornale clandestino dopo la soppressione
della libertà di stampa. Alla prima udienza del processo, il
13 luglio, parecchi amici di Salvemini erano venuti da diverse parti
d’Italia per testimoniare la loro solidarietà.
All’uscita dal tribunale si scatenò l’aggressione
da parte di una squadraccia fascista. Finirono all’ospedale
Raffaele Rossetti, l’affondatore della Viribus Unitis,
deciso antifascista, Alessandro Levi, il deputato Enrico Gonzales e
Giovanni Ansaldo. L’avvocato Nino Levi,uno dei suoi difensori
ebbe una mano storpiata in permanenza; l’altro avvocato
difensore, Ferruccio Marchetti, fu aggredito pochi giorni dopo a
Siena e colpito alla testa in modo tale, che qualche tempo dopo ne
morì.
Salvemini doveva riparare all’estero, rinunciando alla cattedra
fiorentina; l’anno prima lo aveva preceduto l’ex
presidente del consiglio Francesco Saverio Nitti, professore
all’Università di Napoli e insigne studioso di economia
e scienza delle finanze, minacciato dalla violenza fascista che aveva
devastato il suo studio. Tanto per limitarci a pochi casi riguardanti
eminenti personalità intellettuali. Non c’era il terrore
sotto il regime fascista?
L’anno
primo della dittatura a viso aperto si chiudeva con la legge 24
dicembre 1925, n. 2300, sulla dispensa dal servizio dei pubblici
funzionari – significativamente alla stessa data della legge n.
2263, che sanciva la sottoposizione del potere legislativo al potere
esecutivo, nella persona del capo del governo. Disponeva dunque la
legge, che il governo avesse facoltà di dispensare dal sevizio
i funzionari e impiegati di ogni ordine e grado civili e militari,
dipendenti da qualsiasi amministrazione dello Stato – quindi
anche magistrati, insegnanti e professori universitari - “che,
per ragioni di manifestazioni compiute in ufficio o fuori di ufficio,
[...] si pongano in condizioni di incompatibilità con le
generali direttive politiche del governo”. Di conseguenza il 7
gennaio seguente Silvio Trentin, professore ordinario di Istituzioni
di diritto pubblico presentava le proprie dimissioni al rettore
dell’Istituto superiore di commercio di Venezia Ca’
Foscari, ritenendo “di non saper conciliare il rispetto delle
mie più intime e più salde convinzioni di studioso del
diritto pubblico”, con le norme imposte da tale legge, e
sceglieva la dura via dell’esilio con la famiglia in Francia,
da dove continuerà la lotta contro il fascismo, aderendo in
seguito al movimento di “Giustizia e libertà”.
Com’è
noto, nel 1931, per suggerimento di Giovanni Gentile, fu imposto ai
professori universitari l’obbligo di giurare di essere fedeli
al regime fascista e di adempiere ai propri doveri accademici “col
proposito di formare cittadini [... ] devoti alla patria e al
Regime fascista”. Un giuramento estorto con la violenza di un
pesante ricatto, che non vincola la coscienza. E però una
violenza subita da molti per necessità con rabbia e turbamento
profondo. Anche l’iscrizione al partito fascista fu
praticamente imposta, specie con le nuove norme emanate nel dicembre
1932 e giugno 1933, le quali avevano stabilito che l’appartenenza
al partito era un requisito obbligatorio per l’ammissione a
tutti i concorsi banditi dalle amministrazioni statali e dagli enti
locali e parastatali. La tessera del fascio appariva ormai una sorta
di formalità burocratica, priva di significato politico. Valga
il giudizio autorevole di Benedetto Croce, che il 18 giugno 1845
indirizzava una lettera a Ferruccio Parri, insorgendo contro la voce,
che gli suonava “incredibile”, secondo cui si era
affacciata l’idea di escludere dal nuovo governo in formazione,
“coloro che furono iscritti comunque al partito fascista. Ma
questo significa ignorare che tutti gl’italiani per esercitare
professioni, erano costretti a iscriversi e che ben pochi poterono,
rinunziando alle professioni, rifiutare l’iscrizione, la quale
prese perciò carattere affatto formale e insignificante. Tanto
vero che molti dei più operosi e benemeriti oppositori ed
eversori del fascismo erano iscritti, e finirono col soffrire
persecuzioni, carcere e peggio. [...] Io annovero tra i miei
migliori amici e collaboratori, durante e dopo il fascismo, di
codesti iscritti per formalità. [...] Ma chi è che
perde il tempo a escogitare e suggerire simili, non dico neppure
cattiverie, ma stupidità”.
Una “stupidità” questa, che ricompare trionfante,
specie negli ultimi anni, in frequenti campagne pubblicistiche,
intese a screditare insigni personalità dell’antifascismo
rinfacciando atteggiamenti e lettere “compromettenti”,
appartenenti al tempo dell’oppressione e della “dissimulazione
onesta”. Nessuno era senza macchia – suona l’antifona
-, tutti erano fascisti o filofascisti, oppure cinici o pavidi
opportunisti: l’antifascismo non era migliore del fascismo,
superiamo il “paradigma antifascista”.
Ora
si deve considerare che il potere, qualunque sia il regime, per il
solo fatto di esistere e di durare a lungo, si autolegittima. Quando
poi il potere è totalitario e non consente dissenso e
circolazione di idee, valutare l'estensione e la natura del consenso
è impresa ardua e quasi impossibile. Il regime è
imposto e interiorizzato come un dato di fatto apparentemente
irreversibile, che non lascia intravedere alternative. Anche nelle
coscienze più ferme di molti antifascisti subentra la
rassegnazione, s'insinua, ancora più insidioso, il dubbio di
essere fuori e contro la storia, epigoni superati, testimoni
superstiti di una civiltà ormai condannata al tramonto, di
fronte a quello che appare l'ineluttabile trionfo di una nuova epoca
di barbarie, forse un nuovo ordine fondato su un'ideologia negatrice
di tutti i valori su cui era fondata la civiltà europea. E'
questa l'angoscia che Piero Calamandrei esprimeva nel suo diario.
Dobbiamo calarci nella prospettiva e nello stato d'animo di coloro i
quali hanno vissuto quegli anni Trenta, in cui il fascismo era
saldamente al potere, e pareva destinato a dominare un'intera epoca
storica.
Secondo
una periodizzazione consolidata nella storiografia e nella sua
vulgata, i primi segni di crisi del consenso al regime si manifestano
già all'indomani della guerra d'Etiopia. Un'opinione condivisa
in parte anche da Renzo De Felice, che però parla soprattutto
di "distacco psicologico" dal fascismo: una definizione più
persuasiva, insieme più penetrante e più sfumata,
specie per quanto riguarda l'atteggiamento dei ceti medi().
Secondo dunque l'interpretazione corrente, la crisi del consenso che
si avverte dopo il '36 si accentua a partire dal '38, in conseguenza
della svolta radicale del fascismo: le leggi razziali, la campagna
contro la "borghesia", il ridicolo dello staracismo,
l'impopolare alleanza con la Germania, perfino i riflessi della
guerra civile spagnola (confondendo una certa ripresa di attività
antifascista con l'atteggiamento generale della popolazione), infine
l'entrata in guerra nel giugno 1940, concorrerebbero a un progressivo
distacco della nazione dal regime. Se però noi guardiamo al
mondo accademico e della cultura, all'atteggiamento degli
intellettuali, credo che dobbiamo rivedere in parte questo
giudizio. Si ha la sensazione che al distacco di una ristretta
élite faccia riscontro una più generale tendenza
all'allineamento.
Le
leggi razziali, ad esempio, brutale negazione dei fondamenti
umanistici, laici e cristiani, delle nostre tradizioni culturali,
suscitano certo sconcerto e riprovazione e scuotono alcune coscienze
più avvertite, ma raccolgono anche consensi tra i ceti
intellettuali().
Più generalmente, non vi è alcun indizio che nel mondo
della cultura la svolta razzistica e antisemita sia percepita come
una frattura irriducibile nei confronti del fascismo, come una remora
morale a collaborare con il regime. Così, se guardiamo al
mondo cattolico, dal quale pure si levano alcune voci di dissenso,
per la verità poche e spesso ambigue, scopriamo che sono
proprio i centri intellettuali più qualificati, i focolari
dell'alta cultura deputati alla formazione della classe dirigente
cattolica, che con maggiore convinzione si allineano al clima della
campagna antisemita; e vi anche chi si spinge sino ad avallare
l'ipocrita teoria di un preteso "razzismo spirituale" - una
contraddizione in termini - inventata dagli ideologi del regime per
distinguersi dal razzismo nazista e contestare, rivestendole di una
patina spiritualistica, le rozze mistificazioni del razzismo e
dell'antisemitismo. Alludo naturalmente all'Università
Cattolica di padre Agostino Gemelli, al gruppo di "Vita e
pensiero" che ne era emanazione, a "Civiltà
cattolica", l'autorevole rivista dei gesuiti. Magari si
condannano i presupposti dottrinari del razzismo, specie quelli del
neopaganesimo nazista, che perseguita le chiese cristiane e in primo
luogo quella cattolica, ma nel contempo si porta acqua al mulino
della campagna antisemita. Com'è noto, le posizioni nel mondo
cattolico erano complesse e contraddittorie. Non entriamo nel merito.
Voglio dire semplicemente che gli intellettuali cattolici, i giovani
soprattutto, trovavano nelle loro massime istituzioni culturali
l'incoraggiamento ad allinearsi al fascismo, senza che le leggi
razziali costituissero alcun impedimento morale.
Neppure
nel mondo accademico si colgono reazioni significative alle leggi
razziali, che pure con l'espulsione dalle Università e dalle
istituzioni accademiche e di ricerca di insigni maestri e promettenti
allievi recavano un duro colpo alla scienza e alla cultura italiana.
Anche se certo in cuor loro molti docenti, pure fascisti, com'è
il caso di Giovanni Gentile, non approvavano i provvedimenti contro
gli ebrei. Non mancano invece adesioni ufficiali alla politica
razziale, spesso con accenti di motivato consenso, nei discorsi
inaugurali pronunciati dai rettori di alcune Università
all'apertura dell'anno accademico 1938-39: così a Roma,
Bologna, Palermo, Firenze e Padova().
Docenti e studiosi autorevoli accolsero le misure antisemite come una
svolta salutare, suscettibile di positivi sviluppi. Così
Armando Carlini, un filosofo passato dall'idealismo ad una forma di
spiritualismo cristiano più consono al clima culturale
dominante dopo la Conciliazione, riteneva giunta l'ora di proporre al
ministro dell'Educazione nazionale di introdurre l'insegnamento della
teologia nelle Facoltà di filosofia (con docenti e programmi
stabiliti d'accordo con la Santa Sede!), dal momento che le leggi
razziali avevano "tolto l'ultimo ostacolo" a questo
ulteriore passo nella restaurazione dello Stato confessionale().
Gaetano Pietra, preside della Facoltà padovana di scienze
politiche, studioso autorevole di statistica e demografia, indicava
nella situazione nuova creata dalle norme antisemite l'occasione per
attuare una redistribuzione della proprietà fondiaria a favore
delle classi contadine, mediante l'esproprio delle terre possedute
dagli ebrei();
e curava, con altri professori dell'Università,
l'organizzazione a Padova della prima mostra razziale, con una
speciale sezione dedicata agli ebrei. Nel comitato scientifico della
rivista "Diritto razzista" figuravano nomi illustri di
professori universitari: giuristi come Santi Romano e Fulvio Maroi,
gli storici del diritto Arrigo Solmi e Pier Silverio Leicht, lo
storico Pietro Fedele, e alti magistrati come Antonio Azara, poi
senatore della Repubblica per la DC e ministro della Giustizia nel
1953 con il governo Pella().
Cito tra i tanti questo caso, che dimostra chiaramente due cose. La
prima è che nessuna seria ragione poteva costringere o
semplicemente indurre personalità tanto illustri e autorevoli
a prestare il loro nome a questa spregevole rivista, fondata e
diretta da un personaggio alquanto folcloristico come Stefano Mario
Cutelli, un avvocato e pubblicista, che non poteva vantare alcun
titolo di credibilità scientifica().
La seconda, che si deduce di conseguenza, è che inviando
liberamente la loro adesione queste personalità ritenevano di
poterlo fare impunemente, senza incorrere nel discredito e nel
biasimo morale da parte dei colleghi accademici e magistrati.
Lungo
sarebbe, e del resto largamente noto, l'elenco di professori
universitari, studiosi, scrittori, giornalisti e intellettuali delle
diverse professioni, che contribuirono attivamente, con gli scritti e
con la loro autorevolezza, alla campagna razziale. Non stupisce che
in questo clima molti giovani cresciuti e indottrinati dal fascismo,
sprovveduti o rampanti che fossero, seguendo le suggestioni che
venivano da tante parti, anche dalle sedi più alte del sapere,
o che tali apparivano, formassero un coro di consenso alla politica
razziale e all'ideologia razzista. Insomma, la tesi che le leggi
razziali abbiano inferto un vulnus nella coscienza collettiva,
e in particolare segnato la crisi del consenso da parte dei ceti
intellettuali, non trova nelle fonti conferme persuasive, e resta
tutta da dimostrare.
Gli
anni 1938-1940 sono anni terribili. La Spagna repubblicana è
travolta e anche sulla penisola iberica si estende il dominio del
fascismo; nulla sembra arrestare la marcia della Germania nazista:
Austria, Cecoslovacchia, Polonia, Danimarca e Norvegia, infine la
Francia. Sono gli anni di crisi più profonda e di depressione
anche dell'antifascismo militante, sul quale si abbatte pure lo
sbandamento dei comunisti, provocato dal patto russo-tedesco del 23
agosto 1939. Le ripercussioni di queste drammatiche vicende sono
profonde anche in Italia. Adottiamo pure l'ambigua categoria del
consenso, purché se ne intenda la validità in virtù
appunto della sua ambiguità, comprensiva dei più
diversi atteggiamenti: dall'adesione convinta al più servile
opportunismo, dal consenso al regime - inteso soprattutto come
affermazione di ordine e disciplina sociale, e dei valori patriottici
su cui faceva leva - senza identificarsi con gli aspetti più
rozzi e radicali del fascismo, alla rassegnata accettazione, peraltro
non insensibile alle suggestioni del clima littorio e imperiale.
Un'ambiguità che spesso era nell'interiorità della
coscienza, in una sorta di incertezza crepuscolare dello spirito,
specie in uomini di cultura con un proprio patrimonio di idee e di
esperienze, anche politiche, alle spalle().
Consideriamo
alcuni aspetti ed episodi più significativi della vita
culturale nel 1940, un anno per molti versi periodizzante, a guerra
europea cominciata, sulla soglia o all'inizio dell'intervento
italiano nel conflitto, mentre il regime da qualche anno incontrava
crescenti difficoltà a mobilitare il consenso degli italiani,
e anzi la nota relazione di Bottai a Mussolini denunciava addirittura
"quattro anni di silenzio ostile della cultura"().
Il primo episodio che s'impone alla nostra considerazione è
il grande convegno nazionale di mistica fascista, svoltosi a Milano
nel febbraio del 1940, momento culminante ed esemplare di quella
santa alleanza tra cattolici neoscolastici e "spiritualisti"
di vario genere, uniti in una sorta di crociata contro l'idealismo e
il razionalismo, contro ogni concezione immanentistica e
storicistica, in primo luogo, contro la stessa interpretazione
gentiliana della ideologia fascista().
Occorre ricordare che la Scuola di mistica fascista, organizzatrice
del convegno, aveva assunto un ruolo di punta nel processo di
radicalizzazione del regime, sviluppando l'ideologia del fascismo
come mistica, religione secolare fondata sul culto del duce, "solo
Creatore" del fascismo e quindi della sua dottrina. Le lecturae
Ducis, una delle più significative attività della
Scuola, consistevano appunto nella lettura ed "esegesi" di
scritti e discorsi di Mussolini, la cui parola - come la parola di
Dio nei libri sacri delle religioni positive - costituiva "la
sola, l'unica fonte della mistica". La mistica fascista era
torbido impasto di irrazionalismo e vitalismo, di confuso e
velleitario spiritualismo pseudofilosofico e volontarismo politico.
"La mistica - affermava Niccolò Giani, fondatore e
direttore della Scuola - non è, né può essere
una nozione di cultura da esprimere in quattro parole. Essa è
uno stato d'animo, un grado di perfezione dello spirito [...]. Siamo
mistici perché siamo degli arrabbiati, cioè dei
faziosi, se così si può dire, del Fascismo, uomini
[...] partigiani per eccellenza e quindi - per il classico borghese -
anche assurdi [...]. La Storia, quella con l'esse maiuscola, è
stata, è e sarà sempre un assurdo: l'assurdo dello
spirito e della volontà che piega e vince la materia: cioè
mistica"().
Lo spiritualismo antirazionalistico e antiidealistico era il comune
denominatore e il terreno di convergenza tra cattolici neoscolatici,
"realisti", e spiritualisti vari che confluivano insieme a
formare il fronte unico della "filosofia nazionale" del
regime, dominante negli anni Trenta nella pubblicistica e nei
convegni filosofici.
Ora
a questo mega-convegno di mistica fascista, per discettare sul tema
Perché siamo dei mistici, sulla base di tre relazioni
generali - Tradizione antirazionalistica e antintellettualistica
del pensiero degli italici, Caratteristiche e momenti mistici della
storia d'Italia, Valore e funzione della mistica nella dinamica della
Rivoluzione fascista - partecipano circa 500 persone, tra le
quali molti studiosi, tra i più autorevoli e qualificati:
filosofi, storici, giuristi. Tutte le Università sono
rappresentate. Da Padova, ad esempio, intervengono Emilio Bodrero,
senatore e importante gerarca del regime, oltre che professore
ordinario di storia della filosofia, Giuseppe Flores d'Arcais, Marino
Gentile e Luigi Stefanini. E' una partecipazione attiva, che si
concreta in tre relazioni sul primo tema del convegno, svolte da
D'Arcais (Antirazionalismo di Giambattista Vico), Bodrero
(Caratteri tradizionali della mistica romana e italiana e
lineamenti di mistica fascista), e Stefanini (Varietà
di atteggiamenti mistici in rapporto alla forma specifica
degl'Italici).
Stefanini
era anche consultore, vale a dire consigliere e collaboratore
organico della Scuola di mistica fascista, come Umberto Padovani,
professore ordinario di filosofia morale all'Università
Cattolica del Sacro Cuore, e membro del comitato di direzione di
"Dottrina fascista", la rivista della Scuola, che pure
svolse al convegno una relazione sul tema: Perché il
fascismo è una mistica. Tra i partecipanti troviamo altri
due autorevoli docenti dell'Università Cattolica: Gustavo
Bontadini, forse il più robusto ingegno speculativo
dell'indirizzo neoscolastico, e Paolo Rotta, ordinario di storia
della filosofia. Dal canto suo Michele Federico Sciacca, allora
all'Università di Pavia, altro qualificato esponente, con
Stefanini, dello spiritualismo cattolico, inteso alla restaurazione
della metafisica tradizionale cristiano-cattolica in senso
platonico-agostiniano piuttosto che tomistico, interveniva con una
relazione su Antintellettualismo e antirazionalismo della
filosofia italiana. Ma per quanto riguardava il rapporto con il
fascismo non vi era una sostanziale differenza tra neotomisti e
spiritualisti cristiani. Così un Bontadini aveva potuto
sottoscrivere al convegno nazionale di filosofia del 1930 l'impegno
di Mussolini per un'educazione guerriera della gioventù,
opposta alla spirito critico: di critici, di filosofi "alla
Patria ne bastano pochi, quei pochi dai quali soltanto la filosofia
può aspettarsi qualche giovamento. Occorre invece - alla
Patria - che tutti sappiano, meglio che criticare, obbedire. Lo
spirito critico popolarizzato equivale, almeno potenzialmente,
all'anarchia"().
Il
fronte antidealistico e antistoricistico si era formato sul terreno
della negazione dei valori e delle esperienze storiche che avevano
costituito la moderna civiltà occidentale, nel loro svolgersi
dall'Umanesimo al Rinascimento all'illuminismo, approdando al
liberalismo, alla democrazia e al socialismo: idee e movimenti
politici, che l'ideologia del regime condannava come estranei alla
tradizione e allo spirito originario della civiltà italiana:
nefaste influenze straniere, venute soprattutto di Francia e
Inghilterra. Lo stesso cattolicesimo italiano ne era stato
contaminato. Colpa questa soprattutto della Francia, asseriva De
Luca: "di averci dato un cattolicesimo tutto conferenze,
opere sociali, libri e libercoli, riviste, ritiri annuali semestrali
mensili: tutte cose, insomma, che possono avere e fare soltanto i
borghesi"().
Così pure i collegi femminili erano retti da ordini religiosi
francesi. "Le nostre donne, pertanto, avranno per libro di
pietà, un libro francese; per santo, un santo francese; per
oratore, un oratore francese; per devozione, una devozione francese
(Lourdes, Sacro Cuore...); tutto francese. Francese la moda, francesi
i vini; e francese la Chiesa e la devozione, Corpo e anima,
francesi"().
Questo
singolare sfogo di umori nazionalistici in versione ecclesiastica
rispecchiava un programma di "ritorno al medioevo", analogo
a quello perseguito da padre Gemelli fin dal 1914(),
conforme all'ideologia della Chiesa cattolica, che era ancora la
Chiesa del Sillabo: della condanna del liberalismo, dello
Stato laico e della libertà di coscienza, la Chiesa della
proclamata inconciliabilità con la civiltà moderna. Un
ritorno al medioevo come restaurazione di un cattolicesimo autentico,
riscattato dagli errori e dalle perversioni accumulati in quattro
secoli di pensiero moderno; un cattolicesimo inteso quale forma
specifica dell'ideologia italiana, espressione dell'anima profonda
del popolo italico e delle sue tradizioni. Si doveva innanzi tutto
cancellare l'illuminismo e quanto era disceso da esso. "Liquidare
l'illuminismo. D'origine protestantica e massonica",
consigliava a Bottai. "Una campagna contro l'illuminismo
ci libererebbe dai professori [...] e dai giornalisti e
agitatori"().
Su questa linea di un cattolicesimo nazional-popolare
medioevaleggiante, intriso di irrazionalismo, fondato su un
concezione politica antiliberale e antidemocratica, autoritaria e
gerarchica, molti intellettuali cattolici aderivano al fascismo con
convinzione. Naturalmente non mancavano le voci del dissenso. A
Firenze, per fare un solo esempio, c'era Giorgio La Pira,
notoriamente antifascista. Ma, insomma, l'intelligencija
cattolica era in grande maggioranza fascista o filofascista. Al
fascismo si riconosceva il merito aver spazzato via liberalismo e
democrazia, liquidato lo Stato laico, interrotto e invertito con uno
strappo violento il corso di un processo storico che dall'Umanesimo
si era conseguentemente sviluppato per cinque secoli sino alla
democrazia e alla scristianizzazione della cultura e della società.
E'
il caso di rileggere un passo, largamente noto, di un articolo
pubblicato nel febbraio 1939 su "Il Frontespizio" - la
rivista politico-letteraria di Giovanni Papini, Piero Bargellini,
Ardengo Soffici e altri esponenti del clerico-fascismo, della quale
De Luca era autorevole ispiratore - in sintonia con la campagna
contro la "borghesia" lanciata da Mussolini. "La
borghesia - scriveva De Luca - è la tentazione dell'uomo
mediocre e anfibio. Le classi naturali dell'uomo civile sono due
sole: i pochi patrizi, e il popolo innumerevole. I primi sono coloro
che per forza preponderante d'ingegno e di natura giungono al comando
mentre il popolo, restando umile e alla terra, obbedisce senza
schiavitù, comprende senza cultura, dona senza ricchezza. La
borghesia, di natura sua, è mezzana. Tenta il popolo,
offrendogli scuole, comodi, lucri, sciccherie da poco; tenta i
nobili, offrendo a loro viltà, anonimato e il salvacondotto
del 'così fan tutti'. Al popolo toglie la semplicità
potente, la casta ignoranza, la libertà creatrice, la
pulitezza che non nasce dal sapone e dal bagno, e la fede che non è
credulità. Al nobile toglie, anzi ha tolto, dignità,
fierezza, sentimento di gloria e quella paternità e sovranità
naturale per cui era pronto a pagare lui, d'avere e di persona"().
Sono i motivi tipici della cultura reazionaria del radicalismo di
destra.
Se
dal convegno di mistica fascista allarghiamo lo sguardo ad altre due
imprese culturali che vedono la luce nello stesso anno 1940 - il
Dizionario di politica pubblicato a cura del P.N.F., e
"Primato", la nuova rivista di Bottai - possiamo constatare
quanto generale e avanzato fosse il processo di integrazione nel
regime degli intellettuali. Per quanto diverse e complesse fossero le
motivazioni che inducevano un così gran numero di
intellettuali a rispondere all'appello di Bottai, che invitava al
"coraggio della concordia: risultante di quel nutrito
amore all'arte e alla Patria, e mezzo indispensabile per imporre il
primato spirituale degli Italiani di Mussolini", i collaboratori
di "Primato" non potevano non essere consapevoli di
contribuire alla riuscita di un'iniziativa che si proponeva di
mobilitare attorno al regime fascista le forze vive della cultura().
Del resto la linea generale della rivista, gli editoriali e gli
articoli che in ogni numero ne davano la chiave di lettura politica -
come i velenosi attacchi contro Francia e Inghilterra scritti sotto
pseudonimo da don Giuseppe De Luca - non consentivano equivoci. Pure
studiosi autorevoli come lo storico Carlo Morandi, il filosofo
Galvano Della Volpe, filologi e linguisti come Giorgio Pasquali e
Bruno Migliorini, nei loro articoli, tecnicamente ineccepibili,
riecheggiavano i motivi e i toni della politica del regime e della
sua propaganda. In tale contesto assumevano di riflesso una valenza
politica anche gli interventi più asettici, di argomento
letterario o artistico (ma anche questi argomenti si prestavano alle
suggestioni del regime, come l'esemplare rassegna di Renato Guttuso
dedicata a La mostra degli squadristi)().
Certo
sulle pagine della rivista emergevano anche le inquietudini della
giovane generazione, la percezione, in taluni, lucida e intensa
della crisi della civiltà europea, di cui l'Italia era
partecipe. A posteriori possiamo leggervi in nuce i motivi e i
presentimenti di una maturazione di coscienza antifascista. Basti
ricordare gli scritti di Giaime Pintor. Ma saranno appunto
l'andamento disastroso della guerra e il suo esito catastrofico a
render chiaro ciò che prima era confusamente intuito, a
determinare il distacco dal fascismo, la svolta nell'itinerario
politico e ideologico di tanti intellettuali. Per il momento, agli
inizi degli anni Quaranta, ben pochi potevano dirsi approdati
all'antifascismo, come la ristretta cerchia dei liberalsocialisti
attorno a Guido Calogero, e alcuni giovani intellettuali, come Mario
Alicata e Pietro Ingrao, che appena allora avevano potuto stabilire i
primi collegamenti con l'organizzazione comunista. L'atteggiamento
generale prevalente era ancora l'adesione al regime, o l'accettazione
di esso come uno stato di fatto, una condizione data, quasi naturale,
pervasiva di tutta la vita sociale e culturale italiana. Riflettendo
nel 1943, nei giorni della nemesi del regime, sulle diverse forme
dell'antifascismo - quella caratterizzata dall'astensione, propria
dei vecchi liberali e di tutti coloro che ne avevano ereditato la
formazione, i quali "badavano soprattutto a non macchiarsi e
insistevano quindi sugli atti di valore formale” (iscrizione al
partito, saluti, dare del lei ecc.), e l'antifascismo militante dei
fuorusciti e di quanti cospiravano in patria, al quale pure
appartenevano "le migliori energie" -, Giaime Pintor
contrapponeva "una terza tendenza di cui pochissimi però
furono consapevoli [...] cui si trova portata la nostra generazione
più giovane. Astenersi fin dalla nascita, è poco più
che il suicidio, così noi tutti ci trovammo mescolati, chi più
chi meno, nella vita contemporanea e disposti a coglierne i frutti.
Questa posizione era molto pericolosa perché poteva facilmente
confondere gli animi più deboli, era però la più
feconda: essa segnava il superamento definitivo dell'antitesi
fascismo-antifascismo [...]"().
E' questa una chiave di lettura che consente di comprendere lo
straordinario successo dei Littoriali della cultura e dell'arte
organizzati dal regime, mobilitazione di massa dei giovani
intellettuali, in cui si metteva in luce una nuova generazione di
intellettuali destinati a emergere in ogni campo - dalla politica,
alla letteratura, all'arte - nell'Italia repubblicana.
Nel
clima creato dalla dittatura totalitaria la difficoltà e in
pratica l'impossibilità di "astenersi", se non a
prezzo di una scelta eroica di ferma opposizione, era vissuta - come
si è visto - anche dalle generazioni più mature. La
pressione ideologica del fascismo scavava in profondità nelle
coscienze. Sarebbe troppo semplicistico, un vero peccato
d'incomprensione storica, liquidare l'adesione e il cedimento di
tanti intellettuali, anche insigni, come mero fenomeno di corruzione
opportunistica, anche se di opportunismo servile diedero larga prova
gli intellettuali - "questa ignobile marmaglia che ha reso
possibile il trionfo del fascismo", commentava Piero
Calamandrei():
effetto della dittatura fascista, la quale fu scuola di doppiezza e
di servilismo, corruttrice della tempra morale degli italiani.
Con
la guerra in atto, d'altra parte, tutti avvertivano che le sorti del
regime e del paese erano in gioco, e si confondevano insieme. Le
reazioni degli italiani, intellettuali compresi, erano
contraddittorie, e riflettevano l'andamento del conflitto. In una
prima fase l'avversione alla guerra, i dubbi e le critiche venivano
messi a tacere da un sentimento di dovere nazionale e dalla
previsione, che pareva realistica, di un prossimo esito del conflitto
vittorioso per le potenze dell'Asse. Anche la minacciosa prospettiva
di un'Europa dominata dalla strapotenza della Germania nazista
induceva a stringersi attorno al governo nazionale, a confidare nella
capacità di tenuta dell'Italia, soprattutto a sperare in
qualche mossa politica risolutrice del duce, in grado di ristabilire
l'equilibrio nei confronti del più potente alleato. Per
cogliere veramente tra gli intellettuali i segni di un diffuso
distacco dal fascismo bisogna arrivare alla svolta decisiva del
conflitto, al '42 inoltrato, quando comincia ad apparire chiaro a
tutti che il regime, e con esso l'Italia, si avviano alla sconfitta e
alla catastrofe.
Il
Dizionario di politica a cura del Partito Nazionale Fascista,
quattro grossi volumi pubblicati nel 1940(),
offre un quadro illuminante dell'adesione, o dell'allineamento
generale del ceto accademico al clima del regime. L'elenco dei
collaboratori è impressionante. Veramente pochi nomi mancano ,
tra i cultori delle discipline pertinenti a un dizionario di
politica. Limitandoci agli storici, come un campione assai
significativo che siamo meglio in grado di valutare, vi troviamo,
accanto a qualificati esponenti del regime come Francesco Ercole e
Gioacchino Volpe, quasi tutti i nomi più autorevoli della
giovane generazione affermatasi negli anni venti e trenta. Delio
Cantimori, innanzi tutto, i cui contributi spiccano per quantità
e importanza (la "voce" Nazionalsocialismo è
una sintesi magistrale, insuperata per rigore e lucida incisività)
();
poi, citando alla rinfusa, Carlo Morandi, Ernesto Sestan, Federico
Chabod, Walter Maturi, Nino Cortese, Piero Pieri, Roberto Cessi che
pure non era iscritto al PNF, Augusto Torre, Franco Valsecchi,
Rodolfo Mosca, Roberto Battaglia futuro storico della Resistenza; e
ancora il medievista Giuseppe Martini, che assieme al glottologo
Antonino Pagliaro - fervente ideologo del fascismo - e a Guido
Mancini, docente di storia della filosofia e delle dottrine
politiche, componeva la redazione del Dizionario di politica.
A questi si aggiungevano altri professori di discipline affini, ma
egualmente studiosi di storia, e autori di contributi di argomento
storico, come Arturo Carlo Jemolo e Felice Battaglia. Certo, la loro
collaborazione riguardava voci di argomento storico, che di per sé
non comportavano intima adesione al fascismo. Ma nel 1940 (o 1939,
quando furono verosimilmente scritti in gran parte i singoli
contributi), si era in piena dittatura totalitaria, dopo le leggi
razziali, dopo l'alleanza con la Germania nazista e il "patto
d'acciaio", mentre la guerra incombeva o era già iniziata
- come si deduce da alcune "voci", ad es. di Cantimori
sulla Germania e sul Nazionalsocialismo - e l'Italia fascista era
sull'orlo dell'intervento. Collaborare a un'impresa culturale di così
marcata e dichiarata finalità politica e ideologica
significava quanto meno accettarne l'ispirazione di fondo. Certo
possiamo constatare che i collaboratori non erano trattenuti da
alcuna pregiudiziale etica o politica nei confronti del regime, ma
anzi guardavano al fascismo, trionfante in Europa, con spirito aperto
e sostanzialmente favorevole. E del resto in non poche di queste
"voci" - non in tutte, non ad esempio in quelle di Chabod -
si riflettono le suggestioni del clima fascista, e si colgono toni di
consenso alla politica del regime, in qualche caso anche accenti
encomiastici nei confronti di Mussolini. Estrapolare sistematicamente
i passi più significativi, per dimostrare questi toni e
accenti, sarebbe operazione di dubbia correttezza, che farebbe torto
alla comprensione storica. Una rassegna di questi scritti non si
potrebbe fare fuori di una attenta analisi del loro contenuto
sostanziale, e del momento storiografico in quel particolare clima
politico e culturale.
Consideriamo
gli scritti di, Arturo Carlo Jemolo, giurista e storico insigne,
maestro di rigore morale e di virtù civile per più
generazioni, un liberale cattolico di cui per concordi testimonianze
era nota l'intima avversione al fascismo. Spettano a lui, nel
Dizionario di politica, le "voci" riguardanti i
rapporti tra Stato e Chiesa, sempre risolti dall'intervento
provvidenziale del Duce, che con il suo occhio sicuro guarda lontano.
"Chi abbia la sana coscienza realistica di un italiano della
civiltà fascista", assicura Jemolo sotto la "voce"
Chiesa e Stato, sa che ogni paese e ogni epoca storica hanno
diverse esigenze. Una lunga citazione del Duce illustra il concetto.
"Anche questo problema dunque, come tutti quelli che la
Rivoluzione fascista trovò sulla sua via - assicura ancora
Jemolo -, fu affrontato e risolto" con gli accordi del Laterano.
"Soluzione contingente: ottima là dove di fronte alla
Santa Sede sta il regime fascista: 'regime leale, schietto, preciso,
che dà la mano aperta, ma che non dà il braccio a
nessuno', regime fortissimo, regime circondato di enorme prestigio;
il 'regime fascista, creatore di nuove forze economiche, politiche,
morali, che fanno di Roma uno dei centri più attivi della
civiltà contemporanea' (discorso del Duce in Senato, 25 maggio
1929)". Soluzione ottima che non esclude la possibilità
di divergenze, ma che ha certezza di durata. "'La pace durerà':
disse il Duce: e pure a questo proposito la storia avallerà
ch'Egli guardò lontano con occhio sicuro". Sono i toni e
i concetti che coronano tutte le altre "voci" (Azione
Cattolica - Guarentigie - Laterano, accordi del );
ma si veda anche in proposito dello stesso Jemolo, il saggio La
questione romana (1938): "occorreva venisse l'Uomo capace di
comprendere che il momento era giunto, capace di superare le residue
difficoltà [...]. Nel 1929 quest'Uomo dominava ormai da sette
anni la vita italiana, e la sua figura già si levava poderosa
sul cielo d'Europa [...]"().
Allora andiamo a rileggere alcune pagine di Anni di prova, il
suggestivo libro memorialistico di Arturo Carlo Jemolo. Sono pagine
che possono valere come guida per capire quegli anni, e cercare la
via della comprensione nel giudizio storico. "I regimi
totalitari sono deprimenti per l'uomo. Ci sono gli eroi, quelli che
affrontano nell'esilio la miseria nera, la morte dei figli per
privazioni; quelli che in patria subiscono condanne a trent'anni e
non chiederanno mai la grazia. Ma ci sono quelli che hanno troppo
contato sulle proprie forze", e finiscono per cedere e diventare
confidenti della polizia e provocatori, o si lasciano dettare le più
umilianti lettere di pentimento. "E ci sono molti che non hanno
fiducia in sé, e si rodono il fegato senza osare mai
d'impegnarsi a fondo, di compiere l'azione che può costare la
prigione o la perdita del pane quotidiano, e talora si disprezzano e
perdono la stima del proprio io, che è la preparazione ad
ulteriori cedimenti; talora finiscono per dubitare di tutto; di porsi
la domanda - agisco meglio io che sono come il gatto bianco
preoccupato solo di sporcarsi il meno possibile il pelliccino (perché
candido nessuno riesce a tenerlo; ci sarà sempre una frase
scritta, un gesto compiuto, l'adesione ad una sottoscrizione, una
onorificenza non rifiutata, che a buon diritto potrà esserci
rimproverata come un cedimento)[...]. Talora, in uno di quei grovigli
che solo Dio può sciogliere, la paura, il desiderio di vita
tranquilla, di vantaggi, l'umiltà di non pretendere di
giudicare meglio di tutti gli altri, portano a conversioni, a dire -
avevo sbagliato -, ad accettare il fascismo. [...] Nei primi anni
c'era la fiducia che il fascismo sarebbe passato", ma poi il
regime si era consolidato, Hitler era andato al potere, Italia
fascista e Germania nazista sembravano non incontrare limiti. "Tutto
faceva pensare che nazismo e fascismo dovessero durare secoli. Si
ponevano confronti, problemi pericolosi: la caduta di Roma, le
dominazioni barbariche, il mescolamento di popoli e la nuova civiltà
ch'era scaturita da quelle; dal male attuale non poteva scaturire un
gran bene? [...] Il coraggio viene facilmente meno allorché si
pensa che tutto sia inutile, che la nostra protesta resterà
solitaria, che se potremo ancora sottrarre al Moloch l'anima dei
nostri figli, non potremo sottrargli quella dei nostri nipoti, che si
è dei superstiti, i seguaci di una religione destinata a
morire." E', come si è ricordato, la stessa angoscia che
tormenta Piero Calamandrei, il dubbio che talvolta l'assaliva, di
essere uno dei "superstiti malinconici di una civiltà al
tramonto()".
"Un
regime totalitario - prosegue Jemolo - è fonte di infinite
tristezze. Quella di vedere l'opera di lento pervertimento che riesce
a compiere anche sugli uomini che più stimavamo. Povera cosa è
la nostra ragione, che cede sempre alla spinta del sentimento, sempre
disposta a trovare buoni argomenti per giustificare la conclusione
cui si desidera arrivare, cui spinge l'istinto, quella grande molla
che è l'istinto della felicità".
E'
l'esame di coscienza di una generazione di intellettuali che con il
fascismo avevano avuto contiguità di esperienze e di
orizzonti, e in parte vi avevano aderito, oppure, subendolo, non
avevano potuto convivere con il regime senza restarne in qualche
misura invischiati; che sottostando alla violenza morale della
dittatura, accettandone le imposizioni, avevano interiorizzato i
propri cedimenti volgendoli in consenso al potere dominante - una
sorta di "sindrome di Stoccolma" -, e avevano finito per
dubitare di sé e dei propri principi e cedere alle suggestioni
del regime. Ed ora, restituita la libertà, - come anche poteva
accadere, senza fondato motivo, ai molti giovani della generazione
del Littorio che avevano creduto nel fascismo prima di assistere al
suo ignominioso fallimento - vivevano il ricordo di questa esperienza
con senso di colpa e di vergogna.
Ma
vi è ancora un risvolto, che importa rilevare negli
atteggiamenti indotti dalla dittatura. "Più spesso, - è
sempre Jemolo ad osservarlo - scaturisce invece l'acidità, il
non voler ammettere che ci sono dei coraggiosi, dei puri, che non si
limitano ad arrovellarsi, ma agiscono, accettano sacrifici che noi
non si accetta; ed allora vengono fuori, e più non
cambieranno, quelli che dovunque vogliono vedere la tara, il sudicio,
che avranno rancore ed avversione per le più alte figure,
quelli come Parri, come Bauer, come Capitini, nella cui vita non c'è
un solo neo".
Con il suo deciso
immediato intervento nella lotta di liberazione, l’Università
di Padova, centro fondamentale della cospirazione politica e della
resistenza armata nel Veneto, riprendeva la sua alta tradizione di
impegno civile e patriottico, “ridando pieno significato al
severo motto tradizionale: Universa universis patavina libertas”
(Meneghetti). Questo sentimento era particolarmente vivo e profondo
nell’ambito dell’antifascismo radicato nell’Università
di Padova: e qui, per iniziativa dei suoi più autorevoli
rappresentanti, il rettore e il prorettore, si costituiva l’organismo
unitario dei partiti antifascisti che assumerà la guida della
resistenza veneta.
Il 10 settembre i
tedeschi avevano occupato Padova; pochi giorni dopo, nell’abitazione
di Concetto Marchesi, a Palazzo Papafava, si costituiva il Comitato
di liberazione nazionale regionale veneto, composto dallo stesso
Marchesi (Pci) e da Egidio Meneghetti e Silvio Trentin (Partito
d’azione), Mario Saggin (DC), e il socialista Alessandro
Candido. La decisione fu subito netta e senza esitazioni: organizzare
la lotta armata. Già il 13 ottobre veniva costituito un
Esecutivo militare regionale, composto da Marchesi, Meneghetti e
Trentin, dal socialista Antonio Cavinato - un altro scienziato
formatosi nell’Ateneo padovano e allora docente al Politecnico
di Torino - e da due esponenti della DC e del partito repubblicano,
Bruno Marton e Arturo Buleghin. Finché Marchesi poté
restare al suo posto, il rettorato del palazzo del Bo divenne una
sorta di quartier generale della resistenza veneta, dove si
svolgevano le riunioni del CLNRV e facevano capo collegamenti di
vitale importanza, mentre diversi istituti universitari si
trasformavano in centri di attività clandestina e
organizzazione militare.
Alle origini della
resistenza nel Veneto s’impone il ruolo decisivo di Concetto
Marchesi, Egidio Meneghetti, e Silvio Trentin, tre personalità
carismatiche, una sorta di triumvirato, straordinaria combinazione di
autorità morale e politica e di esperienza cospirativa e
militare. Il prorettore Egidio Meneghetti, insigne farmacologo,
interventista democratico e valoroso combattente nella prima guerra
mondiale, ferito e decorato di due medaglie d’argento e una di
bronzo, dopo l’avvento del fascismo militante di “Italia
Libera”, l’associazione degli ex-combattenti
antifascisti, collaborava poi alla diffusione e anche alla stampa del
“Non Mollare”, primo giornale clandestino antifascista,
fondato dal gruppo fiorentino di Gaetano Salvemini e Carlo Rosselli.
Assumendo la presidenza del CLN regionale, sarà guida e anima
della resistenza veneta sino a quando, nel gennaio ’45, fu
arrestato dalla banda del maggiore Carità, operante al
servizio delle SS tedesche.
Silvio Trentin
movimento “Giustizia e Libertà”, al fianco di
Carlo Rosselli, Emilio Lussu e Gaetano Salvemini. Dopo il crollo
della Francia, travolta e occupata dalle armate tedesche, era stato
“anima della Resistenza a Tolosa”, uno dei capi e
organizzatori delle formazioni partigiane. Dopo la caduta del
fascismo era rientrato clandestinamente in Italia, arrivando a
Treviso il 3 settembre, appena in tempo per tentare invano, dopo l’8
settembre, di ottenere dai comandi militari di Treviso e Feltre la
distribuzione di armi per organizzare la resistenza contro le truppe
tedesche. Dopo pochi giorni si era quindi trasferito a Padova, centro
principale in cui poteva aggregarsi il movimento di resistenza,
inserendosi subito autorevolmente nella cerchia degli esponenti
antifascisti dell’Università, nella quale aveva pure
insegnato per breve tempo.
Concetto Marchesi,
insigne umanista e storico della letteratura latina, aveva aderito al
Partito comunista sin dalla sua fondazione, ma era uno spirito
libero, alieno dal dogmatismo e dalla rigida disciplina imposti ai
militanti in quei tempi di duro stalinismo.
Il suo marxismo consisteva tutto nel materialismo storico, metodo
d’interpretazione della società e della storia, ma
respingeva con fermezza il materialismo dialettico, vale a dire la
pretesa di dedurre dal pensiero di Marx ed Engels una dottrina
filosofica, quale concezione del mondo del partito
marxista-leninista, che doveva essere imposta in ogni campo della
cultura, della scienza e dell’arte. Come scriveva Luigi Longo
(6 dicembre 1943) allora massimo dirigente del Pci in Alta Italia,
Marchesi non aveva “una personalità di partito”:
la sua personalità non era “costituita dalla [...]
militanza di partito, ma da altri elementi”. Ma proprio grazie
a questa sua forte personalità e indipendenza di giudizio si
era gettato nella lotta senza attendere le direttive del partito e
senza poi deflettere dalla sua linea di condotta in contrasto con
quella del partito.
Come si è
visto, subito dopo l’8 settembre aveva assunto un ruolo
decisivo nella costituzione del CLN regionale veneto per organizzare
la resistenza armata. Naturalmente, in seguito alla costituzione del
governo fascista repubblicano aveva presentato le dimissioni al
ministro dell’Educazione nazionale, Carlo Alberto Biggini, il
quale però, perseguendo l’insidiosa e velleitaria
politica moderata di “conciliazione nazionale” – in
realtà funzionale alla politica collaborazionista del nuovo
governo fascista asservito ai tedeschi – le aveva
respinte, impegnandosi ad assicurare l’indipendenza della vita
universitaria da ogni intervento politico e militare. Marchesi aveva
quindi ritirato le dimissioni. La decisione di rimanere al suo posto
di rettore era in aperto contrasto con la linea generale del Partito
comunista, tesa alla lotta a fondo, senza tregua, contro tedeschi e
fascisti. Non era ammissibile alcuna forma di compromesso e di
rapporto con le autorità fasciste e con i tedeschi. Che una
personalità prestigiosa come Marchesi, notoriamente comunista,
restasse rettore in carica di una grande università, famosa
nel mondo, accettando necessariamente un rapporto istituzionale con
l’autorità fascista e con l’occupante, poteva
apparire un atteggiamento compromissorio, al limite del
collaborazionismo. Il partito aveva le sue buone ragioni, muovendo da
una prospettiva generale, su una linea condivisa del resto anche
dagli altri partiti antifascisti. Ma Marchesi agiva nella particolare
situazione padovana, intendeva sfruttarne tutte le potenzialità,
e non volle piegarsi alle direttive del partito, che gli ingiungevano
di dimettersi e “rompere i ponti” con le autorità
fasciste. Il suo piano era semplice quanto incredibilmente audace e
spregiudicato: fare dell’Ateneo, sotto la copertura della
tradizionale inviolabilità delle sedi universitarie, il centro
organizzativo e propulsivo della cospirazione e della resistenza
armata nel Veneto. L’incomprensione era reciproca, per quanto
riconducibile alle drammatiche condizioni di quella fase iniziale
della resistenza. Il partito in seguito, meglio informato, dovette
ricredersi, rivedendo il severo giudizio su Marchesi. Sorprende però
che, a distanza di tempo, studiosi anche autorevoli come Claudio
Pavone, scrivano che anche Concetto Marchesi “fu tentato”
di assumere una posizione di “attesismo”, “quando,
ancora Rettore dell’Università di Padova, manifestò
qualche reticenza e incredulità verso la lotta antifascista e
antitedesca”.
In questo contesto,
l’inaugurazione del 722° anno accademico, il 9 novembre
1943, si trasformò in una aperta sfida contro i tedeschi e i
fascisti. Alla solenne cerimonia – fatto significativo senza
precedenti - non erano state invitate le autorità: erano
intervenuti solo “in forma privata” il ministro Biggini e
il capo della provincia. Un gruppo di miliziani fascisti armati, che
avevano occupato il podio tentando di arringare la folla di studenti
e docenti che gremiva l’aula magna, fu sommerso da un uragano
di fischi e di invettive, e l’improvvisato oratore allontanato
a viva forza da Marchesi e Meneghetti. “I giovani ci hanno
tragicamente deluso”, dirà pochi giorni dopo il
segretario federale di Firenze, intervenendo al congresso di Verona
del Partito fascista repubblicano. “I giovani devono combattere
e morire senza discutere. A Padova hanno fischiato i cadetti della
milizia, tra cui era mio figlio. Gli studenti desideravano che il
discorso del rettore dell’università continuasse e
gridavano ‘ammazza il porco’”.
Il memorabile discorso
di Concetto Marchesi, con cui dichiarava aperto il nuovo anno
accademico “in nome di questa Italia dei lavoratori, degli
artisti e degli scienziati”, era un appello al patriottismo e
una chiara affermazione del valore fondante della libertà,
della democrazia e della giustizia sociale. “Oggi da ogni parte
si guarda al mondo del lavoro come al regno atteso della giustizia.
Tutti si protendono verso questo lavoro per uscirne purificati. E a
tutti verrà bene; allo Stato e all’individuo: allo Stato
che potrà veramente costituire e rappresentare l’unità
politica e sociale dei suoi liberi cittadini; all’individuo che
potrà finalmente ritrovare in se stesso l’unica fonte
del proprio indistruttibile valore”. La personalità
carismatica del rettore antifascista rendeva più esplicito il
significato inequivocabile del suo alto linguaggio oratorio: rigorosa
affermazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, per cui
ogni individuo ha in sé i propri diritti inalienabili, fondati
innanzi tutto sul diritto alla libertà; e che quindi la
sovranità appartiene al popolo: “perenne e irrevocabile
è solo la forza e la potestà del popolo che lavora e
della comunità che costituisce la gente invece della casta”.
Sono i principi
dell’Ottantanove, affermati dalla Rivoluzione francese,
fondamento di ogni concezione liberale, democratica e socialista, cui
si contrapponeva apertamente il fascismo, con la sua dottrina
politica e con la realtà del regime totalitario. Affermava
Kant, filosofo del liberalismo: “L’uomo che è
fine non può essere assunto al valore di mezzo”.
Controbatteva Alfredo Rocco, massimo teorico della dottrina politica
del fascismo: “Per il fascismo la società [ossia lo
Stato in quanto organizzazione giuridica della società] è
fine e l’individuo è mezzo”, strumento per i fini
dello Stato: “strumento che si adopera, finché serve
allo scopo e si sostituisce, quando non serve”. L’individuo
non possiede diritti propri, può solo servirsi dei diritti che
lo Stato, sovrano assoluto titolare di ogni diritto, gli concede per
i propri fini.
Non diversa, nella sostanza, era la teoria dello Stato etico di
Giovanni Gentile, altro autorevole ideologo del fascismo.
Il regime totalitario fascista traduceva in pratica queste teorie,
ponendosi come negazione assoluta di ogni diritto alla libertà:
la libertà, che come ribadiva Silvio Trentin, citando la
massima kantiana, costituisce “il diritto unico, originario,
appartenente a ciascun uomo in virtù della sua umanità”,
e si identifica con l’autonomia della coscienza di ogni
individuo.
Da tutto questo
contesto, dall’ondata di sdegno antifascista esplosa nell’aula
magna, e dall’alto richiamo del rettore ai valori di libertà
e democrazia, l’appello finale ai giovani suona come un appello
alla resistenza per ricostituire la Patria: “Giovani, confidate
nell’Italia. Confidate nella sua fortuna se sarà
sorretta dalla vostra disciplina e dal vostro coraggio: confidate
nell’Italia che deve vivere per la gioia e il decoro del mondo,
nell’Italia che non può cadere in servitù senza
che si oscuri la civiltà delle genti”.
Il 23 novembre Marchesi
doveva ormai passare in clandestinità per sfuggire
all’arresto, e riparava in Svizzera, ma per stabilire la base
di una rete di collegamenti tra la resistenza veneta e la missione
anglo-americana, per mezzo principalmente di Ezio Franceschini, suo
allievo a Padova e allora docente all’Università
cattolica di Milano: l’organizzazione “Frama”
(Franceschini-Marchesi), tramite fondamentale per i messaggi e per
l’organizzazione degli aviolanci alle formazioni partigiane.
Prima di allontanarsi dall’Università indirizzava agli
studenti, il 1° dicembre, lo storico appello alle armi: “[...]
Una generazione di uomini ha distrutto la vostra giovinezza e la
vostra Patria; vi ha gettato tra cumuli di rovine; voi dovete tra
quelle rovine portare la luce di una fede, l’impeto
dell’azione, e ricomporre la giovinezza e la Patria. Traditi
dalla frode, dalla violenza, dall’ignavia, dalla servilità
criminosa, voi, insieme alla gioventù operaia e contadina,
dovete rifare la storia dell’Italia e costituire il popolo
italiano. [...] Studenti, mi allontano da voi con la speranza di
ritornare a voi, maestro e compagno, dopo la fraternità di una
lotta insieme combattuta. Per la fede che vi illumina, per lo sdegno
che vi accende, non lasciate che l’oppressore disponga ancora
della vostra vita, fate risorgere i vostri battaglioni, liberate
l’Italia dalla ignominia, aggiungete al labaro della vostra
Università la gloria di una nuova più grande
decorazione in questa battaglia suprema per la giustizia e per la
pace del mondo”.
“È il
rettore in carica, - ha scritto Luciano Canfora – il rettore
della più rappresentativa università italiana, che
dichiara di scegliere ormai la lotta armata ed invita gli studenti
alla lotta armata contro il governo. [...] È, quel
proclama, - si può dire – l’annunzio del
principiare della Resistenza in Italia, dopo i torpidi e difficili
mesi che avevano visto l’assestamento della Repubblica sociale,
un assestamento che gli stessi fascisti non avevano sperato così
rapido [...]”.
“L’esempio di Padova – ha scritto Roberto Battaglia
– ha costituito la prima base per un intervento attivo della
cultura italiana nella lotta di liberazione; ha rotto l’aria
stagnante del disorientamento e del dubbio [...]”.
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