Il percorso della Libertà

Italia 1943 - 1945

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Gli intellettuali dal fascismo alla Resistenza

Angelo Ventura*


Il fascismo, avvertiva Giovanni Amendola, “non ha mirato tanto a governare l’Italia, quanto a monopolizzare il controllo delle coscienze. Non gli basta il possesso del potere: vuole il possesso della coscienza privata di tutti i cittadini”. Per il fascista, afferma la voce Dottrina del fascismo pubblicata nell’Enciclopedia italiana - firmata da Mussolini ma preparata nelle linee fondamentali dal filosofo Giovanni Gentile -, “tutto è nello Stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello Stato. Il tal senso il fascismo è totalitario”. Esso, quindi, “riassume tutte le forme della vita morale e intellettuale dell’uomo [...]. Il fascismo insomma non è soltanto datore di leggi e fondatore d’istituti, ma educatore e promotore di vita spirituale. Vuol rifare non le forme della vita umana, ma il contenuto, l’uomo, il carattere, la fede. E a questo fine vuole disciplina, e autorità che scenda addentro negli spiriti, e vi domini incontrastata”. Anche il Manifesto degli intellettuali fascisti (21 aprile 1925), pure scritto da Giovanni Gentile e riveduto da Mussolini, aveva proclamato “il carattere religioso del Fascismo”.

Si afferma così al potere, per la prima volta nel XX secolo, un movimento politico che assume dichiaratamente la forma e la sostanza di una religione politica: carattere specifico e fondamentale di ogni regime totalitario1. Una religione integralistica e intollerante, che esigeva fede indiscussa nei dogmi ideologici e nei miti che divinizzavano lo Stato e la nazione, e nel culto del capo carismatico, fonte di verità e guida infallibile (“Il Duce ha sempre ragione”), imponendo alle masse irreggimentate, attraverso un complesso sistema rituale, l’etica dell’obbedienza cieca e assoluta (“Credere, obbedire, combattere”). A questi fini, per formare “l’uomo nuovo fascista” e conseguire il controllo della società di massa, non bastava instaurare un potere dittatoriale assoluto, sopprimere tutti i diritti di libertà e reprimere ogni forma di dissenso. Lo Stato totalitario, “Stato etico”, doveva impadronirsi delle coscienze imponendo la propria ideologia irrazionale e fideistica, per conquistare il “consenso” dei diversi ceti sociali. Era un’operazione di natura culturale e antropologica, che richiedeva l’impegno sistematico di tutti gli strumenti idonei: la stampa, la radio, il cinema e l’editoria, le accademie e gli istituti scientifici e culturali, e soprattutto la scuola e l’università dovevano essere fascistizzati. La politica culturale assumeva quindi un’importanza centrale e pervasiva, che attribuiva ai ceti intellettuali – docenti di ogni ordine e grado, scienziati, giornalisti, artisti e scrittori - un ruolo politico e civile nuovo e impegnativo, quasi di sacerdoti cui spettava il compito di elaborare e trasmettere alle masse il nuovo verbo2.

Ma quale fu la risposta di questi ceti intellettuali? Quali furono, in particolare, gli atteggiamenti delle élites intellettuali, e quali i metodi praticati per imporre il loro allineamento al regime? Certo, sin dalle origini e dal suo primo affermarsi al potere, nel fascismo erano confluiti gli esponenti dei diversi movimenti politici e culturali antiliberali e antidemocratici, sorti prima della grande guerra in un clima di torbido spiritualismo, attivistico e irrazionalistico, esaltanti il culto vitalistico dell’azione per l’azione, il mito della violenza risolutrice e la volontà di potenza: quali il movimento nazionalistico, il sindacalismo rivoluzionario, il futurismo. Su un altro piano, culturalmente più elevato, non meno importante era il contributo dell’attualismo gentiliano3. Ma se muoviamo dal momento della svolta decisiva, tra l’autunno del 1924 e il 3 gennaio 1925, quando, superata la crisi seguita al delitto Matteotti, il regime instaura la dittatura a viso aperto, possiamo constatare che tra gli intellettuali i fascisti rappresentavano ancora una minoranza.

È significativo in proposito l’ordine del giorno approvato quasi all’unanimità per appello nominale (76 voti favorevoli su 79 votanti), con il quale l’VIII Congresso nazionale della Federazione della stampa italiana, riunito il 25-28 settembre 1924 a Palermo, “riaffermando, al di sopra di ogni sentimento di parte il principio della libertà di stampa, conquista iniziale della nuova storia d’Italia e condizione necessaria alla vita di ogni popolo civile; convinto che gli attuali decreti, sottraendo la stampa alla legge comune per sottoporla agli arbitri del potere esecutivo”, chiedeva che tali decreti – i Regi decreti-legge 15 luglio 1923 e 10 luglio 1924 - fossero revocati. E con un altro ordine del giorno rivolgeva “un riconoscente saluto agli avvocati e giurisperiti italiani che nel loro recente congresso di Torino, vollero, con tanta energia, esprimere la coscienza giuridica della Nazione e salvaguardare le nobili tradizioni liberali delle nostre curie, affermando il principio della libertà di stampa”. Tutto il congresso si era risolto in un’aspra e coraggiosa denuncia degli arbitri governativi e delle violenze squadristiche che avevano colpito il giornalismo italiano, e in un’appassionata manifestazione di “fede nelle libertà conquistate dal popolo italiano”4.

Vero è, per contro, che numerosi, circa 250, erano i nomi dei partecipanti e di quant’altri avevano inviato la propria adesione al “Convegno per le istituzioni fasciste di cultura”, svoltosi a Bologna a fine marzo 1925, dal quale era venuta l’iniziativa del citato Manifesto degli intellettuali fascisti. Tra costoro, comparivano molti accademici, diversi artisti e letterati, e alcune presenze sconcertanti, come l’adesione di Luigi Pirandello – iscrittosi al partito fascista nel 1924 dopo il delitto Matteotti – o quella di Lionello Venturi, uno dei dodici professori universitari che nel 1931 rifiuteranno il giuramento di fedeltà al fascismo, preferendo l’esilio in Francia; o ancora quella di un liberale conservatore come Luigi Messadaglia. Nell’insieme un gruppo alquanto eterogeneo, almeno per quanto riguarda l’atteggiamento ideologico nei confronti del fascismo. Non meno numerose però, e soprattutto più autorevoli furono le adesioni al contromanifesto scritto da Benedetto Croce e pubblicato il 1° maggio 1925, in risposta al manifesto degli intellettuali fascisti. Nel mondo universitario, tra gli esponenti dell’alta cultura un largo schieramento, certo rappresentativo di un più largo fronte di opinione, scendeva in campo apertamente contro il fascismo, in difesa dei principi di libertà e democrazia5.

Ma intanto il fascismo procedeva rapidamente alla costruzione del regime totalitario, ricorrendo a nuovi strumenti giuridici e alla violenza squadristica per stroncare brutalmente ogni volontà di resistenza. Il 5 settembre 1924, per mandato di Mussolini, Piero Gobetti veniva aggredito selvaggiamente a bastonate, pugni e calci; gravemente segnato nel fisico, morirà a Parigi nel febbraio 1926. Era poi la volta di Giovanni Amendola, già vittima di un’aggressione nel dicembre ’23: pestato a sangue il 20 luglio ’25 non si sarebbe più ripreso e morirà dopo alcuni mesi in Francia, il 7 aprile ’26. Nel frattempo, l’8 giugno 1925 veniva arrestato Gaetano Salvemini, accusato assieme a Ernesto Rossi, latitante, e altri (tra i responsabili non individuati erano Carlo e Nello Rosselli e altri intellettuali antifascisti) di aver partecipato alla pubblicazione del “Non mollare”, il primo giornale clandestino dopo la soppressione della libertà di stampa. Alla prima udienza del processo, il 13 luglio, parecchi amici di Salvemini erano venuti da diverse parti d’Italia per testimoniare la loro solidarietà. All’uscita dal tribunale si scatenò l’aggressione da parte di una squadraccia fascista. Finirono all’ospedale Raffaele Rossetti, l’affondatore della Viribus Unitis, deciso antifascista, Alessandro Levi, il deputato Enrico Gonzales e Giovanni Ansaldo. L’avvocato Nino Levi,uno dei suoi difensori ebbe una mano storpiata in permanenza; l’altro avvocato difensore, Ferruccio Marchetti, fu aggredito pochi giorni dopo a Siena e colpito alla testa in modo tale, che qualche tempo dopo ne morì6. Salvemini doveva riparare all’estero, rinunciando alla cattedra fiorentina; l’anno prima lo aveva preceduto l’ex presidente del consiglio Francesco Saverio Nitti, professore all’Università di Napoli e insigne studioso di economia e scienza delle finanze, minacciato dalla violenza fascista che aveva devastato il suo studio. Tanto per limitarci a pochi casi riguardanti eminenti personalità intellettuali. Non c’era il terrore sotto il regime fascista?

L’anno primo della dittatura a viso aperto si chiudeva con la legge 24 dicembre 1925, n. 2300, sulla dispensa dal servizio dei pubblici funzionari – significativamente alla stessa data della legge n. 2263, che sanciva la sottoposizione del potere legislativo al potere esecutivo, nella persona del capo del governo. Disponeva dunque la legge, che il governo avesse facoltà di dispensare dal sevizio i funzionari e impiegati di ogni ordine e grado civili e militari, dipendenti da qualsiasi amministrazione dello Stato – quindi anche magistrati, insegnanti e professori universitari - “che, per ragioni di manifestazioni compiute in ufficio o fuori di ufficio, [...] si pongano in condizioni di incompatibilità con le generali direttive politiche del governo”. Di conseguenza il 7 gennaio seguente Silvio Trentin, professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico presentava le proprie dimissioni al rettore dell’Istituto superiore di commercio di Venezia Ca’ Foscari, ritenendo “di non saper conciliare il rispetto delle mie più intime e più salde convinzioni di studioso del diritto pubblico”, con le norme imposte da tale legge, e sceglieva la dura via dell’esilio con la famiglia in Francia, da dove continuerà la lotta contro il fascismo, aderendo in seguito al movimento di “Giustizia e libertà”.

Com’è noto, nel 1931, per suggerimento di Giovanni Gentile, fu imposto ai professori universitari l’obbligo di giurare di essere fedeli al regime fascista e di adempiere ai propri doveri accademici “col proposito di formare cittadini [... ] devoti alla patria e al Regime fascista”. Un giuramento estorto con la violenza di un pesante ricatto, che non vincola la coscienza. E però una violenza subita da molti per necessità con rabbia e turbamento profondo. Anche l’iscrizione al partito fascista fu praticamente imposta, specie con le nuove norme emanate nel dicembre 1932 e giugno 1933, le quali avevano stabilito che l’appartenenza al partito era un requisito obbligatorio per l’ammissione a tutti i concorsi banditi dalle amministrazioni statali e dagli enti locali e parastatali. La tessera del fascio appariva ormai una sorta di formalità burocratica, priva di significato politico. Valga il giudizio autorevole di Benedetto Croce, che il 18 giugno 1845 indirizzava una lettera a Ferruccio Parri, insorgendo contro la voce, che gli suonava “incredibile”, secondo cui si era affacciata l’idea di escludere dal nuovo governo in formazione, “coloro che furono iscritti comunque al partito fascista. Ma questo significa ignorare che tutti gl’italiani per esercitare professioni, erano costretti a iscriversi e che ben pochi poterono, rinunziando alle professioni, rifiutare l’iscrizione, la quale prese perciò carattere affatto formale e insignificante. Tanto vero che molti dei più operosi e benemeriti oppositori ed eversori del fascismo erano iscritti, e finirono col soffrire persecuzioni, carcere e peggio. [...] Io annovero tra i miei migliori amici e collaboratori, durante e dopo il fascismo, di codesti iscritti per formalità. [...] Ma chi è che perde il tempo a escogitare e suggerire simili, non dico neppure cattiverie, ma stupidità”7. Una “stupidità” questa, che ricompare trionfante, specie negli ultimi anni, in frequenti campagne pubblicistiche, intese a screditare insigni personalità dell’antifascismo rinfacciando atteggiamenti e lettere “compromettenti”, appartenenti al tempo dell’oppressione e della “dissimulazione onesta”. Nessuno era senza macchia – suona l’antifona -, tutti erano fascisti o filofascisti, oppure cinici o pavidi opportunisti: l’antifascismo non era migliore del fascismo, superiamo il “paradigma antifascista”.

Ora si deve considerare che il potere, qualunque sia il regime, per il solo fatto di esistere e di durare a lungo, si autolegittima. Quando poi il potere è totalitario e non consente dissenso e circolazione di idee, valutare l'estensione e la natura del consenso è impresa ardua e quasi impossibile. Il regime è imposto e interiorizzato come un dato di fatto apparentemente irreversibile, che non lascia intravedere alternative. Anche nelle coscienze più ferme di molti antifascisti subentra la rassegnazione, s'insinua, ancora più insidioso, il dubbio di essere fuori e contro la storia, epigoni superati, testimoni superstiti di una civiltà ormai condannata al tramonto, di fronte a quello che appare l'ineluttabile trionfo di una nuova epoca di barbarie, forse un nuovo ordine fondato su un'ideologia negatrice di tutti i valori su cui era fondata la civiltà europea. E' questa l'angoscia che Piero Calamandrei esprimeva nel suo diario. Dobbiamo calarci nella prospettiva e nello stato d'animo di coloro i quali hanno vissuto quegli anni Trenta, in cui il fascismo era saldamente al potere, e pareva destinato a dominare un'intera epoca storica.

Secondo una periodizzazione consolidata nella storiografia e nella sua vulgata, i primi segni di crisi del consenso al regime si manifestano già all'indomani della guerra d'Etiopia. Un'opinione condivisa in parte anche da Renzo De Felice, che però parla soprattutto di "distacco psicologico" dal fascismo: una definizione più persuasiva, insieme più penetrante e più sfumata, specie per quanto riguarda l'atteggiamento dei ceti medi(8). Secondo dunque l'interpretazione corrente, la crisi del consenso che si avverte dopo il '36 si accentua a partire dal '38, in conseguenza della svolta radicale del fascismo: le leggi razziali, la campagna contro la "borghesia", il ridicolo dello staracismo, l'impopolare alleanza con la Germania, perfino i riflessi della guerra civile spagnola (confondendo una certa ripresa di attività antifascista con l'atteggiamento generale della popolazione), infine l'entrata in guerra nel giugno 1940, concorrerebbero a un progressivo distacco della nazione dal regime. Se però noi guardiamo al mondo accademico e della cultura, all'atteggiamento degli intellettuali, credo che dobbiamo rivedere in parte questo giudizio. Si ha la sensazione che al distacco di una ristretta élite faccia riscontro una più generale tendenza all'allineamento.

Le leggi razziali, ad esempio, brutale negazione dei fondamenti umanistici, laici e cristiani, delle nostre tradizioni culturali, suscitano certo sconcerto e riprovazione e scuotono alcune coscienze più avvertite, ma raccolgono anche consensi tra i ceti intellettuali(9). Più generalmente, non vi è alcun indizio che nel mondo della cultura la svolta razzistica e antisemita sia percepita come una frattura irriducibile nei confronti del fascismo, come una remora morale a collaborare con il regime. Così, se guardiamo al mondo cattolico, dal quale pure si levano alcune voci di dissenso, per la verità poche e spesso ambigue, scopriamo che sono proprio i centri intellettuali più qualificati, i focolari dell'alta cultura deputati alla formazione della classe dirigente cattolica, che con maggiore convinzione si allineano al clima della campagna antisemita; e vi anche chi si spinge sino ad avallare l'ipocrita teoria di un preteso "razzismo spirituale" - una contraddizione in termini - inventata dagli ideologi del regime per distinguersi dal razzismo nazista e contestare, rivestendole di una patina spiritualistica, le rozze mistificazioni del razzismo e dell'antisemitismo. Alludo naturalmente all'Università Cattolica di padre Agostino Gemelli, al gruppo di "Vita e pensiero" che ne era emanazione, a "Civiltà cattolica", l'autorevole rivista dei gesuiti. Magari si condannano i presupposti dottrinari del razzismo, specie quelli del neopaganesimo nazista, che perseguita le chiese cristiane e in primo luogo quella cattolica, ma nel contempo si porta acqua al mulino della campagna antisemita. Com'è noto, le posizioni nel mondo cattolico erano complesse e contraddittorie. Non entriamo nel merito. Voglio dire semplicemente che gli intellettuali cattolici, i giovani soprattutto, trovavano nelle loro massime istituzioni culturali l'incoraggiamento ad allinearsi al fascismo, senza che le leggi razziali costituissero alcun impedimento morale.

Neppure nel mondo accademico si colgono reazioni significative alle leggi razziali, che pure con l'espulsione dalle Università e dalle istituzioni accademiche e di ricerca di insigni maestri e promettenti allievi recavano un duro colpo alla scienza e alla cultura italiana. Anche se certo in cuor loro molti docenti, pure fascisti, com'è il caso di Giovanni Gentile, non approvavano i provvedimenti contro gli ebrei. Non mancano invece adesioni ufficiali alla politica razziale, spesso con accenti di motivato consenso, nei discorsi inaugurali pronunciati dai rettori di alcune Università all'apertura dell'anno accademico 1938-39: così a Roma, Bologna, Palermo, Firenze e Padova(10). Docenti e studiosi autorevoli accolsero le misure antisemite come una svolta salutare, suscettibile di positivi sviluppi. Così Armando Carlini, un filosofo passato dall'idealismo ad una forma di spiritualismo cristiano più consono al clima culturale dominante dopo la Conciliazione, riteneva giunta l'ora di proporre al ministro dell'Educazione nazionale di introdurre l'insegnamento della teologia nelle Facoltà di filosofia (con docenti e programmi stabiliti d'accordo con la Santa Sede!), dal momento che le leggi razziali avevano "tolto l'ultimo ostacolo" a questo ulteriore passo nella restaurazione dello Stato confessionale(11). Gaetano Pietra, preside della Facoltà padovana di scienze politiche, studioso autorevole di statistica e demografia, indicava nella situazione nuova creata dalle norme antisemite l'occasione per attuare una redistribuzione della proprietà fondiaria a favore delle classi contadine, mediante l'esproprio delle terre possedute dagli ebrei(12); e curava, con altri professori dell'Università, l'organizzazione a Padova della prima mostra razziale, con una speciale sezione dedicata agli ebrei. Nel comitato scientifico della rivista "Diritto razzista" figuravano nomi illustri di professori universitari: giuristi come Santi Romano e Fulvio Maroi, gli storici del diritto Arrigo Solmi e Pier Silverio Leicht, lo storico Pietro Fedele, e alti magistrati come Antonio Azara, poi senatore della Repubblica per la DC e ministro della Giustizia nel 1953 con il governo Pella(13). Cito tra i tanti questo caso, che dimostra chiaramente due cose. La prima è che nessuna seria ragione poteva costringere o semplicemente indurre personalità tanto illustri e autorevoli a prestare il loro nome a questa spregevole rivista, fondata e diretta da un personaggio alquanto folcloristico come Stefano Mario Cutelli, un avvocato e pubblicista, che non poteva vantare alcun titolo di credibilità scientifica(14). La seconda, che si deduce di conseguenza, è che inviando liberamente la loro adesione queste personalità ritenevano di poterlo fare impunemente, senza incorrere nel discredito e nel biasimo morale da parte dei colleghi accademici e magistrati.

Lungo sarebbe, e del resto largamente noto, l'elenco di professori universitari, studiosi, scrittori, giornalisti e intellettuali delle diverse professioni, che contribuirono attivamente, con gli scritti e con la loro autorevolezza, alla campagna razziale. Non stupisce che in questo clima molti giovani cresciuti e indottrinati dal fascismo, sprovveduti o rampanti che fossero, seguendo le suggestioni che venivano da tante parti, anche dalle sedi più alte del sapere, o che tali apparivano, formassero un coro di consenso alla politica razziale e all'ideologia razzista. Insomma, la tesi che le leggi razziali abbiano inferto un vulnus nella coscienza collettiva, e in particolare segnato la crisi del consenso da parte dei ceti intellettuali, non trova nelle fonti conferme persuasive, e resta tutta da dimostrare.


Gli anni 1938-1940 sono anni terribili. La Spagna repubblicana è travolta e anche sulla penisola iberica si estende il dominio del fascismo; nulla sembra arrestare la marcia della Germania nazista: Austria, Cecoslovacchia, Polonia, Danimarca e Norvegia, infine la Francia. Sono gli anni di crisi più profonda e di depressione anche dell'antifascismo militante, sul quale si abbatte pure lo sbandamento dei comunisti, provocato dal patto russo-tedesco del 23 agosto 1939. Le ripercussioni di queste drammatiche vicende sono profonde anche in Italia. Adottiamo pure l'ambigua categoria del consenso, purché se ne intenda la validità in virtù appunto della sua ambiguità, comprensiva dei più diversi atteggiamenti: dall'adesione convinta al più servile opportunismo, dal consenso al regime - inteso soprattutto come affermazione di ordine e disciplina sociale, e dei valori patriottici su cui faceva leva - senza identificarsi con gli aspetti più rozzi e radicali del fascismo, alla rassegnata accettazione, peraltro non insensibile alle suggestioni del clima littorio e imperiale. Un'ambiguità che spesso era nell'interiorità della coscienza, in una sorta di incertezza crepuscolare dello spirito, specie in uomini di cultura con un proprio patrimonio di idee e di esperienze, anche politiche, alle spalle(15).

Consideriamo alcuni aspetti ed episodi più significativi della vita culturale nel 1940, un anno per molti versi periodizzante, a guerra europea cominciata, sulla soglia o all'inizio dell'intervento italiano nel conflitto, mentre il regime da qualche anno incontrava crescenti difficoltà a mobilitare il consenso degli italiani, e anzi la nota relazione di Bottai a Mussolini denunciava addirittura "quattro anni di silenzio ostile della cultura"(16). Il primo episodio che s'impone alla nostra considerazione è il grande convegno nazionale di mistica fascista, svoltosi a Milano nel febbraio del 1940, momento culminante ed esemplare di quella santa alleanza tra cattolici neoscolastici e "spiritualisti" di vario genere, uniti in una sorta di crociata contro l'idealismo e il razionalismo, contro ogni concezione immanentistica e storicistica, in primo luogo, contro la stessa interpretazione gentiliana della ideologia fascista(17). Occorre ricordare che la Scuola di mistica fascista, organizzatrice del convegno, aveva assunto un ruolo di punta nel processo di radicalizzazione del regime, sviluppando l'ideologia del fascismo come mistica, religione secolare fondata sul culto del duce, "solo Creatore" del fascismo e quindi della sua dottrina. Le lecturae Ducis, una delle più significative attività della Scuola, consistevano appunto nella lettura ed "esegesi" di scritti e discorsi di Mussolini, la cui parola - come la parola di Dio nei libri sacri delle religioni positive - costituiva "la sola, l'unica fonte della mistica". La mistica fascista era torbido impasto di irrazionalismo e vitalismo, di confuso e velleitario spiritualismo pseudofilosofico e volontarismo politico. "La mistica - affermava Niccolò Giani, fondatore e direttore della Scuola - non è, né può essere una nozione di cultura da esprimere in quattro parole. Essa è uno stato d'animo, un grado di perfezione dello spirito [...]. Siamo mistici perché siamo degli arrabbiati, cioè dei faziosi, se così si può dire, del Fascismo, uomini [...] partigiani per eccellenza e quindi - per il classico borghese - anche assurdi [...]. La Storia, quella con l'esse maiuscola, è stata, è e sarà sempre un assurdo: l'assurdo dello spirito e della volontà che piega e vince la materia: cioè mistica"(18). Lo spiritualismo antirazionalistico e antiidealistico era il comune denominatore e il terreno di convergenza tra cattolici neoscolatici, "realisti", e spiritualisti vari che confluivano insieme a formare il fronte unico della "filosofia nazionale" del regime, dominante negli anni Trenta nella pubblicistica e nei convegni filosofici.

Ora a questo mega-convegno di mistica fascista, per discettare sul tema Perché siamo dei mistici, sulla base di tre relazioni generali - Tradizione antirazionalistica e antintellettualistica del pensiero degli italici, Caratteristiche e momenti mistici della storia d'Italia, Valore e funzione della mistica nella dinamica della Rivoluzione fascista - partecipano circa 500 persone, tra le quali molti studiosi, tra i più autorevoli e qualificati: filosofi, storici, giuristi. Tutte le Università sono rappresentate. Da Padova, ad esempio, intervengono Emilio Bodrero, senatore e importante gerarca del regime, oltre che professore ordinario di storia della filosofia, Giuseppe Flores d'Arcais, Marino Gentile e Luigi Stefanini. E' una partecipazione attiva, che si concreta in tre relazioni sul primo tema del convegno, svolte da D'Arcais (Antirazionalismo di Giambattista Vico), Bodrero (Caratteri tradizionali della mistica romana e italiana e lineamenti di mistica fascista), e Stefanini (Varietà di atteggiamenti mistici in rapporto alla forma specifica degl'Italici).

Stefanini era anche consultore, vale a dire consigliere e collaboratore organico della Scuola di mistica fascista, come Umberto Padovani, professore ordinario di filosofia morale all'Università Cattolica del Sacro Cuore, e membro del comitato di direzione di "Dottrina fascista", la rivista della Scuola, che pure svolse al convegno una relazione sul tema: Perché il fascismo è una mistica. Tra i partecipanti troviamo altri due autorevoli docenti dell'Università Cattolica: Gustavo Bontadini, forse il più robusto ingegno speculativo dell'indirizzo neoscolastico, e Paolo Rotta, ordinario di storia della filosofia. Dal canto suo Michele Federico Sciacca, allora all'Università di Pavia, altro qualificato esponente, con Stefanini, dello spiritualismo cattolico, inteso alla restaurazione della metafisica tradizionale cristiano-cattolica in senso platonico-agostiniano piuttosto che tomistico, interveniva con una relazione su Antintellettualismo e antirazionalismo della filosofia italiana. Ma per quanto riguardava il rapporto con il fascismo non vi era una sostanziale differenza tra neotomisti e spiritualisti cristiani. Così un Bontadini aveva potuto sottoscrivere al convegno nazionale di filosofia del 1930 l'impegno di Mussolini per un'educazione guerriera della gioventù, opposta alla spirito critico: di critici, di filosofi "alla Patria ne bastano pochi, quei pochi dai quali soltanto la filosofia può aspettarsi qualche giovamento. Occorre invece - alla Patria - che tutti sappiano, meglio che criticare, obbedire. Lo spirito critico popolarizzato equivale, almeno potenzialmente, all'anarchia"(19).

Il fronte antidealistico e antistoricistico si era formato sul terreno della negazione dei valori e delle esperienze storiche che avevano costituito la moderna civiltà occidentale, nel loro svolgersi dall'Umanesimo al Rinascimento all'illuminismo, approdando al liberalismo, alla democrazia e al socialismo: idee e movimenti politici, che l'ideologia del regime condannava come estranei alla tradizione e allo spirito originario della civiltà italiana: nefaste influenze straniere, venute soprattutto di Francia e Inghilterra. Lo stesso cattolicesimo italiano ne era stato contaminato. Colpa questa soprattutto della Francia, asseriva De Luca: "di averci dato un cattolicesimo tutto conferenze, opere sociali, libri e libercoli, riviste, ritiri annuali semestrali mensili: tutte cose, insomma, che possono avere e fare soltanto i borghesi"(20). Così pure i collegi femminili erano retti da ordini religiosi francesi. "Le nostre donne, pertanto, avranno per libro di pietà, un libro francese; per santo, un santo francese; per oratore, un oratore francese; per devozione, una devozione francese (Lourdes, Sacro Cuore...); tutto francese. Francese la moda, francesi i vini; e francese la Chiesa e la devozione, Corpo e anima, francesi"(21).

Questo singolare sfogo di umori nazionalistici in versione ecclesiastica rispecchiava un programma di "ritorno al medioevo", analogo a quello perseguito da padre Gemelli fin dal 1914(22), conforme all'ideologia della Chiesa cattolica, che era ancora la Chiesa del Sillabo: della condanna del liberalismo, dello Stato laico e della libertà di coscienza, la Chiesa della proclamata inconciliabilità con la civiltà moderna. Un ritorno al medioevo come restaurazione di un cattolicesimo autentico, riscattato dagli errori e dalle perversioni accumulati in quattro secoli di pensiero moderno; un cattolicesimo inteso quale forma specifica dell'ideologia italiana, espressione dell'anima profonda del popolo italico e delle sue tradizioni. Si doveva innanzi tutto cancellare l'illuminismo e quanto era disceso da esso. "Liquidare l'illuminismo. D'origine protestantica e massonica", consigliava a Bottai. "Una campagna contro l'illuminismo ci libererebbe dai professori [...] e dai giornalisti e agitatori"(23). Su questa linea di un cattolicesimo nazional-popolare medioevaleggiante, intriso di irrazionalismo, fondato su un concezione politica antiliberale e antidemocratica, autoritaria e gerarchica, molti intellettuali cattolici aderivano al fascismo con convinzione. Naturalmente non mancavano le voci del dissenso. A Firenze, per fare un solo esempio, c'era Giorgio La Pira, notoriamente antifascista. Ma, insomma, l'intelligencija cattolica era in grande maggioranza fascista o filofascista. Al fascismo si riconosceva il merito aver spazzato via liberalismo e democrazia, liquidato lo Stato laico, interrotto e invertito con uno strappo violento il corso di un processo storico che dall'Umanesimo si era conseguentemente sviluppato per cinque secoli sino alla democrazia e alla scristianizzazione della cultura e della società.

E' il caso di rileggere un passo, largamente noto, di un articolo pubblicato nel febbraio 1939 su "Il Frontespizio" - la rivista politico-letteraria di Giovanni Papini, Piero Bargellini, Ardengo Soffici e altri esponenti del clerico-fascismo, della quale De Luca era autorevole ispiratore - in sintonia con la campagna contro la "borghesia" lanciata da Mussolini. "La borghesia - scriveva De Luca - è la tentazione dell'uomo mediocre e anfibio. Le classi naturali dell'uomo civile sono due sole: i pochi patrizi, e il popolo innumerevole. I primi sono coloro che per forza preponderante d'ingegno e di natura giungono al comando mentre il popolo, restando umile e alla terra, obbedisce senza schiavitù, comprende senza cultura, dona senza ricchezza. La borghesia, di natura sua, è mezzana. Tenta il popolo, offrendogli scuole, comodi, lucri, sciccherie da poco; tenta i nobili, offrendo a loro viltà, anonimato e il salvacondotto del 'così fan tutti'. Al popolo toglie la semplicità potente, la casta ignoranza, la libertà creatrice, la pulitezza che non nasce dal sapone e dal bagno, e la fede che non è credulità. Al nobile toglie, anzi ha tolto, dignità, fierezza, sentimento di gloria e quella paternità e sovranità naturale per cui era pronto a pagare lui, d'avere e di persona"(24). Sono i motivi tipici della cultura reazionaria del radicalismo di destra.

Se dal convegno di mistica fascista allarghiamo lo sguardo ad altre due imprese culturali che vedono la luce nello stesso anno 1940 - il Dizionario di politica pubblicato a cura del P.N.F., e "Primato", la nuova rivista di Bottai - possiamo constatare quanto generale e avanzato fosse il processo di integrazione nel regime degli intellettuali. Per quanto diverse e complesse fossero le motivazioni che inducevano un così gran numero di intellettuali a rispondere all'appello di Bottai, che invitava al "coraggio della concordia: risultante di quel nutrito amore all'arte e alla Patria, e mezzo indispensabile per imporre il primato spirituale degli Italiani di Mussolini", i collaboratori di "Primato" non potevano non essere consapevoli di contribuire alla riuscita di un'iniziativa che si proponeva di mobilitare attorno al regime fascista le forze vive della cultura(25). Del resto la linea generale della rivista, gli editoriali e gli articoli che in ogni numero ne davano la chiave di lettura politica - come i velenosi attacchi contro Francia e Inghilterra scritti sotto pseudonimo da don Giuseppe De Luca - non consentivano equivoci. Pure studiosi autorevoli come lo storico Carlo Morandi, il filosofo Galvano Della Volpe, filologi e linguisti come Giorgio Pasquali e Bruno Migliorini, nei loro articoli, tecnicamente ineccepibili, riecheggiavano i motivi e i toni della politica del regime e della sua propaganda. In tale contesto assumevano di riflesso una valenza politica anche gli interventi più asettici, di argomento letterario o artistico (ma anche questi argomenti si prestavano alle suggestioni del regime, come l'esemplare rassegna di Renato Guttuso dedicata a La mostra degli squadristi)(26).

Certo sulle pagine della rivista emergevano anche le inquietudini della giovane generazione, la percezione, in taluni, lucida e intensa della crisi della civiltà europea, di cui l'Italia era partecipe. A posteriori possiamo leggervi in nuce i motivi e i presentimenti di una maturazione di coscienza antifascista. Basti ricordare gli scritti di Giaime Pintor. Ma saranno appunto l'andamento disastroso della guerra e il suo esito catastrofico a render chiaro ciò che prima era confusamente intuito, a determinare il distacco dal fascismo, la svolta nell'itinerario politico e ideologico di tanti intellettuali. Per il momento, agli inizi degli anni Quaranta, ben pochi potevano dirsi approdati all'antifascismo, come la ristretta cerchia dei liberalsocialisti attorno a Guido Calogero, e alcuni giovani intellettuali, come Mario Alicata e Pietro Ingrao, che appena allora avevano potuto stabilire i primi collegamenti con l'organizzazione comunista. L'atteggiamento generale prevalente era ancora l'adesione al regime, o l'accettazione di esso come uno stato di fatto, una condizione data, quasi naturale, pervasiva di tutta la vita sociale e culturale italiana. Riflettendo nel 1943, nei giorni della nemesi del regime, sulle diverse forme dell'antifascismo - quella caratterizzata dall'astensione, propria dei vecchi liberali e di tutti coloro che ne avevano ereditato la formazione, i quali "badavano soprattutto a non macchiarsi e insistevano quindi sugli atti di valore formale” (iscrizione al partito, saluti, dare del lei ecc.), e l'antifascismo militante dei fuorusciti e di quanti cospiravano in patria, al quale pure appartenevano "le migliori energie" -, Giaime Pintor contrapponeva "una terza tendenza di cui pochissimi però furono consapevoli [...] cui si trova portata la nostra generazione più giovane. Astenersi fin dalla nascita, è poco più che il suicidio, così noi tutti ci trovammo mescolati, chi più chi meno, nella vita contemporanea e disposti a coglierne i frutti. Questa posizione era molto pericolosa perché poteva facilmente confondere gli animi più deboli, era però la più feconda: essa segnava il superamento definitivo dell'antitesi fascismo-antifascismo [...]"(27). E' questa una chiave di lettura che consente di comprendere lo straordinario successo dei Littoriali della cultura e dell'arte organizzati dal regime, mobilitazione di massa dei giovani intellettuali, in cui si metteva in luce una nuova generazione di intellettuali destinati a emergere in ogni campo - dalla politica, alla letteratura, all'arte - nell'Italia repubblicana.

Nel clima creato dalla dittatura totalitaria la difficoltà e in pratica l'impossibilità di "astenersi", se non a prezzo di una scelta eroica di ferma opposizione, era vissuta - come si è visto - anche dalle generazioni più mature. La pressione ideologica del fascismo scavava in profondità nelle coscienze. Sarebbe troppo semplicistico, un vero peccato d'incomprensione storica, liquidare l'adesione e il cedimento di tanti intellettuali, anche insigni, come mero fenomeno di corruzione opportunistica, anche se di opportunismo servile diedero larga prova gli intellettuali - "questa ignobile marmaglia che ha reso possibile il trionfo del fascismo", commentava Piero Calamandrei(28): effetto della dittatura fascista, la quale fu scuola di doppiezza e di servilismo, corruttrice della tempra morale degli italiani.

Con la guerra in atto, d'altra parte, tutti avvertivano che le sorti del regime e del paese erano in gioco, e si confondevano insieme. Le reazioni degli italiani, intellettuali compresi, erano contraddittorie, e riflettevano l'andamento del conflitto. In una prima fase l'avversione alla guerra, i dubbi e le critiche venivano messi a tacere da un sentimento di dovere nazionale e dalla previsione, che pareva realistica, di un prossimo esito del conflitto vittorioso per le potenze dell'Asse. Anche la minacciosa prospettiva di un'Europa dominata dalla strapotenza della Germania nazista induceva a stringersi attorno al governo nazionale, a confidare nella capacità di tenuta dell'Italia, soprattutto a sperare in qualche mossa politica risolutrice del duce, in grado di ristabilire l'equilibrio nei confronti del più potente alleato. Per cogliere veramente tra gli intellettuali i segni di un diffuso distacco dal fascismo bisogna arrivare alla svolta decisiva del conflitto, al '42 inoltrato, quando comincia ad apparire chiaro a tutti che il regime, e con esso l'Italia, si avviano alla sconfitta e alla catastrofe.

Il Dizionario di politica a cura del Partito Nazionale Fascista, quattro grossi volumi pubblicati nel 1940(29), offre un quadro illuminante dell'adesione, o dell'allineamento generale del ceto accademico al clima del regime. L'elenco dei collaboratori è impressionante. Veramente pochi nomi mancano , tra i cultori delle discipline pertinenti a un dizionario di politica. Limitandoci agli storici, come un campione assai significativo che siamo meglio in grado di valutare, vi troviamo, accanto a qualificati esponenti del regime come Francesco Ercole e Gioacchino Volpe, quasi tutti i nomi più autorevoli della giovane generazione affermatasi negli anni venti e trenta. Delio Cantimori, innanzi tutto, i cui contributi spiccano per quantità e importanza (la "voce" Nazionalsocialismo è una sintesi magistrale, insuperata per rigore e lucida incisività) (30); poi, citando alla rinfusa, Carlo Morandi, Ernesto Sestan, Federico Chabod, Walter Maturi, Nino Cortese, Piero Pieri, Roberto Cessi che pure non era iscritto al PNF, Augusto Torre, Franco Valsecchi, Rodolfo Mosca, Roberto Battaglia futuro storico della Resistenza; e ancora il medievista Giuseppe Martini, che assieme al glottologo Antonino Pagliaro - fervente ideologo del fascismo - e a Guido Mancini, docente di storia della filosofia e delle dottrine politiche, componeva la redazione del Dizionario di politica. A questi si aggiungevano altri professori di discipline affini, ma egualmente studiosi di storia, e autori di contributi di argomento storico, come Arturo Carlo Jemolo e Felice Battaglia. Certo, la loro collaborazione riguardava voci di argomento storico, che di per sé non comportavano intima adesione al fascismo. Ma nel 1940 (o 1939, quando furono verosimilmente scritti in gran parte i singoli contributi), si era in piena dittatura totalitaria, dopo le leggi razziali, dopo l'alleanza con la Germania nazista e il "patto d'acciaio", mentre la guerra incombeva o era già iniziata - come si deduce da alcune "voci", ad es. di Cantimori sulla Germania e sul Nazionalsocialismo - e l'Italia fascista era sull'orlo dell'intervento. Collaborare a un'impresa culturale di così marcata e dichiarata finalità politica e ideologica significava quanto meno accettarne l'ispirazione di fondo. Certo possiamo constatare che i collaboratori non erano trattenuti da alcuna pregiudiziale etica o politica nei confronti del regime, ma anzi guardavano al fascismo, trionfante in Europa, con spirito aperto e sostanzialmente favorevole. E del resto in non poche di queste "voci" - non in tutte, non ad esempio in quelle di Chabod - si riflettono le suggestioni del clima fascista, e si colgono toni di consenso alla politica del regime, in qualche caso anche accenti encomiastici nei confronti di Mussolini. Estrapolare sistematicamente i passi più significativi, per dimostrare questi toni e accenti, sarebbe operazione di dubbia correttezza, che farebbe torto alla comprensione storica. Una rassegna di questi scritti non si potrebbe fare fuori di una attenta analisi del loro contenuto sostanziale, e del momento storiografico in quel particolare clima politico e culturale.

Consideriamo gli scritti di, Arturo Carlo Jemolo, giurista e storico insigne, maestro di rigore morale e di virtù civile per più generazioni, un liberale cattolico di cui per concordi testimonianze era nota l'intima avversione al fascismo. Spettano a lui, nel Dizionario di politica, le "voci" riguardanti i rapporti tra Stato e Chiesa, sempre risolti dall'intervento provvidenziale del Duce, che con il suo occhio sicuro guarda lontano. "Chi abbia la sana coscienza realistica di un italiano della civiltà fascista", assicura Jemolo sotto la "voce" Chiesa e Stato, sa che ogni paese e ogni epoca storica hanno diverse esigenze. Una lunga citazione del Duce illustra il concetto. "Anche questo problema dunque, come tutti quelli che la Rivoluzione fascista trovò sulla sua via - assicura ancora Jemolo -, fu affrontato e risolto" con gli accordi del Laterano. "Soluzione contingente: ottima là dove di fronte alla Santa Sede sta il regime fascista: 'regime leale, schietto, preciso, che dà la mano aperta, ma che non dà il braccio a nessuno', regime fortissimo, regime circondato di enorme prestigio; il 'regime fascista, creatore di nuove forze economiche, politiche, morali, che fanno di Roma uno dei centri più attivi della civiltà contemporanea' (discorso del Duce in Senato, 25 maggio 1929)". Soluzione ottima che non esclude la possibilità di divergenze, ma che ha certezza di durata. "'La pace durerà': disse il Duce: e pure a questo proposito la storia avallerà ch'Egli guardò lontano con occhio sicuro". Sono i toni e i concetti che coronano tutte le altre "voci" (Azione Cattolica - Guarentigie - Laterano, accordi del ); ma si veda anche in proposito dello stesso Jemolo, il saggio La questione romana (1938): "occorreva venisse l'Uomo capace di comprendere che il momento era giunto, capace di superare le residue difficoltà [...]. Nel 1929 quest'Uomo dominava ormai da sette anni la vita italiana, e la sua figura già si levava poderosa sul cielo d'Europa [...]"(31). Allora andiamo a rileggere alcune pagine di Anni di prova, il suggestivo libro memorialistico di Arturo Carlo Jemolo. Sono pagine che possono valere come guida per capire quegli anni, e cercare la via della comprensione nel giudizio storico. "I regimi totalitari sono deprimenti per l'uomo. Ci sono gli eroi, quelli che affrontano nell'esilio la miseria nera, la morte dei figli per privazioni; quelli che in patria subiscono condanne a trent'anni e non chiederanno mai la grazia. Ma ci sono quelli che hanno troppo contato sulle proprie forze", e finiscono per cedere e diventare confidenti della polizia e provocatori, o si lasciano dettare le più umilianti lettere di pentimento. "E ci sono molti che non hanno fiducia in sé, e si rodono il fegato senza osare mai d'impegnarsi a fondo, di compiere l'azione che può costare la prigione o la perdita del pane quotidiano, e talora si disprezzano e perdono la stima del proprio io, che è la preparazione ad ulteriori cedimenti; talora finiscono per dubitare di tutto; di porsi la domanda - agisco meglio io che sono come il gatto bianco preoccupato solo di sporcarsi il meno possibile il pelliccino (perché candido nessuno riesce a tenerlo; ci sarà sempre una frase scritta, un gesto compiuto, l'adesione ad una sottoscrizione, una onorificenza non rifiutata, che a buon diritto potrà esserci rimproverata come un cedimento)[...]. Talora, in uno di quei grovigli che solo Dio può sciogliere, la paura, il desiderio di vita tranquilla, di vantaggi, l'umiltà di non pretendere di giudicare meglio di tutti gli altri, portano a conversioni, a dire - avevo sbagliato -, ad accettare il fascismo. [...] Nei primi anni c'era la fiducia che il fascismo sarebbe passato", ma poi il regime si era consolidato, Hitler era andato al potere, Italia fascista e Germania nazista sembravano non incontrare limiti. "Tutto faceva pensare che nazismo e fascismo dovessero durare secoli. Si ponevano confronti, problemi pericolosi: la caduta di Roma, le dominazioni barbariche, il mescolamento di popoli e la nuova civiltà ch'era scaturita da quelle; dal male attuale non poteva scaturire un gran bene? [...] Il coraggio viene facilmente meno allorché si pensa che tutto sia inutile, che la nostra protesta resterà solitaria, che se potremo ancora sottrarre al Moloch l'anima dei nostri figli, non potremo sottrargli quella dei nostri nipoti, che si è dei superstiti, i seguaci di una religione destinata a morire." E', come si è ricordato, la stessa angoscia che tormenta Piero Calamandrei, il dubbio che talvolta l'assaliva, di essere uno dei "superstiti malinconici di una civiltà al tramonto(32)".

"Un regime totalitario - prosegue Jemolo - è fonte di infinite tristezze. Quella di vedere l'opera di lento pervertimento che riesce a compiere anche sugli uomini che più stimavamo. Povera cosa è la nostra ragione, che cede sempre alla spinta del sentimento, sempre disposta a trovare buoni argomenti per giustificare la conclusione cui si desidera arrivare, cui spinge l'istinto, quella grande molla che è l'istinto della felicità".

E' l'esame di coscienza di una generazione di intellettuali che con il fascismo avevano avuto contiguità di esperienze e di orizzonti, e in parte vi avevano aderito, oppure, subendolo, non avevano potuto convivere con il regime senza restarne in qualche misura invischiati; che sottostando alla violenza morale della dittatura, accettandone le imposizioni, avevano interiorizzato i propri cedimenti volgendoli in consenso al potere dominante - una sorta di "sindrome di Stoccolma" -, e avevano finito per dubitare di sé e dei propri principi e cedere alle suggestioni del regime. Ed ora, restituita la libertà, - come anche poteva accadere, senza fondato motivo, ai molti giovani della generazione del Littorio che avevano creduto nel fascismo prima di assistere al suo ignominioso fallimento - vivevano il ricordo di questa esperienza con senso di colpa e di vergogna.

Ma vi è ancora un risvolto, che importa rilevare negli atteggiamenti indotti dalla dittatura. "Più spesso, - è sempre Jemolo ad osservarlo - scaturisce invece l'acidità, il non voler ammettere che ci sono dei coraggiosi, dei puri, che non si limitano ad arrovellarsi, ma agiscono, accettano sacrifici che noi non si accetta; ed allora vengono fuori, e più non cambieranno, quelli che dovunque vogliono vedere la tara, il sudicio, che avranno rancore ed avversione per le più alte figure, quelli come Parri, come Bauer, come Capitini, nella cui vita non c'è un solo neo".

Con il suo deciso immediato intervento nella lotta di liberazione, l’Università di Padova, centro fondamentale della cospirazione politica e della resistenza armata nel Veneto, riprendeva la sua alta tradizione di impegno civile e patriottico, “ridando pieno significato al severo motto tradizionale: Universa universis patavina libertas” (Meneghetti). Questo sentimento era particolarmente vivo e profondo nell’ambito dell’antifascismo radicato nell’Università di Padova: e qui, per iniziativa dei suoi più autorevoli rappresentanti, il rettore e il prorettore, si costituiva l’organismo unitario dei partiti antifascisti che assumerà la guida della resistenza veneta.

Il 10 settembre i tedeschi avevano occupato Padova; pochi giorni dopo, nell’abitazione di Concetto Marchesi, a Palazzo Papafava, si costituiva il Comitato di liberazione nazionale regionale veneto, composto dallo stesso Marchesi (Pci) e da Egidio Meneghetti e Silvio Trentin (Partito d’azione), Mario Saggin (DC), e il socialista Alessandro Candido. La decisione fu subito netta e senza esitazioni: organizzare la lotta armata. Già il 13 ottobre veniva costituito un Esecutivo militare regionale, composto da Marchesi, Meneghetti e Trentin, dal socialista Antonio Cavinato - un altro scienziato formatosi nell’Ateneo padovano e allora docente al Politecnico di Torino - e da due esponenti della DC e del partito repubblicano, Bruno Marton e Arturo Buleghin. Finché Marchesi poté restare al suo posto, il rettorato del palazzo del Bo divenne una sorta di quartier generale della resistenza veneta, dove si svolgevano le riunioni del CLNRV e facevano capo collegamenti di vitale importanza, mentre diversi istituti universitari si trasformavano in centri di attività clandestina e organizzazione militare.

Alle origini della resistenza nel Veneto s’impone il ruolo decisivo di Concetto Marchesi, Egidio Meneghetti, e Silvio Trentin, tre personalità carismatiche, una sorta di triumvirato, straordinaria combinazione di autorità morale e politica e di esperienza cospirativa e militare. Il prorettore Egidio Meneghetti, insigne farmacologo, interventista democratico e valoroso combattente nella prima guerra mondiale, ferito e decorato di due medaglie d’argento e una di bronzo, dopo l’avvento del fascismo militante di “Italia Libera”, l’associazione degli ex-combattenti antifascisti, collaborava poi alla diffusione e anche alla stampa del “Non Mollare”, primo giornale clandestino antifascista, fondato dal gruppo fiorentino di Gaetano Salvemini e Carlo Rosselli. Assumendo la presidenza del CLN regionale, sarà guida e anima della resistenza veneta sino a quando, nel gennaio ’45, fu arrestato dalla banda del maggiore Carità, operante al servizio delle SS tedesche.

Silvio Trentin movimento “Giustizia e Libertà”, al fianco di Carlo Rosselli, Emilio Lussu e Gaetano Salvemini. Dopo il crollo della Francia, travolta e occupata dalle armate tedesche, era stato “anima della Resistenza a Tolosa”, uno dei capi e organizzatori delle formazioni partigiane. Dopo la caduta del fascismo era rientrato clandestinamente in Italia, arrivando a Treviso il 3 settembre, appena in tempo per tentare invano, dopo l’8 settembre, di ottenere dai comandi militari di Treviso e Feltre la distribuzione di armi per organizzare la resistenza contro le truppe tedesche. Dopo pochi giorni si era quindi trasferito a Padova, centro principale in cui poteva aggregarsi il movimento di resistenza, inserendosi subito autorevolmente nella cerchia degli esponenti antifascisti dell’Università, nella quale aveva pure insegnato per breve tempo.

Concetto Marchesi, insigne umanista e storico della letteratura latina, aveva aderito al Partito comunista sin dalla sua fondazione, ma era uno spirito libero, alieno dal dogmatismo e dalla rigida disciplina imposti ai militanti in quei tempi di duro stalinismo33. Il suo marxismo consisteva tutto nel materialismo storico, metodo d’interpretazione della società e della storia, ma respingeva con fermezza il materialismo dialettico, vale a dire la pretesa di dedurre dal pensiero di Marx ed Engels una dottrina filosofica, quale concezione del mondo del partito marxista-leninista, che doveva essere imposta in ogni campo della cultura, della scienza e dell’arte. Come scriveva Luigi Longo (6 dicembre 1943) allora massimo dirigente del Pci in Alta Italia, Marchesi non aveva “una personalità di partito”: la sua personalità non era “costituita dalla [...] militanza di partito, ma da altri elementi”. Ma proprio grazie a questa sua forte personalità e indipendenza di giudizio si era gettato nella lotta senza attendere le direttive del partito e senza poi deflettere dalla sua linea di condotta in contrasto con quella del partito.

Come si è visto, subito dopo l’8 settembre aveva assunto un ruolo decisivo nella costituzione del CLN regionale veneto per organizzare la resistenza armata. Naturalmente, in seguito alla costituzione del governo fascista repubblicano aveva presentato le dimissioni al ministro dell’Educazione nazionale, Carlo Alberto Biggini, il quale però, perseguendo l’insidiosa e velleitaria politica moderata di “conciliazione nazionale” – in realtà funzionale alla politica collaborazionista del nuovo governo fascista asservito ai tedeschi ­– le aveva respinte, impegnandosi ad assicurare l’indipendenza della vita universitaria da ogni intervento politico e militare. Marchesi aveva quindi ritirato le dimissioni. La decisione di rimanere al suo posto di rettore era in aperto contrasto con la linea generale del Partito comunista, tesa alla lotta a fondo, senza tregua, contro tedeschi e fascisti. Non era ammissibile alcuna forma di compromesso e di rapporto con le autorità fasciste e con i tedeschi. Che una personalità prestigiosa come Marchesi, notoriamente comunista, restasse rettore in carica di una grande università, famosa nel mondo, accettando necessariamente un rapporto istituzionale con l’autorità fascista e con l’occupante, poteva apparire un atteggiamento compromissorio, al limite del collaborazionismo. Il partito aveva le sue buone ragioni, muovendo da una prospettiva generale, su una linea condivisa del resto anche dagli altri partiti antifascisti. Ma Marchesi agiva nella particolare situazione padovana, intendeva sfruttarne tutte le potenzialità, e non volle piegarsi alle direttive del partito, che gli ingiungevano di dimettersi e “rompere i ponti” con le autorità fasciste. Il suo piano era semplice quanto incredibilmente audace e spregiudicato: fare dell’Ateneo, sotto la copertura della tradizionale inviolabilità delle sedi universitarie, il centro organizzativo e propulsivo della cospirazione e della resistenza armata nel Veneto. L’incomprensione era reciproca, per quanto riconducibile alle drammatiche condizioni di quella fase iniziale della resistenza. Il partito in seguito, meglio informato, dovette ricredersi, rivedendo il severo giudizio su Marchesi. Sorprende però che, a distanza di tempo, studiosi anche autorevoli come Claudio Pavone, scrivano che anche Concetto Marchesi “fu tentato” di assumere una posizione di “attesismo”, “quando, ancora Rettore dell’Università di Padova, manifestò qualche reticenza e incredulità verso la lotta antifascista e antitedesca”34.

In questo contesto, l’inaugurazione del 722° anno accademico, il 9 novembre 1943, si trasformò in una aperta sfida contro i tedeschi e i fascisti. Alla solenne cerimonia – fatto significativo senza precedenti - non erano state invitate le autorità: erano intervenuti solo “in forma privata” il ministro Biggini e il capo della provincia. Un gruppo di miliziani fascisti armati, che avevano occupato il podio tentando di arringare la folla di studenti e docenti che gremiva l’aula magna, fu sommerso da un uragano di fischi e di invettive, e l’improvvisato oratore allontanato a viva forza da Marchesi e Meneghetti. “I giovani ci hanno tragicamente deluso”, dirà pochi giorni dopo il segretario federale di Firenze, intervenendo al congresso di Verona del Partito fascista repubblicano. “I giovani devono combattere e morire senza discutere. A Padova hanno fischiato i cadetti della milizia, tra cui era mio figlio. Gli studenti desideravano che il discorso del rettore dell’università continuasse e gridavano ‘ammazza il porco’”35.

Il memorabile discorso di Concetto Marchesi, con cui dichiarava aperto il nuovo anno accademico “in nome di questa Italia dei lavoratori, degli artisti e degli scienziati”, era un appello al patriottismo e una chiara affermazione del valore fondante della libertà, della democrazia e della giustizia sociale. “Oggi da ogni parte si guarda al mondo del lavoro come al regno atteso della giustizia. Tutti si protendono verso questo lavoro per uscirne purificati. E a tutti verrà bene; allo Stato e all’individuo: allo Stato che potrà veramente costituire e rappresentare l’unità politica e sociale dei suoi liberi cittadini; all’individuo che potrà finalmente ritrovare in se stesso l’unica fonte del proprio indistruttibile valore”. La personalità carismatica del rettore antifascista rendeva più esplicito il significato inequivocabile del suo alto linguaggio oratorio: rigorosa affermazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, per cui ogni individuo ha in sé i propri diritti inalienabili, fondati innanzi tutto sul diritto alla libertà; e che quindi la sovranità appartiene al popolo: “perenne e irrevocabile è solo la forza e la potestà del popolo che lavora e della comunità che costituisce la gente invece della casta”.

Sono i principi dell’Ottantanove, affermati dalla Rivoluzione francese, fondamento di ogni concezione liberale, democratica e socialista, cui si contrapponeva apertamente il fascismo, con la sua dottrina politica e con la realtà del regime totalitario. Affermava Kant, filosofo del liberalismo: “L’uomo che è fine non può essere assunto al valore di mezzo”. Controbatteva Alfredo Rocco, massimo teorico della dottrina politica del fascismo: “Per il fascismo la società [ossia lo Stato in quanto organizzazione giuridica della società] è fine e l’individuo è mezzo”, strumento per i fini dello Stato: “strumento che si adopera, finché serve allo scopo e si sostituisce, quando non serve”. L’individuo non possiede diritti propri, può solo servirsi dei diritti che lo Stato, sovrano assoluto titolare di ogni diritto, gli concede per i propri fini36. Non diversa, nella sostanza, era la teoria dello Stato etico di Giovanni Gentile, altro autorevole ideologo del fascismo37. Il regime totalitario fascista traduceva in pratica queste teorie, ponendosi come negazione assoluta di ogni diritto alla libertà: la libertà, che come ribadiva Silvio Trentin, citando la massima kantiana, costituisce “il diritto unico, originario, appartenente a ciascun uomo in virtù della sua umanità”38, e si identifica con l’autonomia della coscienza di ogni individuo.

Da tutto questo contesto, dall’ondata di sdegno antifascista esplosa nell’aula magna, e dall’alto richiamo del rettore ai valori di libertà e democrazia, l’appello finale ai giovani suona come un appello alla resistenza per ricostituire la Patria: “Giovani, confidate nell’Italia. Confidate nella sua fortuna se sarà sorretta dalla vostra disciplina e dal vostro coraggio: confidate nell’Italia che deve vivere per la gioia e il decoro del mondo, nell’Italia che non può cadere in servitù senza che si oscuri la civiltà delle genti”.

Il 23 novembre Marchesi doveva ormai passare in clandestinità per sfuggire all’arresto, e riparava in Svizzera, ma per stabilire la base di una rete di collegamenti tra la resistenza veneta e la missione anglo-americana, per mezzo principalmente di Ezio Franceschini, suo allievo a Padova e allora docente all’Università cattolica di Milano: l’organizzazione “Frama” (Franceschini-Marchesi), tramite fondamentale per i messaggi e per l’organizzazione degli aviolanci alle formazioni partigiane. Prima di allontanarsi dall’Università indirizzava agli studenti, il 1° dicembre, lo storico appello alle armi: “[...] Una generazione di uomini ha distrutto la vostra giovinezza e la vostra Patria; vi ha gettato tra cumuli di rovine; voi dovete tra quelle rovine portare la luce di una fede, l’impeto dell’azione, e ricomporre la giovinezza e la Patria. Traditi dalla frode, dalla violenza, dall’ignavia, dalla servilità criminosa, voi, insieme alla gioventù operaia e contadina, dovete rifare la storia dell’Italia e costituire il popolo italiano. [...] Studenti, mi allontano da voi con la speranza di ritornare a voi, maestro e compagno, dopo la fraternità di una lotta insieme combattuta. Per la fede che vi illumina, per lo sdegno che vi accende, non lasciate che l’oppressore disponga ancora della vostra vita, fate risorgere i vostri battaglioni, liberate l’Italia dalla ignominia, aggiungete al labaro della vostra Università la gloria di una nuova più grande decorazione in questa battaglia suprema per la giustizia e per la pace del mondo”.

“È il rettore in carica, - ha scritto Luciano Canfora – il rettore della più rappresentativa università italiana, che dichiara di scegliere ormai la lotta armata ed invita gli studenti alla lotta armata contro il governo. [...] È, quel proclama, - si può dire – l’annunzio del principiare della Resistenza in Italia, dopo i torpidi e difficili mesi che avevano visto l’assestamento della Repubblica sociale, un assestamento che gli stessi fascisti non avevano sperato così rapido [...]”39. “L’esempio di Padova – ha scritto Roberto Battaglia – ha costituito la prima base per un intervento attivo della cultura italiana nella lotta di liberazione; ha rotto l’aria stagnante del disorientamento e del dubbio [...]”40.

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* Università di Padova.


1 Emilio Gentile, Le religioni della politica. Fra democrazie e totalitarismi, Laterza, Roma- Bari 2001.

2 Gabriele Turi, Lo Stato educatore. Politica e intellettuali nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 2002.

3 Emilio Gentile, Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925), Il Mulino, Bologna 1996; Norberto Bobbio, Profilo ideologico del Novecento, Milano, Garzanti 1990, cap. 10, “L’ideologia del fascismo”.

4 Emilio R. Papa, Fascismo e cultura. Il prefascismo, III ed., Marsilio, Venezia 1978, pp. 297-300.

5 Ibidem, pp. 139-197.

6 Gaetano Salvemini, Il “Non Mollare”, in Idem, Scritti sul fascismo, III, a cura di Roberto Vivarelli, Feltrinelli, Milano 1974, pp. 465-496.

7 Dall’“Italia tagliata in due” all’Assemblea costituente. Documenti e testimonianze dai carteggi di Benedetto Croce, Ricerca dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici, a cura di Maurizio Griffo, Il Mulino, Bologna 1998, p. 231.

8 R. DE FELICE, Mussolini il duce, II, Lo Stato totalitario, cit., pp. 156-253 passim.

9 Nella vasta bibliografia sull'argomento è qui sufficiente riferirsi R. DE FELICE, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino 1993, passim; ZANGRANDI, Il lungo viaggio, cit, pp. 395-421; G.MICCOLI, Santa Sede e Chiesa italiana di fronte alle leggi antiebraiche del 1938, in "Studi storici", a. 29 (1988), pp. 821-902; G.TURI, Ruolo e destino degli intellettuali nella politica razziale del fascismo, in "Passato e presente", n.19, gennaio-aprile 1989, pp. 31-51.

10 TURI, Ruolo e destino degli intellettuali, cit., pp. 37, 43-44; A. VENTURA, Carlo Anti rettore magnifico e la sua Università, in AA.VV., Carlo Anti. Giornate di studio nel centenario della nascita, Trieste 1992, pp. 182-183.

11 Filosofi Università Regime. La Scuola di Filosofia di Roma negli anni Trenta, a cura di Tullio Gregory, Marta Fattori, Nicola Siciliani De Cumis, Roma 1985, pp.69-70, 84-86. Sul dibattito intorno al progetto di introdurre l'insegnamento della teologia nelle Università cfr. R. MORO, Introduzione, in BOTTAI-DE LUCA, Carteggio, cit., pp. CVI-CXXXIV.

12 G. PIETRA, Prefazione, in A. DE POLZER, La ricchezza privata della provincia di Padova, Padova 1938, p.XIX.

13 DE FELICE, Storia degli ebrei italiani, cit., pp.379-380; ZANGRANDI, Il lungo viaggio, cit., pp.408-409.

14 Cfr. il profilo del Cutelli, evidentemente autobiografico, in Chi è ? Dizionario degli Italliani d'oggi (IV edizione), Roma 1940, pp. 285-286.

15 Mi sia consentito di rinviare in proposito al mio Carlo Anti rettore magnifico e la sua Università, cit., in particolare pp. 177-181.

16 Su questa relazione, datata 20 luglio 1940, scritta in realtà da Ugo Spirito e fatta propria da Bottai, che la presentò come sua a Mussolini, cfr. R. DE FELICE, Gli storici italiani nel periodo fascista, in AA.VV., Federico Chabod e la "nuova storiografia italiana" 1919-1950, a cura di B. Vigezzi, Milano 1984, ripubblicato in IDEM, Intellettuali di fronte al fascismo, Roma 1985, pp. 220 e 328n. Il documento in DE FELICE, Mussolini il duce, II, Lo Stato totalitario, cit., pp. 923-928; e, con alcune varianti, in G.BOTTAI, Diario 1935-1944, a cura di G.B. Guerri, Milano 1989, pp 506-510.

17 Sul congresso di Milano e sulla Scuola di mistica fascista cfr. principalmente D. MARCHESINI, La Scuola dei gerarchi. Mistica fascista: storia, problemi, istituzioni, Milano 1976; sulle tendenze filosofiche cfr. principalmente E.GARIN, Cronache di filosofia italiana, Bari 1955; e le relazioni di Italo Mancini e Giovanni Invitto in AA.VV., Tendenze della filosofia italiana nell'età del fascismo, a cura di O. Pompeo Faracovi, Livorno 1985. Per il fascismo come religione politica è fondamentale E. GENTILE, Il culto del Littorio. La sacralizzazione della politica nell'Italia fascista, Roma-Bari 1993.

18 Cit. in MARCHESINI, op.cit., p.64.

19 Ivi, pp. 75-76.

20 IRENEO SPERANZA [GIUSEPPE DE LUCA], Il cristiano, come antiborghese, in "Il Frontespizio", XI, n.2 (febbraio 1939), pp.90-91.

21 BOTTAI-DE LUCA, Carteggio, cit., pp. 53-54, De Luca a Bottai, 20 gennaio 1942.

22 AGOSTINO GEMELLI, Medioevalismo, in "Vita e pensiero", I (dicembre 1914), p.3: "Ecco il nostro programma! Noi siamo medioevalisti. (...) noi ci sentiamo profondamente lontani , nemici anzi della cosidetta 'cultura moderna'(...)”. Sulla diversa impostazione di metodo e di visione storiografica, che distingue il medioevalismo di De Luca cfr. L. MANGONI, In partibus infidelium. Don Giuseppe De Luca: il mondo cattolico e la cultura italiana del Novecento, Torino 1989, pp. 30-31. Sul De Luca, e più in generale sul filofascismo cattolico, oltre a questo importante opera della Mangoni, cfr. l'efficace analisi di P.G. ZUNINO, Interpretazioni e memoria del fascismo. Gli anni del regime, Roma-Bari 1991, pp. 143-169.

23 BOTTAI-DE LUCA, Carteggio, cit., pp. 29-30, De Luca a Bottai, 15 dicembre 1941.

24 Il cristiano, come antiborghese, cit., p. 89.

25 Per quanto segue, tra il molto che si è scritto su "Primato", cfr. principalmente "Primato". Antologia, a cura di L. MANGONI, Bari 1977; IDEM, L'interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, Roma-Bari 1974, pp. 332-365; DE FELICE, Intellettuali di fronte al fascismo, cit., pp. 219-223 (per la collaborazione di Carlo Morandi).

26 "Primato", a. I, n.4, 15 aprile 1940, p. 22.

27 G.PINTOR, Doppio diario 1936-1943, a cura di M. Serri, Torino 1978, p.118.

28 P. CALAMANDREI, Diario 1939-1945, a cura di Giorgio Agosti, Firenze 1982,

29 Roma, Istituto ddella Enciclopedia Italiana, a. XVIII E.F. (1940). "Il Dizionario di politica - avverte la presentazione di Fernando Mezzasoma, vicesegretario del PNF - si aggiunge alle iniziative che il PNF ha attuato al fine della preparazione culturale e spirituale delle nuove generazioni del Littorio. Esso costituisce una prima presa di posizione di fronte all'innumerevole serie dei fatti più propriamente suscettibili di valutazione politica; esprime, cioè, nel suo complesso, i valori morali e culturali nei quali il Fascismo crede e per i quali opera e combatte. [...]. Il merito d'aver portato a compimento l'opera in maniera che comunque risponde nelle sue linee essenziali alle premesse programmatiche spetta ai fascisti Guido Mancini, Antonino Pagliaro, Giuseppe Martini, che hanno atteso al lavoro di coordinamento e di redazione, ed a tutti i camerati, consulenti e collaboratori, tra i quali sono stati anche alcuni allievi dei Corsi di preparazione politica".

30 Ripubblicati ora quasi tutti in D. CANTIMORI, Politica e storia contemporanea. Scritti 1927-1942, a cura di L. Mangoni, Torino 1991.

31 A.C.JEMOLO, La questione romana, Varese-Milano, ISPI, 1938, pp.15-16.

32 CALAMANDREI, Diario, cit., I, p.29 e passim.

33 Cfr. Ezio Franceschini, Concetto Marchesi. Linee per l’interpretazione di un uomo inquieto, Padova, Antenore, 1978; Luciano Canfora, La sentenza. Concetto Marchesi e Giovanni Gentile, Palermo, Sellerio, 1985.

34 Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, p. 368.

35 Frederick W. Deakin, Storia della repubblica di Salò, Torino, Einaudi, 1963, p. 841 (ed. or. The Brutal Friendship, London 1962).

36 Alfredo Rocco, La dottrina politica del fascismo, in Scritti e discorsi politici, III, La formazione dello Stato fascista (1925-34), Milano, Giuffrè, 1938, pp. 1093-1115.

37 Giovanni Gentile, Origini e dottrina del fascismo, Roma, Libreria del Littorio, 1929, in particolare p. 43.

38 Silvio Trentin, Dallo statuto albertino al regime fascista, Venezia, Marsilio, 1983, pp. 407-408 (ed. or. Les transformations récentes du droit public italien. De la Chart de Charles-Albert à la création de l’État fasciste, Paris 1929).

39 Canfora, La sentenza, cit., p. 92.

40 Roberto Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Torino, Einaudi, 1953, p. 179.





PROLUSIONE - 4 febbraio 2005
- Oscar Luigi Scàlfaro

BARI - 11 febbraio 2005
- Luciano Canfora
- Luigi Masella
- Vito Antonio Leuzzi

NAPOLI - 16 febbraio 2005
- Francesco Paolo Casavola
- Guido D'Agostino
- Paolo De Marco
- Isabella Insolvibile

CATANIA - 22 febbraio 2005
- Giuseppe Barone
- Rosario Mangiameli
- Salvatore Lupo

ROMA - 3 marzo 2005
- Claudio Pavone
- Alessandro Portelli

CAGLIARI - 7 marzo 2005
- Manlio Brigaglia
- Giangiacomo Ortu

BOLOGNA - 9 marzo 2005
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- Antonio Parisella


  PADOVA - 14 marzo 05

 Angelo Ventura

  - Emilio Franzina


TORINO - 16 marzo 2005
- Gianni Oliva
- Claudio Dellavalle

FIRENZE - 17 marzo 2005
- Michele Battini
- Ivano Tognarini

GENOVA - 17 marzo 2005
- M. Elisabetta Tonizzi
- Antonio Gibelli

TRIESTE - 19 marzo 2005
- Raoul Pupo
foto d'archivio
carte storiche
- Enzo Collotti

MILANO - 22 marzo 2005
- Mariuccia Salvati
- Claudio Dellavalle
- Gianni Perona



 
 
 
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