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Le forze armate, la guerra, la Resistenza
Gianni Oliva
Militari e lotta
di liberazione dell’autunno 1943
Una prima considerazione da fare riguarda il ruolo
diretto dei militari nel movimento di liberazione. Al momento non
esistono dati statistici esaustivi, ma le monografie sulle singole
realtà locali concordano nell’individuare nuclei
militari all’origine del fenomeno ribellistico: i reparti (o i
gruppi sparsi) che dopo l’8 settembre riescono a sottrarsi alla
cattura da parte dei tedeschi, costituiscono i riferimenti iniziali
dell’attività partigiana. In una regione come il
Piemonte, la geografia del primo ribellismo partigiano è un
indicatore significativo: l’area del cuneese si anima di
numerose “bande” sin dalla metà del settembre 1943
perché in quella zona viene sorpresa dall’armistizio la
IV Armata, in ripiegamento dalla Francia. Nella provincia di Torino
l’iniziativa parte spesso da ufficiali di stanza nel capoluogo,
oppure nella zona di Pinerolo (il maggiore degli alpini Luigi Milano
in Val Sangone, il sergente Maggiorino Marcellin e i tenenti Ettore e
Adolfo Serafino in Val Chisone, il capitano di cavalleria Pompeo
Colajanni e alcuni suoi tenenti nella valle del Po; e, ancora, il
sottotenente carrista Giulio Nicoletta nella zona di Beinasco, i
tenenti Carlo Carli, Walter Fontan e Felice Cima in Val di Susa).
Nell’autunno 1943 lo stesso immaginario popolare registra il
nesso tra resistenza e ruolo dei militari e tutto il Piemonte
diventa terreno fertile per la diffusione di suggestioni collettive:
si favoleggia di un “imminente sbarco alleato in Liguria e di
una divisione alpina, la “Pusteria”, ancora intatta e
attestata sui monti”: si fantastica su “partigiani con
armi a iosa, cannoni, comandi e intendenze”; si parla di
reparti che fanno ogni mattina l’adunata e l’alzabandiera;
poco dopo si crederà alla leggenda degli “stormi
angloamericani che nottetempo scaricano grandi quantitativi d’armi
e di materiali sui monti”.
Non è azzardato ipotizzare che se la
percentuale dei militari impegnati nel movimento partigiano è
contenuta rispetto alla primavera del 1945 (è noto, infatti,
che la maggior parte dei partigiani era costituita da giovani
renitenti alla leva della Repubblica Sociale), essa è invece
preponderante rispetto alla situazione dell’autunno-inverno
1943. A questo dato va aggiunta l’esperienza della resistenza
italiana all’estero, totalmente affidata a reparti provenienti
dal Regio Esercito: la divisione “Acqui” a Cefalonia
(l’episodio più noto), ma anche la divisione “Pinerolo”
in Macedonia, la divisione “Firenze” in Albania, le
divisioni “Taurinense” e “Venezia” nel
Montenegro, la divisione “Bergamo” in Jugoslavia, e tutti
gli uomini che, individualmente, a piccoli gruppi, o inquadrati in
unità minori passano nelle file della resistenza titoista, di
quella albanese di Enver Hoxha e Axhi Lieschi, di quella greca
dell’Edes e dell’Elas. Queste scelte sottintendono
certamente una rottura con il passato e per l’atmosfera storica
nella quale maturano non possono essere lette in termini di
continuità con una tradizione: esse sono comunque un aspetto
significativo dell’emergenza del settembre 1943 e vanno
considerate sia nella prospettiva di una ricostruzione specifica
della storia delle Forze Armate, sia in quella più generale
dell’attitudine degli italiani di fronte all’armistizio.
Allo stesso modo, va considerata l’esperienza degli oltre
650.000 internati militari nei lager nazisti e del loro massiccio
rifiuto al collaborazionismo, una pagina di resistenza silenziosa a
torto trascurata dalla ricerca e dalla pubblicistica storica.
Le Direttive del 10 dicembre 1943 per
l’organizzazione e la condotta della guerriglia
Esaurita questa premessa, entriamo nello
specifico della relazione. Il punto di partenza può essere
considerata la direttiva del 10 dicembre 1943, firmata dal Capo di
Stato Maggiore Generale Giovanni Messe, per l’”organizzazione
e la condotta della guerriglia”. Il documento costituisce una
duplice legittimazione: nei confronti delle bande, considerate
“aliquote delle Forze Armate Italiane rimaste isolate in
territorio nemico”, là dove esse operino in
coordinamento con il Comando Supremo e al di fuori di interessi di
partito; nei confronti dei partiti politici, che, fatta salva
l’apoliticità delle forze militari, devono essere
comunque “i migliori alleati” dei comandanti di
formazione “sul piano della guerra al tedesco” e “ai
fini della tenuta dell’ordine pubblico”. Per quanto
riguarda l’organizzazione della guerriglia, le direttive dello
Stato Maggiore indicano due momenti: dapprima l’individuazione
delle bande esistenti, “determinandone serietà, forza,
armamento, dislocazione, condizioni di vita e necessità,
possibilità d’azione”; quindi, la definizione di
zone operative per ogni formazione, sia per evitare sovrapposizioni e
disfunzioni, sia per finalizzare l’attività di
guerriglia ad obiettivi mirati. Le azioni militari consigliate sono
essenzialmente di sabotaggio: evitando di agire nelle città,
dove più gravi sono i rischi di rappresaglia. Lo Stato
Maggiore Generale sollecita interventi sulle linee ferroviarie e
stradali (dall’interruzione di ponti e viadotti,
all’asportazione di tratti di rotaia, alle frane piccole e
grandi, sino al più immediato danneggiamento delle gomme con
spargimento di chiodi) e sulle linee di comunicazione telefoniche e
telegrafiche (taglio dei fili e asportazione di tratti di linea).
Accanto al sabotaggio, la controinformazione: i nuclei ribellistici
devono garantire ad appositi capi-gruppo le notizie inerenti alla
condotta della guerra aerea (obiettivi da colpire e risultati
conseguiti) e allo schieramento delle grandi unità tedesche,
informazioni che saranno a loro volta trasmesse ai comandi delle
forze alleate.
Dal punto di vista militare, il progetto dello
Stato Maggiore Generale corrisponde ad una logica precisa: dare al
movimento di resistenza un carattere unitario e organico,
indipendente dalla direzione politica dei partiti, che sappia
coordinare le iniziative di una rete organizzativa clandestina e che
possa coadiuvare lo sforzo alleato con le azioni di sabotaggio e di
controinformazione nelle retrovie nemiche. Rispetto ai propositi dei
comandi angloamericani, che vorrebbero un movimento di dimensioni
modeste modellato sul “maquis” francese, le
Direttive del 10 dicembre sono più ambiziose e colgono
l’aspetto partecipativo che la resistenza italiana assume sin
dall’origine; nel contempo esse tendono a convogliare le varie
iniziative verso l’unico obiettivo della guerra contro i
tedeschi, in alternativa alla caratterizzazione politica che il
Partito comunista, il Partito d’azione e il Partito socialista
di unità proletaria vogliono invece dare alla lotta. Il
progetto dello Stato Maggiore Generale incontra difficoltà sul
piano attuativo, alcune legate alle condizioni oggettive della lotta
clandestina (ad esempio, il censimento preventivo degli uomini, delle
armi e dei materiali, strumento indispensabile nell’organizzazione
di un esercito regolare, diventa un vizio di burocratismo per bande
irregolari che operano in territorio occupato), altre la ruolo dei
partiti antifascisti (la separazione dell’aspetto militare da
quello politico è difficile nel momento in cui il
coordinamento della resistenza partigiana è affidato ai
Comitati di liberazione nazionale). Dal punto di vista dello Stato
Maggiore, le Direttive costituiscono comunque una linea d’azione
coerente, che verrà perseguita sino alla Liberazione e che
rappresenterà un riferimento per molte formazioni partigiane
“autonome”.
Le missioni di collegamento e operative
Il rapporto tra lo Stato Maggiore Generale
e il movimento di liberazione non può prescindere da contatti
diretti, sia per un’esatta percezione delle dimensioni del
fenomeno, sia per l’individuazione delle necessità, sia
per assicurare continuità ai collegamenti. In questa
prospettiva, sin dall’ottobre 1943, vengono costituite le
“missioni di collegamento ed operative”, nuclei di
militari delle tre forze armate, offertisi volontari, che con
aviolanci o sbarchi vengono avviati nei territori occupati (solo
nelle prime missioni vengono utilizzati anche dei civili):
generalmente esse sono composte da un ufficiale capo-missione, uno o
più collaboratori, e un radiotelegrafista. I compiti generici
affidati alle missioni possono sintetizzarsi in questi punti:
“prendere contatto con le organizzazioni e le bande, di
qualsiasi colore politico, che lottano contro i nazifascisti;
segnalare forza, armamento, attività e possibilità
delle formazioni di patrioti nella zona di propria competenza;
indirizzare le bande nell’organizzazione e nell’effettuazione
di sabotaggi, dando consigli ed addestrando il personale nell’impiego
dei mezzi necessari; mettersi in misura di far tradurre in atto, al
momento opportuno, azioni di sabotaggio sulle comunicazioni stradali
e ferroviarie, nonché assolvere altri compiti che, in
relazione alla situazione contingente, potranno essere affidati;
richiedere i rifornimenti per le bande segnalando i campi di lancio e
le relative modalità esecutive per le operazioni; comunicare
notizie di carattere militare”.
Il personale destinato alle missioni viene
preparato in appositi corsi organizzati nell’Italia liberata
dalla “Special Force n° 1” britannica, con il
concorso di personale italiano. In particolare, si attivano corsi di
paracadutismo (una settimana con quattro aviolanci, di cui uno
notturno), canottaggio (una settimana, per il personale il cui
avviamento è previsto via mare), sabotaggio (di una o più
settimane, a seconda degli obiettivi da attaccare), antisabotaggio
(due settimane), Cicogna (per partenza e atterraggio apparecchi
Cicogna), ricezione aviolanci (una settimana, per predisporre campi
di ricezione), perfezionamento agenti (per costruire organizzazioni
clandestine per quanto possibile in ambiente di sicurezza),
organizzatori e istruttori (tre settimane, per abilitare il personale
ad organizzare operazioni di sabotaggio in un quadro coordinato),
radiotelegrafisti (riservati ad operatori reclutati fra personale
tecnico).
Sino al mese di aprile 1944, il personale
impiegato nelle missioni è tutto italiano: successivamente, in
relazione all’importanza assunta dal movimento di liberazione e
al mutato atteggiamento alleato verso il suo ruolo, vengono inviate
missioni miste anglo-italiane o soltanto inglesi, che si integrano
nella rete organizzativa già costituita. In totale, le
missioni di collegamento e operative inviate in zona occupata nei
venti mesi di guerra di liberazione sono 96, di cui 48 italiane, 25
miste e 23 inglesi: gli uomini impiegati sono 282, di cui 163
italiani (64 radiotelegrafisti) e 119 inglesi. A queste vanno
aggiunte 44 missioni di istruttori di sabotaggio, per un totale di
152 uomini impiegati. La funzione di collegamento delle missioni
risulta determinante soprattutto per gli aviorifornimenti, per i
quali è indispensabile organizzare campi e modalità di
ricezione (scelta del luogo, costituzione di un comitato di ricezione
responsabile, segnali a terra, intese radio, messaggi speciali).
Nella prima fase della lotta di liberazione, i campi predisposti sono
limitati e limitati sono i lanci: a tutto aprile 1944, le operazioni
di aviorifornimento sono soltanto 63, per un totale di 99 tonnellate
di materiali lanciati. A partire dalla tarda primavera 1944, i
Comandi alleati assumono un atteggiamento più possibilista nei
confronti delle formazioni partigiane del Centro-Nord e mettono a
disposizione un maggior numero di risorse per il loro sostegno: ne
beneficiano soprattutto le formazioni che operano a ridosso del
fronte o che possono tenere impegnate forze tedesche in aree di
interesse strategico (ad esempio, le formazioni cuneesi nell’estate
1944, sostenute militarmente in concomitanza con lo sbarco a Tolone
per costringere la Wehrmacht a distrarre truppe dalla Francia
meridionale). In questa prospettiva, il ruolo di collegamento delle
missioni diventa nevralgico: il risultato è la predisposizione
di oltre 500 campi per la ricezione, dove vengono effettuate 1.280
operazioni, con quasi 2 milioni di tonnellate nette di materiale
lanciato.
Il ruolo del generale Luigi Cadorna
Il rapporto tra lo Stato Maggiore Generale e il
movimento di liberazione trova il suo momento più
significativo nell’estate 1944, con l’invio del generale
Luigi Cadorna nell’Italia occupata per assumere il comando del
Corpo Volontari della Libertà. La vicenda è complessa,
indicativa dell’intreccio fra aspetti militari e aspetti
politici che contraddistingue il periodo. Il 19 giugno 1944 il CLNAI
(Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia) approva la
trasformazione del Comitato Militare Alta Italia in Comando Generale
per l’Italia occupata del Corpo Volontari della Libertà:
al di là del mutamento di nome, il fatto rappresenta una
svolta di profondo significato politico perché nasce da un
accordo di tutti i partiti antifascisti, concordi nel riconoscere
l’esigenza di una direzione tecnico-militare efficiente ed
esperta della lotta partigiana. Al ruolo di generico coordinamento
svolto sino ad allora dal Comitato Militare, si intende ora
sostituire un comando reale, in vista dello sforzo conclusivo della
guerra. La gestazione risulta tuttavia laboriosa perché deve
mediare tra equilibri politici dell’Italia occupata, dove le
forze di sinistra sono prevalenti, e quelli dell’Italia
liberata, dove le forze moderate hanno invece un diverso peso. Nella
sua prima organizzazione, il Comando è costituito da cinque
esponenti di partito (Parri per il Partito d’Azione, Longo per
il Partito Comunista Italiano, Mosna per il Partito Socialista
Italiano di Unità Proletaria, Argeton per il Partito Liberale
Italiano e Bignotti per la Democrazia Cristiana), affiancati come
consigliere militare dal generale Giuseppe Bellocchio. La presenza di
Longo, comandante delle brigate “Garibaldi” e massimo
esponente comunista dell’Italia occupata, e di Parri,
responsabile delle formazioni “Giustizia e Libertà”,
riflette il dato oggettivo del ruolo che comunisti e azionisti hanno
nella lotta di liberazione partigiana, ma squilibra verso sinistra la
struttura di comando: di qui le richieste dei partiti moderati e le
pressioni del governo Bonomi per una ridefinizione della struttura.
Il confronto all’interno delle forze
antifasciste porta ad una richiesta ufficiale avanzata dal CLNAI al
governo di Roma per l’invio di un “consigliere militare”
che goda della piena fiducia di tutte le forze politiche e che unisca
“indiscussa fede politica antifascista” e “perizia
tecnica”. Il nome indicato è quello del generale
Raffaele Cadorna, sul quale in agosto convergono le indicazioni dei
partiti, del governo Bonomi, dello Stato Maggiore Generale e dei
comandi angloamericani. Cadorna accetta l’incarico e, prima
della partenza, si incontra con il ministro della Guerra Casati, con
il generale Harding, capo di stato maggiore di Alexander, e con il
colonnello americano Riepe, responsabile dell’ufficio per le
operazioni oltre le linee nemiche.
Le istruzioni per la missione sono riassunte in un
documento in quattro punti in cui si individuano i compiti della
Resistenza secondo una prospettiva che tiene conto dell’ampiezza
raggiunta dal movimento (non solo sabotaggio e controinformazione, ma
vera e propria “guerriglia che consisterà in attacchi
contro le installazioni tedesche” e “piccolo sabotaggio
continuo da parte di tutta la popolazione”), e si sottolinea il
problema del rapporto tra organizzazione militare e organizzazione
politica: “abbiamo già dato aiuto – e lo daremo
ancora – a tutte le organizzazioni di resistenza considerate
capaci di contribuire a distruggere le armate tedesche in Italia. Si
dichiara qui con insistenza che, purchè ogni organizzazione in
Alta Italia si dimostri capace e pronta ad effettuare operazioni
offensive contro i tedeschi, il colore politici di tale
organizzazione non ci interessa. Viceversa si dichiara con uguale
insistenza che, dove le tendenze politiche interferiscono con
l’organizzazione e con i piani di operazione che formano una
parte integrale dell’avanzata alleata in Italia, l’aiuto
non verrà fornito”. Il documento si conclude con le
istruzioni sulla smobilitazione delle formazioni dopo l’arrivo
degli Alleati, sottolineando il dovere dei comandanti partigiani di
fornire tutte le informazioni relative ai propri gruppo e di
garantire la restituzione delle armi.
Entro questa cornice di disposizioni operative, il
mandato di Cadorna va ovviamente al di là di una semplice
consulenza tecnica: a metà agosto, quando viene paracadutato
in Val Cavallina, nel bergamasco, dopo un volo da Bari, il generale è
forte di un’investitura da parte del Comando Alleato, del
governo Bonomi e dello Stato Maggiore Generale che ne fanno piuttosto
un comandante militare designato che un semplice consigliere, e
vanifica il progetto delle forze politiche di sinistra del CLNAI di
relegarlo al semplice ruolo di rappresentante delle formazioni
autonome. L’arrivo di Cadorna coincide, d’altra parte,
con una delega, ufficiosa ma non per questo meno significativa, fatta
dal governo di Roma al CLNAI, riconosciuto “autorità
coordinatrice di tutte le attività politiche militari della
Resistenza” e autorizzato a “emanare tutte le istruzioni
e gli ordini” necessari per potenziare l’attività
dei patrioti: il ruolo che il movimento di liberazione sta assumendo
nell’Italia occupata implica un confronto serrato per
assicurarsene il controllo e le dimensioni dei poteri di Cadorna ne
rappresentano un aspetto. Anche se il generale si muove con prudenza
e nei primi incontri a Milano con i rappresentanti politici rivendica
per se un ruolo equilibratore, il dibattito sulla sua funzione si fa
subito aspro all’interno del CLNAI. Il 4 settembre, a nome dei
liberali, Giustino Arpesani presenta una proposta di riorganizzazione
del comando, che prevede un comandante unico con potere decisionale
su ogni questione di carattere operativo e organizzativo, assistito
da cinque membri designati dai partiti: la proposta viene bocciata
dai rappresentanti dei tre partiti di sinistra, mentre i
democristiani si astengono.
I contrasti sull’organizzazione del comando
si intrecciano presto con le diverse concezioni della lotta
partigiana. Cadorna, che ha subito sottolineato la duplice anomalia
della Resistenza (“politicità della maggior parte delle
formazioni ed elezione dei capi dal basso anziché per
designazione dall’alto: queste caratteristiche hanno la loro
ragion d’essere in questa dolorosa fase di guerra civile, ma
sono evidentemente incompatibili con le esigenze di un esercito
nazionale in una nazione democratica”) cerca ufficiali di
carriera cui attribuire posti di responsabilità per “dare
alla lotta partigiana una cornice che, senza menomare il dinamismo
dei partiti e una loro sana emulazione, ne comprenda e fondi le
aspirazioni, per lo meno quelle affini, in un superiore quadro
nazionale. Il che equivale a rimproverare ai partiti di non aver
tenuto conto di quel superiore quadro nazionale, perché
intenti a perseguire fini di parte. Ma alle affermazioni con cui
Cadorna si sforza di dimostrare la necessità di condurre una
lotta senza pregiudiziali né interferenze politiche con le
formazioni apolitiche, il Parri e il Longo rispondono che il
carattere politico delle formazioni corrisponde agli obiettivi
essenzialmente politici di quella guerra”.
La situazione, che sfiora spesso il limite della
rottura, si sblocca nell’autunno. Considerazioni di opportunità
politica inducono le sinistre ad ammorbidire il proprio atteggiamento
e a cercare un compromesso che salvi le ragioni sostanziali dell’una
e dell’altra posizione: è ormai evidente, infatti, che
la presenza di Cadorna ha posto fine all’egemonia di Parri e di
Longo, stabilendo uno stretto contatto tra l’Italia del Nord e
l’Italia liberata e un’interazione dei rispettivi
equilibri; l’intransigenza, inoltre, contrasterebbe troppo con
la volontà degli Alleati, che proprio a fine settembre
chiedono esplicitamente la costituzione di un comando unico. Di
fronte al rischio di una rottura del fronte partigiano e all’ipotesi
di aviolanci riservati solo alle formazioni autonome, all’inizio
di ottobre la delegazione comunista propone di dare al comando una
struttura puramente militare, accettando il ruolo preminente di
Cadorna ma controbilanciandone l’influenza con l’inserimento
degli esponenti politici in funzione di vicecomandanti. Questa
ipotesi viene accettata sia dai partiti del CLNAI, sia dalle autorità
alleate, sia dallo Stato Maggiore Generale e il 3 novembre il
Comitato Generale viene finalmente riorganizzato: Cadorna riceve il
titolo di comandante, Longo e Parri di vicecomandanti, il socialista
Mosna diventa capo di stato maggiore, il liberale Argenton e il
democristiano Mattei vicecapi di stato maggiore.
La nuova struttura conserva margini di ambiguità
perché le funzioni di comando (che Cadorna accetta con
riserva, ritenendole insufficientemente definite) possono essere
esercitate solo in collaborazione con i due vicecomandanti , che
conservano il controllo diretto delle formazioni garibaldine e
gielliste. Per poter esercitare il comando senza dipendere dai
partiti, Cadorna si sforza, infatti, di creare una propria
organizzazione, grazie all’afflusso di numerosi ufficiali
provenienti dalle forze regolari che vengono a costituire il suo
stato maggiore. Le contingenze della lotta di liberazione, il modo in
cui essa è nata e si è sviluppata, il significato
insieme politico e militare che essa inevitabilmente assume nel
presente e in prospettiva futura, non permettono di sciogliere
ulteriormente i margini di compromesso. La conseguenza è che
l’azione del Comando generale risulta limitata rispetto alla
direzione effettiva del movimento e ai rapporti con le unità
dipendenti. La sua funzione risulta tuttavia decisiva nel rapporto
con gli alleati angloamericani e con il governo Regio, elemento di
cerniera tra l’Italia occupata e Roma: “da tutte le
testimonianze e ricerche emerge l’importanza del ruolo che il
Comando generale ha saputo assumere presentandosi come valido
rappresentante delle forze partigiane. Malgrado le prevenzioni e i
desideri degli alti Comandi e di molte missioni alleate, il Comando
generale ha dimostrato costantemente di essere l’organo più
informato sulla situazione reale dell’Italia settentrionale,
l’unico in grado di anticipare gli sviluppi e di incidere
sull’evoluzione in corso: si è rivelato, insomma,
l’unica controparte reale con cui gli Alleati e il governo
Regio hanno dovuto trattare a proposito della guerra partigiana”.
In questo senso, va riconosciuto a Cadorna e agli uomini del suo
Comando generale una capacità di rappresentanza del movimento
partigiano, colto insieme nelle sue divergenze e nelle sue ansie di
rinnovamento: “merito grande degli uomini che al Comando
generale diedero vita, a tutti i livelli, fu di aver saputo esprimere
la realtà della guerra partigiana, nelle sue divergenze e
nelle sue aspirazioni unitarie, nei suoi limiti politici e militari e
nella sua volontà di rinnovamento. E di aver agito su questa
realtà, con fermezza e coscienza, con un’intransigenza
di fondo che non rifuggiva dai compromessi necessari per raggiungere
quell’azione unitaria di cui il Corpo Volontari della Libertà
e il suo comando furono simbolo”.
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