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Guerra alle frontiere, guerra antifascista e questione nazionale
Raoul Pupo
Guerra
alle frontiere, guerra antifascista e questione nazionale:
all’interno dell’amplissimo panorama disegnato dal
titolo, la lezione di oggi si concentrerà in realtà
sulla frontiera orientale d’Italia, seppur intesa in un
significato molto largo, e ciò per due buone ragioni. La
prima, che gli studi comparativi con il problema della guerra e della
Resistenza al confine occidentale sono appena avviati e che pertanto
solo fra qualche tempo sarà possibili istituire paragoni densi
di significato. La seconda, e più sostanziale, che la guerra
alla frontiera orientale presenta già una serie di nodi
fondamentali, per capire il senso e le contraddizioni della guerra
fascista, ed anche per comprendere i problemi della lotta
resistenziale, in una terra in cui non solo vivono gruppi nazionali
diversi e divisi in buona parte da antagonismi che sono stati
esasperati dal fascismo, ma nella quale a partire dall’autunno
del 1943 operano due differenti movimenti resistenziali, quello
italiano e quello jugoslavo.
Entrando
dunque nel merito dei problemi, la frontiera orientale non fu per
l’Italia il fronte principale del secondo conflitto mondiale, e
la sconfitta non venne da est ma da sud, a seguito dell’invasione
anglo-americana della Sicilia prima e della Campania poi; ma la
guerra ad est fu senz’altro quella per cui l’Italia pagò
il prezzo più alto. Infatti, la fine dell’avventura
mediterranea di Mussolini provocò la scomparsa dell’Impero
coloniale: per l’opinione pubblica del tempo – ed anche
per buona parte delle forze politiche, comprese quelle di sinistra –
costituì un trauma ma, con il senno di poi, almeno eviterà
all’Italia i problemi della decolonizzazione Invece, il
fallimento dell’avventura balcanica del fascismo condusse alla
perdita di Zara, di Fiume e dell’Istria, vale a dire di terre
in cui viveva una numerosa comunità italiana autoctona, ed in
cui il sentimento nazionale italiano era vivissimo. La conseguenza
diretta della guerra fascista quindi, fu la catastrofe
dell’italianità adriatica, dalla quale si salvò
fortunosamente solo Trieste.
Da
questo punto di vista quindi, la seconda guerra mondiale può
essere considerata come il rovesciamento della prima. La Grande
Guerra non fu certo soltanto l’ultima guerra del Risorgimento,
ma portò comunque al completamento dell’unificazione
nazionale, anche nei termini in cui ciò era concepito in
tempi in cui imperava il dogma dea piena nazionalizzazione dello
spazio statuale: e perciò, senza preoccuparsi troppo che,
assieme agli italiani, venissero “redenti” anche alcune
centinaia di migliaia di slavi che non desideravano affatto quel tipo
di salvezza La seconda guerra portò invece al distacco di
quasi tutti i territori annessi solo vent’anni prima: detto in
altre parole, i governi liberali, pezzo dopo pezzo fecero l’Italia,
il fascismo cominciò a disfarla. Per fortuna, non durò
tanto da fare altri danni.
Si
badi bene però, che il problema fondamentale della frontiera
orientale italiana a nel Novecento non è costituito dallo
spostamento dei tracciati di confine, ma dello spostamento delle
popolazioni, com’è tipico del secolo scorso. Nel corso
del ‘900 in tutta l’Europa centrale – cui
apparteneva anche l’area alto-adriatica – il
moltiplicarsi delle linee di confine all’interno di territori
nazionalmente misti, generò la nascita di “minoranze
nazionali”, considerata come un pericolo, o perlomeno come un
ostacolo al conseguimento di quella piena omogeneizzazione nazionale
che veniva accanitamente perseguita dai gruppi nazionali maggioritari
che avevano creato per sé gli stati succeduti ai grandi
imperi ottocenteschi. Di conseguenza, tali stati avviarono spesso
politiche dirette a rendere “innocue” le minoranze e,
possibilmente, a farle scomparire. Ciò è quanto fecero
lo Stato italiano dopo la prima guerra mondiale, e lo Stato jugoslavo
dopo la seconda. Gli esiti furono diversi: nel primo caso, la
distruzione della classe dirigente slava, l’impoverimento dei
gruppi nazionali sloveno e croato, l’attacco diretto e brutale
alla loro identità nazionale; nel secondo caso, la scomparsa
pressoché totale degli italiani dai territori passati sotto il
controllo jugoslavo. Ma tale diversità non dipese dalla
maggiore o minore volontà di cancellare l’avversario,
che non mancò né nel primo dopoguerra, quando ben
presto allo Stato liberale italiano succedette il regime fascista, né
nel secondo, quando i territori vennero controllati dal regime
comunista jugoslavo. Piuttosto, diverse furono le condizioni generali
e le caratteristiche dei rispettivi regimi, di cui solo il secondo
riuscì a realizzare appieno le proprie ambizioni totalitarie.
La
catastrofe dell’italianità di frontiera però non
giunse subito dopo lo scatenarsi del secondo conflitto mondiale, ma
fu preceduta da una rapidissima parabola: in poco più di due
anni, dall’aprile del 1941 (data dell’invasione della
Jugoslavia) fino all’8 settembre del 1943 (data dell’armistizio
dell’Italia), l’Italia fascista conquistò
pressoché tutto ciò che desiderava nei Balcani –
metà della Slovenia, la Dalmazia, la Grecia, il dominio
completo dell’Adriatico – e poi perse tutto, e anche di
più. Che significato dobbiamo attribuire,, sul piano
dell’interpretazione storica, ad una dinamica di tal genere?
In
primo luogo, vi scopriamo la testimonianza di un tentativo di
espansione forzata dell’italianità adriatica. Nei secoli
precedenti, in tutta l’area che di solito chiamiamo “giuliana”
– dall’Isonzo a Fiume, e poi giù lungo le isole
del Quarnero e la costa dalmata – l’italianità era
cresciuta per una serie di motivazioni economiche, sociali e
culturali, che avevano fatto ad esempio di Trieste una grande città
italiana capace di raccogliere l’eredità di Venezia.
Questo meccanismo però si era inceppato nella seconda metà
dell’800 a seguito del formarsi dei movimenti nazionali
sloveno e croato. Il fascismo quindi tentò di riavviare il
medesimo meccanismo, ma in forma coattiva, prima nella Venezia Giulia
negli anni ’20 e ’30, poi in Dalmazia dopo l’annessione
del 1941. In entrambi casi il tentativo di italianizzazione forzata
si concluse con un fallimento, che lasciò però
strascichi sanguinosi.
In
secondo luogo, la dinamica convulsa degli anni ’41-’43
mostra la volontà del fascismo di passare da un confine
nazionale ad un confine imperiale: ma l’Italia crollò
sotto il peso di un compito che andava molto al di là delle
sue possibilità. Non è difficile scorgere in ciò
una delle conferme più evidenti e drammatiche di quanto i miti
del regime – la grande potenza erede di Roma, la nazione
guerriera, e così via – erano completamente fuori dalla
realtà, e quindi il tentativo di metterli in pratica non
poteva che portare il Paese al disastro. Per dirla in altre parole,
la mitologia nazionalista condusse il governo italiano ad impostare
una strategia contraria agli interessi nazionali. E’ questa è
la contraddizione di fondo della politica estera fascista, che si
rivelò essenzialmente autodistruttiva; e le modalità
della guerra alla frontiera orientale ci consentono di capire meglio
alcuni aspetti di quella contraddizione.
Vediamo
soltanto alcuni, cominciando dal contrasto tra le velleità di
dominio balcanico e la subordinazione alla Germania. Da tempo il
fascismo aveva elaborato progetti o di infeudamento della Jugoslavia,
o di creazione di una Croazia autonoma, stato fantoccio nelle mani
dell’Italia, ma in concreto, tempi e i modi della distruzione
della Jugoslavia vennero dettati dai tedeschi. Mussolini avrebbe
voluto attaccare già nell’autunno del 1940, ma venne
fermato da Hitler, che in quel momento non voleva turbare la
situazione balcanica. Nella primavera del 1941 invece era cambiato
tutto. l’Italia aveva attaccato la Grecia, ed era stata
pesantemente sconfitta; la Germania si trovò dunque costretta
ad intervenire per evitare che – nella fase delicatissima di
preparazione dell’operazione “Barbarossa” contro
l’Unione Sovietica – i Balcani si trasformassero in una
possibile base britannica. Dal momento che la Jugoslavia decise di
non collaborare, Hitler da parte sua decise di farla a pezzi.
L’Italia quindi si ritrovò completamente a rimorchio del
tedeschi, e nella spartizione del bottino balcanico dovette
accontentarsi delle briciole: una presenza minoritaria in Grecia e
l’annessione della costa orientale dell’Adriatico, quasi
ininterrottamente da Fiume fino all’Albania e alle isole Jonie.
Ma dietro la striscia costiera, tutto era tedesco, nel senso che la
Germania – anche senza annetterlo – controllava oramai
economicamente e politicamente tutto l’entroterra balcanico.
Quanto
poi alla Croazia, è questa la seconda grande contraddizione
della politica fascista. Uno stato croato indipendente venne
effettivamente creato, e Mussolini avrebbe desiderato legarlo a sé,
ma nello stesso tempo pretese di annettere la Dalmazia, che
rappresentava una delle bandiere del nazionalismo italiano ed uno dei
miti del fascismo. La Dalmazia però era anche una delle culle
del nazionalismo croato: e così, quando la Dalmazia venne
quasi tutta annessa all’Italia, all’interno della
dirigenza croata prevalsero facilmente la componenti che spingevano
il Paese in braccio alla Germania.
Ad
aggravare la situazione, nei due anni seguenti l’Italia seguì
di fatto nei confronti della Croazia contemporaneamente due politiche
opposte. Il governo di Roma cercò di mantenere una qualche
influenza sullo Stato croato e quindi sostenne il regime del leader
ustascia Ante Pavelic – un ex terrorista già ospitato
dall’Italia – nonostante si trattasse di un regime non
solo autoritario e fascista, ma anche genocida, perché uno dei
suoi pilastri consisteva proprio nella pulizia etnica dei serbi,
condotta con estrema violenza. Le forze armate italiane che
occupavano il territorio croato stabilirono invece un pessimo
rapporto con le autorità del nuovo Stato: e ciò in
parte per ragioni umanitarie, ma soprattutto perché la ferocia
della repressione antiserba comprometteva la gestione dell’ordine
pubblico, in quanto suscitava la ribellione armata dei serbi.
L’Italia
quindi si trovò invischiata nella guerra civile jugoslava che
essa stessa aveva contribuito ad innescare, e da un lato cercò
di approfittarne per estendere l’occupazione alla maggior parte
del territorio croato, ma dall’altro dovette rendersi conto
della propria incapacità di fronteggiare, con le sue sole
forze, la crescente minaccia portata dal movimento partigiano guidato
da Tito. Per tamponare la situazione, italiani si appoggiarono quindi
ad un’altra delle forze in campo, il movimento nazionalista
serbo detto cetnico, che peraltro rispondeva al governo jugoslavo in
esilio a Londra, e quindi si collocava nel campo dei “nemici”
dell’Italia e della Germania: come è facile intuire, ne
seguirono inevitabilmente contrasti a non finire con gli “alleati”
croati e tedeschi.
In
tal modo, l’Italia finì in un ginepraio che non riuscì
più a districare, ma che esprimeva logiche allucinanti di
violenza, in cui le truppe italiane furono pienamente coinvolte. Su
questo nodo assai controverso, per evitare immagini troppo
semplificate potremmo dire così. A seguito dell’attacco
italo-tedesco, la Jugoslavia non era solo stata sconfitta, ma era
implosa, e le sue diverse parti state scagliate violentemente l’una
contro l’altra. Di conseguenza, per i diversi segmenti
conflittuali in cui si era frammentata la società jugoslava,
gli italiani svolsero funzioni diverse: per serbi ed ebrei, di fatto,
almeno in alcuni periodi, fu una funzione di protezione; nei
confronti dei partigiani e delle popolazioni civili che li
sostenevano, fu invece una funzione di repressione condotta ai limiti
estremi.
Anche
le immagini generate da queste funzioni sono molto diverse e
apparentemente poco compatibili fra loro. Nel primo caso, l’immagine
è quella dell’occupatore quasi amico, che è
stata poi indebitamente generalizzata nel mito del “buon
italiano”, dominatore controvoglia, caro alla letteratura e ai
mass media. Nel secondo caso, è invece l’immagine
dell’occupatore spietato, la cui violenza non differisce molto
da quella tedesca, se non perché è più episodica
e meno coerente. Per capir meglio ciò che accadde in quegli
anni, le due immagini non vanno contrapposte, l’una per negare
l’altra, ma piuttosto legate assieme, in modo da esprimere
anche su questo piano la contraddittorietà della presenza
fascista nei Balcani.
Con
l’8 settembre del 1943 la stagione del dominio ebbe termine:
l’Italia si arrese senza condizioni, l’esercito si
sbandò, le istituzioni furono travolte, il territorio
nazionale venne occupato da potenze straniere. Di fatto, l’Italia
sparì come soggetto di storia: sparì dalla scena
internazionale, per ricomparirvi a stento appena dopo il trattato di
pace, e sparì anche dal campo, nel senso che gli italiani,
nell’area alto adriatica continuarono a viverci, ma avevano
perduto uno Stato che li proteggesse. Gli italiani quindi passarono
dal ruolo di dominatori a quello di interlocutori secondari, di
fronte a nuovi protagonisti, che esprimevano progetti forti per tutta
l’area, e che avevano alle loro spalle la forza di uno stato
quasi al culmine della sua potenza – come la Germania – o
in via di formazione – come la nuova Jugoslavia. Vediamo dunque
questi progetti.
Il
progetto tedesco era quello del distacco dall’Italia di tutti i
territori a cavallo delle alpi orientali, per condurli sotto il
diretto controllo tedesco: è questo il senso della
costituzione della Zona di operazioni Litorale Adriatico, dove la
sovranità della Repubblica Sociale di Mussolini venne di fatto
sospesa.
Il
progetto del movimento di liberazione jugoslavo presentava vari
capisaldi. Il primo era naturalmente la liberazione del Paese, ma
quella che gli italiani chiamano Venezia Giulia era considerata parte
integrante del territorio etnico sloveno e croato. Perciò,
subito dopo l’8 settembre gli organismi del potere partigiano
proclamarono l’annessione dei territori giuliani alla Slovenia
e alla Croazia. Per ragioni tattiche, il tracciato del nuovo confine
non venne precisato immediatamente, ed anche nei colloqui con i
rappresentanti della Resistenza italiana non mancarono gli equivoci
su quali dovevano essere considerati “territori misti”.
Appena un anno dopo, nell’autunno del ’44, i leader
comunisti jugoslavi, a cominciare da Tito, ritennero di essersi
ormai tanto rafforzati sul piano internazionale, da poter rendere
esplicita la volontà di annettere l’intera Venezia
Giulia. E’ importante sottolineare che questa capacità
del movimento partigiano jugoslavo di far proprie le tradizionali
rivendicazioni nazionali slovene e croate, non costituì un
aspetto secondario della sua politica, bensì la chiave che gli
consentì di ottenere un larghissimo consenso presso la
popolazione slava della Venezia Giulia: e ciò proprio perché
la politica di snazionalizzazione applicata dal fascismo aveva reso
intollerabile agli slavi l’idea di rimanere sotto la sovranità
italiana. Di quella popolazione slovena e croata, pertanto, il
movimento di liberazione jugoslavo riuscì a cogliere ed
interpretare le esigenze politiche prioritarie.
Secondo
caposaldo del progetto resistenziale jugoslavo era la rivoluzione,
vale a dire la lotta per la costruzione del comunismo. Del tutto
funzionale a questo scopo si rivelò la struttura del Fronte di
liberazione, che comprendeva aderenti di orientamenti politici
diversi, ma la cui guida era tenuta saldamente in mano ai comunisti.
Di conseguenza, in tutta la Jugoslavia il momento della liberazione
coincise con quello della presa del potere comunista, ma per poter
raggiungere un obiettivo del genere, era assolutamente indispensabile
che il fronte di liberazione detenesse il monopolio
dell’antifascismo. Tale esigenza trovava espressione in un
altro dei punti forti del progetto di Tito e dei suoi collaboratori,
e cioè il controllo da parte del fronte guidato di liberazione
di tutte le forze che si opponevano ai tedeschi sul territorio
considerato jugoslavo.
Nelle
aree abitate da italiani ciò creò evidentemente dei
problemi, non tanto in Istria, dove gli antifascisti italiani vennero
subito fagocitati dal movimento di liberazione croato, quanto a
Trieste, a Gorizia e nel Friuli orientale, dove invece si formarono
dei CLN italiani ed anche delle formazioni partigiane che
rispondevano politicamente ai CLN. Qui, e solo qui, pertanto, si creò
un problema di collaborazione fra le due resistenze, che riguardò
quindi solo una fascia di frontiera molto più stretta rispetto
ai territori d’anteguerra: possiamo ben dire quindi, che Zara,
Fiume e l’Istria erano praticamente già perdute nel ’43,
non nel ’45.
Questa
collaborazione fra italiani e slavi all’interno della
Resistenza, fu molto profonda soprattutto in alcune zone, in alcuni
ambienti e per qualche tempo, ma rimase nondimeno sempre difficile,
perché la finalità della cacciata dei tedeschi era
comune, ma gli altri obiettivi e le stesse strutture dei due
movimenti di liberazione erano sostanzialmente diversi. Di
conseguenza, quando il collante della lotta tedesca venne meno, alla
fine della guerra, uno dei due movimenti resistenziali – quello
jugoslavo – cercò di divorare l’altro, per lo
meno nelle parti che risultavano incompatibili con gli interessi del
nuovo Stato jugoslavo.
Infine,
parliamo degli italiani, che però un progetto politico unico
non ce l’avevano, e non avevano nemmeno più uno stato
cui affidarsi. I due mozziconi di Stato rimasti nel Paese – il
regno al Sud e la repubblica di Mussolini al nord – non avevano
alcuna possibilità di influire sul destino dell’area
giuliana: per la verità, ci provarono entrambi, entro i limiti
strettissimi concessi sia dai tedeschi che dagli anglo-americani, e
ci provano sia per via diplomatica che per via militare, ma entrambi
ottennero il medesimo risultato, cioè, ovviamente, nessuno.
Qualche
possibilità maggiore sembrò averla il massimo organo
della Resistenza italiana, cioè il CLNAI, che nell’estate
del 1944 riuscì a portare ad un tavolo negoziale i
rappresentanti del fronte di liberazione sloveno, e anche a strappare
un accordo, che sembrava scongiurare il temuto colpo di mano
jugoslavo su Trieste, perché rinviava al dopoguerra la
definizione dei nuovi confini. Ma fu un accordo assai particolare,
un accordo che – potremmo dire – durò meno di
niente, perché a causa delle difficoltà di
comunicazione, negli stessi giorni in cui venne siglato
clandestinamente a Milano, a Lubiana i massimi organi del partito
comunista sloveno decidevano che non era più tempo di
compromessi, e così il patto, appena firmato, venne subito
stracciato.
Nella
Venezia Giulia, nel frattempo, la popolazione italiana era
completamente disorientata. I tedeschi cercarono di alimentare
spinte separatiste, ma l’abilità di una propaganda che
rispolverava il mito dell’impero asburgico, non riuscì a
nascondere la durezza di un dominio fondato sull’esercizio
della violenza. Di quella stagione di morte l’emblema più
esplicito e rivelatore è la Risiera, ma l’orrore fuori
scala di quel campo non deve far dimenticare le molte altre stragi
commesse dai tedeschi nel Litorale Adriatico.
Per
gli italiani però, prendere la via della Resistenza significa
però correre il rischio di porsi agli ordini del movimento
partigiano jugoslavo, di cui erano note le rivendicazioni e che per
giunta, nel brevissimo intervallo in cui era rimasto padrone del
campo, subito dopo l’8 settembre in buona parte dell’Istria,
aveva lasciato un ricordo di terrore, perché almeno 500
italiani erano stati eliminati in poche settimane nelle stragi che
presero il nome di “foibe istriane”. Fra gli italiani non
comunisti quindi, la scelta resistenziale rimase patrimonio di
minoranze di antifascisti, che si assunsero il duplice compito di
battersi contro i tedeschi e di lottare per il mantenimento della
sovranità italiana sulla regione di frontiera.
Diversa
era la situazione della classe operaia giuliana, concentrata
soprattutto a Trieste e Monfalcone, che aveva alle spalle tradizioni
politiche fortemente internazionaliste maturate in epoca asburgica,
che dell’Italia aveva conosciuto solo il fascismo, che era
largamente orientata al comunismo ed era pronta fin dai giorni
immediatamente successivi all’8 settembre, ad una stretta
collaborazione con il movimento di liberazione sloveno, testimoniata,
subito dopo l’8 settembre, dalla partecipazione alla “battaglia
di Gorizia” contro i tedeschi. La dirigenza comunista di
Trieste voleva comunque rimanere nell’ambito della Resistenza
italiana: aderì quindi al CLN e tenne rapporti talvolta un po’
vivaci con i dirigenti sloveni. Nell’autunno del 1944 però,
venne completamente distrutta dai nazifascisti e fu sostituita da una
nuova dirigenza, di fatto controllata dal partito sloveno, che nel
frattempo era riuscito a far accettare la politica dell’annessione
alla Jugoslavia, anche al rappresentante inviato dal PCI presso il
comando partigiano sloveno. Questa novità politica viene di
solito chiamata la “svolta d’autunno” dei comunisti
italiani, che in tutta l’area di frontiera scelsero come
propria nuova patria la Jugoslavia socialista al posto dell’Italia,
che sicuramente socialista non sarebbe diventata.
Le
ricadute politiche della svolta d’autunno furono devastanti:
nel Friuli orientale la principale formazione garibaldina (cioè
di orientamento comunista) attraversò l’Isonzo e si pose
agli ordini del IX corpo d’armata partigiano sloveno. Di
conseguenza, in tutta la zona andarono in crisi i rapporti tra i
garibaldini e le formazioni Osoppo, di orientamento democristIano ed
azionista, che erano invece contrarie alle rivendicazioni jugoslave.
Le diffidenze esplosero, si moltiplicano le accuse reciproche di
tradimento, e in quel clima infuocato si giunse anche alla tragedia
quando, nel febbraio del ‘45 un gruppo di fuoco garibaldino
eliminò il comando di una brigata Osoppo, alle malghe di
Porzus. Poteva essere la rottura fra le diverse anime delle
Resistenza italiana, perché si trattò di un episodio
conclamato di guerra civile, ma tra le forze politiche prevalse il
senso di responsabilità e in Friuli la crisi viene superata.
Non così accadde invece a Trieste, dove i comunisti uscirono
dal CLN, che venne a trovarsi in una situazione di assoluto
isolamento, mentre le formazioni garibaldine che operavano nei pressi
della città vennero spostate nell’interno della
Slovenia.
A
livello nazionale infine, le rivendicazioni jugoslave posero in grave
difficoltà la leadership comunista italiana, ed in particolare
il segretario del Partito comunista, Togliatti.
Togliatti
infatti non aveva forza politica sufficiente per opporsi alle
richieste jugoslave, per almeno due ragioni. La prima, che
all’interno dello schieramento comunista internazionale, il
partito jugoslavo, che si stava trasformando in un nuovo stato
rivoluzionario, pesava molto di più del partito italiano, che
era solo una delle componenti del CLN ed operava in una realtà
controllata dagli anglo-americani. La seconda, che le richieste di
Tito erano appoggiate dall’Unione Sovietica, e dire di no a
Stalin non era facile. Ma Togliatti non poteva nemmeno accoglierle,
quelle rivendicazioni territoriali su tutta la Venezia Giulia, ed in
particolare sulla città/simbolo di Trieste, perché ciò
avrebbe compromesso la credibilità del PCI come partito di
governo, difensore degli interessi nazionali. Tutto ciò che
Togliatti potè fare quindi, fu è scegliere una linea di
grande ambiguità, che appoggiava l’occupazione jugoslava
di tutta l’area di frontiera, ma non faceva parola
dell’annessione, attendendo che la situazione si chiarisse.
Gli
ultimi mesi di guerra videro dunque la popolazione dell’area di
frontiera profondamente divisa, secondo linee che non erano le stesse
del resto d’Italia, proprio perché qui storia italiana e
storia jugoslava si intrecciavano l’un l’altra: le
fratture non erano perciò soltanto quelle tra fascisti e
antifascisti, tra resistenti e tedeschi, e nemmeno soltanto fra
italiani e slavi, ma anche tra quanti (italiani e sloveni), per
diversi motivi desideravano l’annessione ala Jugoslavia e
quanti invece, anche tra gli antifascisti, si battevano per il
mantenimento della sovranità italiana. Possiamo dunque dire
che i diversi segmenti della società giuliana attendevano
ciascuno i suoi liberatori, ma i rispettivi progetti di liberazione
si rivelarono incompatibili, e definirono pertanto nuovi avversari.
La
fase finale del conflitto ci appare chiaramente segnata dalla corsa
alla frontiera, che alcuni hanno chiamato “a corsa per
Trieste”, ma dobbiamo subito dire che si trattò di una
competizione assai particolare. Gli italiani, ad esempio, non vi
parteciparono, non perché non lo desiderassero, ma perché
non ne avevano la possibilità. Quanto agli anglo-americani,
avevano altre priorità, e solo all’ultimo momento si
decisero ad uno scatto verso Trieste, perché ritenevano che il
possesso del suo porto rivestisse un’importanza strategica per
la prosecuzione della campagna verso l’Austria. A correre
veramente furono così solo gli jugoslavi, che volevano
fissare sul terreno nell’unico modo veramente efficace in tempo
di guerra, e cioè con le proprie armate, i confini del nuovo
stato. Possiamo dire al riguardo, che il recupero delle
rivendicazioni nazionali slovene e croate – divenuto patrimonio
condiviso della nuova Jugoslavia comunista – si saldava qui
alla rivincita contro l’aggressore italiano, che la guerra
l’aveva voluta, l’aveva usata per fare a pezzi il regno
jugoslavo, e poi l’aveva perduta.
Non
c’è da stupirsi quindi, che a vincere la corsa siano
stati gli jugoslavi, che arrivarono per primi sull’Isonzo e
occuparono tutta la Venezia Giulia; all’ultimo istante però,
a Trieste e Gorizia giunsero anche gli alleati che, secondo
l’espressione di Churchill, riuscirono “ad infilare un
piede nella porta”. Quella che ne seguì fu una
“sovrapposizione non concordata di zone di occupazione”,
cioè una crisi internazionale che si concluse solo ai primi di
giugno con il ritiro jugoslavo da Trieste e Gorizia e la divisione
della Venezia Giulia in due zone di occupazione, alleata e jugoslava,
in attesa delle decisioni della conferenza della pace.
La
guerra alla frontiera orientale finì quindi in maniera assai
diversa da com’era cominciata, e non solo per la sconfitta
militare. Nella primavera del ’41 l’Italia aveva cercato
di proiettare verso i Balcani sé stessa, la propria storia in
cui il processo di unificazione nazionale, già compiuto dopo
la grande guerra, si era trasformato in nazionalismo oppressivo e
velleità di dominio imperiale. Nella primavera del ’45,
oltre le Alpi Giulie non irruppero solo le truppe di Tito, ma le
logiche della storia jugoslava: vale a dire quelle di un Paese
distrutto che aveva ritrovato sé stesso nella lotta contro
tedeschi e italiani, per opera di un movimento partigiano che oltre
alla guerra di liberazione aveva combattuto una guerra civile senza
pietà, e che ovunque in Jugoslavia, nel momento della presa
del potere, eliminava sistematicamente non solo i nemici di ieri, ma
anche quanti – nel presente e nel futuro – avrebbero
potuto mettere in discussione i suoi obiettivi. Questa ondata di
violenza politica, che era essenziale al fine della costruzione e del
consolidamento del nuovo regime, coprì anche la Venezia
Giulia, proprio perché questa non era considerata terra
straniera, ma parte integrante della nuova Jugoslavia. Qui
naturalmente le vittime furono soprattutto italiane, perché
gli italiani, oltre a pagare per le colpe del fascismo, ed oltre a
scontare il peso degli antagonismi nazionali lunghi di molti decenni,
erano nella loro maggioranza contrari all’annessione alla
Jugoslavia: un atteggiamento questo considerato intollerabile dai
nuovi poteri e punito quindi con grande durezza. Fra i perseguitati
vi furono perciò anche combattenti delle formazioni partigiane
non comuniste e degli stessi CLN di Gorizia e Trieste.
Quest’ultimo,
alla fine di aprile si era trovato in una situazione terribile: più
volte decimato dai nazifascisti – uso questo termine un po’
fuori moda perché è l’unico corretto per
descrivere la situazione, che vedeva le forze di polizia italiane,
tra le quali il famigerato Ispettorato speciale di pubblica
sicurezza, farsi zelanti collaboratori dei nazisti nella repressione
dei patrioti – il CLN vedeva ormai vacillare il potere tedesco,
e subiva le pressioni dei collaborazionisti che chiedevano l’appoggio
del CLN ad un fronte antislavo, che dal punto di vista militare non
avrebbe ottenuto nulla mentre da quello politico avrebbe schierato
tutto l’antifascismo non comunista dalla parte dei nazisti.
Specularmente, le organizzazioni comuniste italo-slovene cercavano
invece di coinvolgere in maniera subordinata il CLN nei progetti di
governo della città dopo la liberazione, in modo da
“catturarlo” politicamente e scongiurare le prevedibili
critiche anglo-americane alla scarsa rappresentatività dei
“poteri popolari” filo jugoslavi, fatti di soli
comunisti. Di fronte a tali tentativi di annullarne l’identità
politica, la scelta del CLN fu quella di lanciare autonomamente
l’insurrezione contro i tedeschi, per mostrare a tutti –
alleati e jugoslavi – che gli antifascisti italiani esistevano,
si battevano, e non volevano tutti la Jugoslavia.
Nell’immediato,
l’operazione non ebbe successo, perché gli jugoslavi
arrivarono quando ancora si combatteva, disarmarono i partigiani
italiani e cominciarono ad arrestarli: il CLN dovette tornare in
clandestinità e gli alleati restarono a guardare. In
prospettiva politica invece, gli uomini del CLN avevano visto giusto,
perché avevano capito che, dopo la tempesta fascista, l’unico
modo per rilegittimare la presenza italiana nelle terre di frontiera,
passava attraverso la lotta aperta contro il nazifascismo e, nello
stesso tempo, attraverso il rifiuto altrettanto aperto
dell’annessionismo jugoslavo.
È
da quella decisione quasi disperata di insorgere, che si sarebbe
avviata negli anni successivi la ricostruzione della democrazia in
quel che restò della Venezia Giulia nel dopoguerra. E’
su quella decisione di insorgere che si sarebbe innestata pure la
lunga battaglia politica per il ritorno di Trieste all’Italia,
battaglia che venne guidata dagli stessi uomini che avevano lanciato
l’insurrezione contro i nazisti. Quella decisione sofferta e
controversa è stata per decenni oggetto di polemiche politiche
e storiografiche anche assai forti: oggi, dopo sessant’anni,
sono lieto che quasi tutti oramai riconoscano che, per l’Italia
democratica, quella del CLN è stata la scelta giusta.
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