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L’invasione della Sicilia e la crisi del vecchio regime
Rosario Mangiameli
1. La patria muore in Sicilia
Osservato
dalla Sicilia il processo che attraverso una terribile esperienza
bellica portò alla fine della dittatura e alla nascita della
democrazia in Italia rivela aspetti importanti, utili a completare la
visione di un quadro nazionale troppo frammentato. Infatti, la
separazione del paese in due parti dopo l’occupazione alleata e
l’otto settembre ‘43 ha certamente contribuito a rendere
difficoltosa la lettura unitaria della più spaventosa crisi
della nostra storia nazionale ed ha impedito di coglierne i tratti
comuni. Per di più l’occupazione anglo – americana
mise la Sicilia nella condizione di beneficiare di un precoce
dopoguerra mentre ancora il resto del paese pativa i disagi di una
guerra ferocemente combattuta. E questo è stato un ulteriore
elemento che ha contribuito a far percepire la sua vicenda come
marginale rispetto al contesto nazionale.
Al
contrario la nostra ipotesi di lettura, pur non trascurando le
peculiarità, com’è tipico di ogni opera
storiografica, mira a recuperare i tratti comuni dell’arduo e
drammatico passaggio nel quale fu impegnato il popolo italiano nel
periodo che va dal 1940 al 1945. Un momento risolutivo di questa
vicenda vide il territorio e la società siciliane balzare in
primo piano. Fu appunto il momento dell’occupazione cui si
accompagnò la manifestazione definitiva della crisi del
regime, quella del 25 luglio, effetto diretto dell’avvenuta
invasione del territorio nazionale, ma ancor più della
acquisita consapevolezza, in Sicilia e nel resto d’Italia,
delle enormi e inutili rovine e lutti che la guerra aveva provocato e
stava provocando, della pericolosità e inaffidabilità
dell’alleato tedesco.
La
crisi del regime fu anche crisi di classi dirigenti tradizionali, e
della monarchia innanzi tutto, fu crisi degli apparati burocratici e
militari, che insieme al regime furono travolti e non solo per la
connivenza ventennale, ma soprattutto per l’incapacità a
guidare il paese fuori della guerra e dall’alleanza con i
tedeschi. In Sicilia questa perdita di leadership contribuì a
fare orientare le classi dirigenti regionali in senso separatistico
nella speranza, rivelatasi ben presto vana, di trovare un modo per
far dimenticare agli alleati e alla stessa popolazione i legami
ventennali con il fascismo, nell’altrettanto vana speranza di
poter congelare equilibri sociali ed economici grazie alla protezione
delle armi alleate.
Questa immagine riempie la scena,
sicché si profilano due Italie nella lunga fase bellica che
segue il 25 luglio e l’otto settembre: quella di un Centro –
Nord, resistente e progressista, con un progetto per il futuro valido
per tutto il paese, e quella di un Sud afascista e reazionario di cui
la Sicilia rappresenta l’aspetto maggiormente caratterizzato
per via della tendenza disgregatrice del separatismo. L’aver
posto l’accento su questa dicotomia ha avuto l’effetto di
rendere marginale la vicenda siciliana, e non solo per quanto
riguarda gli specifici esiti regionalisti che conosciamo, ma anche
per quel che riguarda la battaglia che in Sicilia si combatté
nel luglio agosto 1943, che fu invece un momento centrale per i
destini del paese.
2. Una prospettiva rovesciata e
qualche reticenza
Un segno interessante di questa
scarsa attenzione è dato dal fatto che le opere più
note e citate che riguardano la campagna di Sicilia nei suoi aspetti
militari non sono scritte da italiani, ma si devono a storici e
memorialisti inglesi e americani, che hanno prodotto libri di buon
livello divulgativo, come i “classici” H. Pond, Sicilia!
(Milano, 1964) e G. A. Shepperd, La campagna d’Italia, 1943
1945 (Milano, 1975) a cui negli anni novanta si è aggiunto
il voluminoso racconto di Carlo D’Este, 1943. Lo sbarco in
Sicilia (Milano, 1990). Il punto di vista è prettamente
anglo- americano: in modo ripetitivo in questi libri si critica
l’eccessivo trionfalismo con cui la campagna di Sicilia fu
descritta all’opinione pubblica statunitense e britannica, e si
sottolineano le difficoltà cui andarono incontro gli eserciti
alleati per poter conseguire la vittoria (il titolo americano del
libro di D’Este è Bitter Vicotry). Si tratta,
dunque, di una di quelle polemiche originariamente alimentate dagli
stessi protagonisti e che poi vengono continuamente reiterate, poiché
contribuiscono a rendere intrigante il racconto agli occhi del grande
pubblico dei lettori. Questa letteratura ha seguito un percorso
parallelo alla pubblicazione delle opere ufficiali, e delle memorie
dei comandanti militari e dei responsabili politici alleati.
Una ragione del suo successo consiste sicuramente nel fatto che la
narrazione somiglia molto a quella dei film di guerra americani anni
cinquanta - sessanta, un genere che ha a lungo dominato i mercati nei
decenni scorsi.
Credo che la fascinazione del linguaggio cinematografico abbia avuto
un effetto paradossale sulle opere di alcuni giornalisti italiani che
ultimamente hanno ripreso l’argomento della guerra in Sicilia
riproponendo temi, aneddoti e punti di vista propri della letteratura
in questione, lasciando invece su uno sfondo sbiadito la società
siciliana. Questo curioso fenomeno ha subito semmai una accentuazione
con l’immissione dal 1995 circa sul mercato dei cosiddetti
Combat film, ovvero quelle video cassette che raccolgono in
modo più o meno disordinato l’enorme materiale filmico
realizzato dagli anglo – americani sulla guerra e anche sul
fronte siciliano.
Il precisarsi dello schema narrativo
militare ha provocato, quindi, una netta separazione rispetto alla
narrazione degli aspetti politici e sociali, di carattere più
localistico, più incentrata sulle vicende del quadro
regionale, talvolta esasperatamente decontestualizzato rispetto alla
storia nazionale.
E’ curiosa questa separazione
per generi: il militare, il politico; ma trova la sua spiegazione in
molte circostanze, come per es nell’aver voluto sottolineare la
rottura seguita all’otto settembre, che in molta parte del Sud
significava fine della guerra e inizio della politica. Per altri
aspetti la separazione si è sempre più accentuata e
codificata man mano che, dagli anni sessanta in poi, la storiografia
sulla Resistenza acquistava una maggiore importanza. Gli aspetti
militari e politici della lotta che si svolse al Nord nel 1943 –
’45 sembravano meglio prestarsi a una sintesi che riguardava la
costruzione della nuova convivenza democratica e repubblicana; il
racconto della guerra al Sud invece appariva senza sbocchi, come
raccontare la guerra per la guerra, il che poteva scontrarsi con un
tabù che racchiudeva nazionalismi e bellicismi da poco rimossi
dall’orizzonte politico culturale italiano. Il racconto della
guerra apparteneva a un genere minore, da lasciare a certa
cinematografia o a certa letteratura tra l’intrattenimento e lo
scandalistico.
Toni scandalistici aveva finito
infatti per assumere il dibattito avviatosi fin dal 1943 sulla
sconfitta in Sicilia, ovvero sulla sconfitta tout court dell’Italia
nella seconda guerra mondiale, l’interesse dell’opinione
pubblica per il processo Trizzino svoltosi all’inizio degli
anni cinquanta, di cui tra poco parlerò, aveva anche questo
risvolto. La stampa democratica presentò proprio sotto questa
veste quello che peraltro sembrava un macabro balletto tra generali e
ammiragli sconfitti, con la non secondaria partecipazione di qualche
gerarca. Riletto oggi questo dibattito si presenta invece non privo
di interesse nella prospettiva di recuperare una visione unitaria
della crisi del 1943.
3.Tradimenti
Possiamo distinguere due fasi della
produzione italiana sulla guerra in Sicilia, ambedue legate a un
dibattito politico e a una produzione di stampa periodica illustrata
e filmica tale da allargarne la fruizione al di fuori dei cerchi di
lettori colti facendone quasi letture di carattere popolare, fondate
sulle recriminazioni di neofascisti, generali e ammiragli per la
guerra perduta. L’incipit della prima fase è da
collocare nel bel mezzo della battaglia per la Sicilia e si protrae
fin verso la fine degli anni quaranta; la seconda fase è
invece caratterizzata dal processo per diffamazione che la Marina
Militare intentò contro Antonio Trizzino per il contenuto di
alcuni suoi scritti e in particolare del libro Navi e poltrone
(Milano, 1953).
L’avvio del dibattito è
dato dagli articoli che Roberto Farinacci pubblicò a partire
dal 15 luglio 1943 su “Regime fascista”. Era un attacco
ai comandi militari in Sicilia ritenuti incompetenti e sospettati di
tradimento dopo le prime sconfitte, e in particolare dopo il crollo
(10 – 12 luglio) della Piazza Militare Marittima di Augusta –
Siracusa. La base, dipinta come munitissima, fu effettivamente
abbandonata dai suoi difensori senza opporre alcuna resistenza e
addirittura prima che le truppe britanniche sbarcate il 10 luglio tra
Pachino e Avola, fossero in vista. La polemica così avviata
ebbe effetti importanti sia nell’immediato, sia nel futuro
dibattito politico. Servì di rincalzo alle accuse che i
comandi tedeschi non del tutto esenti da responsabilità
nell’abbandono della base rivolsero ai comandi italiani. Le
truppe tedesche erano state le prime ad abbandonare il porto di
Augusta dando alle fiamme i depositi di carburante e altri impianti.
Quelle colonne di fumo che si levavano alte erano state interpretate
come il segnale del “si salvi chi può”, d’altronde
assecondato dalla inefficienza dei comandi italiani. Ma mentre le
truppe tedesche si erano riorganizzate poco più a Nord, sulla
Piana di Catania grazie anche all’arrivo di rinforzi
paracadutati sulla linea del fronte, le formazioni italiane si erano
disgregate o si stavano disgregando anche a causa della confusione e
del panico creato dalla precipitosa e disordinata fuga di migliaia di
marinai dalla base di Augusta - Siracusa.
L’attacco dei tedeschi e di Farinacci alla condotta dei comandi
italiani e l’accusa di incapacità, o peggio, di
tradimento, servì a giustificare la tendenza a porre sotto
controllo le unità italiane integrandole con quelle tedesche,
una operazione che fu avviata in Sicilia nel corso della battaglia,
ma che fu riprodotta su scala nazionale e tra le forze italiane
impegnate fuori dai confini nazionali. La minore autonomia in cui i
comandi italiani si trovarono fu decisiva nel paralizzare le nostre
Forze armate nei giorni successivi all’otto settembre.
Un più durevole effetto delle
tesi di Farinacci si misura dalla loro persistenza tra le
argomentazioni addotte dal fascismo repubblicano contro la monarchia,
riprese da Mussolini nel suo Storia di un anno (1944). Nel
dopoguerra la ricerca del complotto atto a spiegare la sconfitta
sarebbe stata un argomento forte della ricostruzione di una identità
neofascista. Tra le opere più importanti di questo periodo
vanno segnalate l’opera dello storico Attilio Tamaro, Due
anni di storia, 1943 – 1945, le memorie dell’ambasciatore
della RSI a Berlino, il catanese Filippo Anfuso, Roma, Berlino,
Salò,
le memorie del gerarca palermitano Alfredo Cucco, Non volevamo
perdere, opere apparse nel 1950.
Le accuse erano rivolte
principalmente ai militari, che avevano divulgato la loro versione
con il generale Zanussi, autore tra il 1945 e il 1946 di uno dei
primi libri di quella che sarebbe diventata una ricca produzione di
memorie e di studi, Guerra e catastrofe dell’Italia. Nel
1946 il generale Francesco Rossi, sottocapo di stato maggiore
generale, dette alle stampe Come arrivammo all’armistizio;
lo stesso anno vide la luce Otto milioni di baionette,
del generale Roatta, che era stato il discusso comandante delle Forze
armate in Sicilia fino alla vigilia dello sbarco, nonché
accusato di crimini di guerra e sottoposto a giudizio per la sua
condotta successiva all’otto settembre. Un punto di
forte contrapposizione alla teoria del complotto era dato dalla
pubblicazione nel 1947 di Luglio 1943 in Sicilia, il suo
autore era Dante Ugo Leonardi, comandante del 34° reggimento
fanteria delle divisione Livorno. Sulla piana di Gela la Livorno
aveva sostenuto un durissimo e onorevole scontro con le truppe
americane perdendo oltre 7.000 dei suoi 11.000 effettivi.
Il mito attribuiva alla strenua e sfortunata difesa effettuata da
questa divisione l’aver messo in crisi le truppe americane
sbarcate tra Licata e Gela fino al punto di far considerare al loro
comandante generale Patton l’eventualità di un
reimbarco.
4. Processi
Il tema dell’eroismo e il tema
del complotto avrebbero avuto una diversa valenza alla ripresa del
dibattito, in quella che per comodità indico come una seconda
fase. In questa fase i comandi militari avrebbero avuto una parte più
importante e una maggiore visibilità. Nel 1953 la
ricostruzione di alcune vicende belliche offerta dal libro di Antonio
Trizzino, Navi e poltrone,
fu recepita come un atto di accusa di stampo neofascista, rivolto
principalmente al comportamento della Marina italiana. Trizzino era
un ex ufficiale d’aviazione non nuovo alle polemiche sulla
conduzione della guerra; le aveva in un primo momento coniugate con
l’aspra polemica sicilianista, come è ben esemplificato
dalla pubblicazione di due pamphlet nel 1945, Che vuole la
Sicilia? e meglio ancora Vento del Sud recante la
prefazione del leader separatista siciliano Andrea Finocchiaro
Aprile. Gli argomenti sicilianisti usati in questo testo mostrano
come questa pubblicistica avesse un bacino d’ascolto in
un’ampia fascia di opinione di destra siciliana che tuttavia,
spentasi la protesta separatista, modificava il suo linguaggio in
cerca di un altro ambito.
La caduta di Pantelleria, la
battaglia per la Sicilia, la fine della Piazza Militare Marittima di
Augusta – Siracusa divennero allora, secondo il punto di vista
sostenuto in Navi e poltrone, simboli forti del tradimento
consumato dai militari contro il regime e la patria. Seguì un
processo per diffamazione intentato contro l’autore del libro,
e tuttavia conclusosi in secondo grado il 3 febbraio del 1955 davanti
alla Corte d’appello di Milano con l’assoluzione
dell’imputato. Questo risultato non portò a una messa
sotto accusa del comportamento della Marina e delle Forze armate,
quanto piuttosto a un avvio di dialogo tra i neofascisti e gli
epigoni dell’establishment militare - monarchico, ancora
largamente presenti nelle istituzioni. Il contesto era di maggiore
attenzione rivolta a destra, a causa della crisi della formula di
governo centrista. Alcuni segnali significativi direttamente
collegati con la vicenda di cui stiamo trattando furono l’arresto
e il processo davanti a un tribunale militare dei critici
cinematografici Guido Aristarco e Renzo Renzi per una “irriverente”
sceneggiatura sul comportamento dei militari italiani durante
l’occupazione della Grecia nella seconda guerra mondiale; nello
stesso 1953 fu arrestato Giovanni Guareschi per aver pubblicato
alcune false lettere in cui De Gasperi avrebbe chiesto agli Alleati
di bombardare l’Italia. Erano questi gesti provocatori compiuti
dal potere militare e da un popolare scrittore notoriamente orientato
a destra, che voleva rappresentare un’Italia a suo modo
“ragionevole”, “dignitosa”, e non
faziosamente partitica. Ciò che si voleva sottolineare era la
necessità di un congelamento dell’antifascismo (e della
Costituzione) come ideologia della rinnovata identità
nazionale, ovvero l’impossibilità per i partiti che
stavano al potere di condividere una base comune con una opposizione
che faceva della Resistenza e dell’antifascismo i suoi punti di
forza. Il conflitto non era solo ideologico, né si risolveva
solo nell’ambito della politica interna al paese: seguiva le
linee di un accentuato bipolarismo sul piano internazionale. Per
parte dell’area moderata interna alla Democrazia Cristiana, il
recupero di un rapporto stabile con le vecchie classi dirigenti
appariva un aspetto importante volto a ricostruire un equilibrio
nuovo. Fu un segnale forte in questa direzione l’incontro tra
Giulio Andreotti e il maresciallo Rodolfo Graziani.
Nel corso del processo a Trizzino e
negli anni immediatamente successivi (dal 1954 al 1959) il dibattito
pubblico sulla campagna di Sicilia conobbe un nuovo slancio, furono
questa volta principalmente i militari a far conoscere il loro punto
di vista e a elaborare una linea difensiva. Per l’esercito
intervennero lo stesso comandante della VI Armata Alfredo Guzzoni e
il suo capo di stato maggiore Emilio Faldella, per l’Aviazione
intervenne il generale G. Santoro, per la Marina gli ammiragli M
Bragadin e Angelo Iachino.
Al di là dei pur presenti aspetti di difesa corporativa che
questa rappresentanza delle varie armi comportava, il tono del
discorso fu segnato da Guzzoni il quale rintuzzò le accuse
sostenendo che la sfortunata battaglia, destinata ad essere perduta
in partenza, era stata combattuta con dignità ed eroismo. La
sua fu una mossa abile poiché riuscì a contenere il
discorso nell’ambito dell’opinione moderata e anzi
ottenne qualche apertura nel fronte neofascista. Il suo articolo
scritto sotto forma di lettera aperta al Ministro della Difesa
Taviani, democristiano e resistente, fu pubblicato dal settimanale
«Il Borghese», di area missina, con il titolo
provocatorio Il ministro non risponde. Il problema sollevato
era quello relativo al medagliere della battaglia di Sicilia, a
giudizio di Guzzoni penalizzato da un ingiusto provvedimento preso da
Randolfo Pacciardi come Ministro della Difesa del quinto governo De
Gasperi (1948). Pacciardi aveva infatti disposto che le onorificenze
proposte per la campagna di Sicilia fossero vagliate con maggiore
severità delle altre.
5. L’elaborazione di un paradigma
eroico
Lo spostamento di fronte polemico verso le
sinistre tentato da Guzzoni avrebbe dato in seguito i suoi frutti.
Una delle migliori ricostruzioni apparse in questo periodo, il libro
di Faldella, Lo sbarco e la difesa della Sicilia, che seguì
un anno e mezzo dopo l’intervento di Guzzoni, conteneva ancora
un’aspra polemica nei confronti dei gerarchi fascisti e
sottolineava il comportamento poco onorevole dei reparti della
milizia di fronte al nemico. Tuttavia Faldella riproponeva la linea
di una costruzione del quadro eroico, in questo caso rivolgendosi
polemicamente verso la cultura politica repubblicana che aveva
penalizzato il sacrificio di molti soldati e così facendo
aveva tagliato i ponti con una continuità nella quale i gruppi
dirigenti delle Forze armate si riconoscevano. La frase destinata a
diventare epigrafe da porre a suggello del sacrificio fu dettata dal
generale Ottavio Zoppi nella sua prefazione al libro di Faldella:
“La battaglia per la Sicilia,
malgrado la più ferma volontà e la capacità dei
comandanti e l’eroismo dei soldati, era perduta in partenza per
l’incolmabile nostra inferiorità di mezzi. Non poteva
essere che la battaglia del dovere e dell’onore. E tale fu”.
Continuava il generale Zoppi ricordando agli
italiani “che la resistenza in Sicilia durò 38 giorni,
mentre nel 1939 la Polonia fu conquistata in 29 giorni e l’esercito
francese, intatto, crollò in 40 giorni”. Il testo di
Faldella non mancava dal canto suo di tracciare un quadro desolante
delle condizioni delle truppe che lui comandava, delle gravi
deficienze delle difese della Sicilia, delle condizioni disperate in
cui versava la popolazione affamata e terrorizzata dai bombardamenti,
della inettitudine dei gerarchi fascisti; il tutto metteva ancor più
in risalto lo sfortunato eroismo dei militari che, solo, aveva
supplito al vuoto lasciato dalla mancanza di ogni strategia e di ogni
prospettiva al momento dello sbarco alleato.
Notava Faldella:
“Era naturalmente assurdo
pretendere che ufficiali non preparati ad esercitare il comando,
dessero prova di iniziativa e di capacità in situazioni
particolarmente difficili e mutevoli. Potevano tutt’al più
dimostrare di saper morire, e molti infatti caddero da valorosi”.
La memoria della battaglia per la Sicilia così
continuava a evocare il momento cruciale della difesa della patria,
intrappolata però in mille contraddizioni che rendevano
difficile a ognuno dei protagonisti l’assunzione di un ruolo
chiaro davanti alla catastrofe. I militari, per quanto potessero
rintuzzare la polemica puntando sulla conduzione politica della
guerra e in particolare sulla disastrosa condizione in cui il regime
aveva lasciato la popolazione e le Forze armate in Sicilia, si
trovavano a condividere alcune di queste responsabilità come
esponenti della classe dirigente. Il tema dell’eroismo
sottolineava questo punto di vista e questa condizione, come una
necessaria prova di espiazione offerta nel momento della resa dei
conti. Su questa via si accentuavano però le polemiche di tipo
corporativo che contrapponevano eroismo, dedizione, competenza delle
varie armi. Un esempio di questa variante polemica fu dato dalle
accuse mosse all’Esercito dall’ammiraglio Bragadin per
non aver protetto da terra la base di Augusta – Siracusa,
lasciando così scoperte le spalle ai marinai che avevano il
compito di difendere il fronte a mare. Per questo i difensori
sarebbero fuggiti. Faldella dal canto suo non risparmiava critiche
all’Aviazione, poco presente nella battaglia, nonostante
l’ottimismo mostrato dai suoi comandanti nella fase
precedente.
L’assenza della Marina dalle acque siciliane
durante lo sbarco fu un altro dei temi scottanti, che perfino metteva
in crisi il paradigma eroico. Lo avrebbe discusso l’ammiraglio
Iachino, nel suo Il tramonto di una grande Marina, dedicato ai
compagni di “una guerra più assurda che sfortunata”.
Ammetteva la giustezza della scelta di avere usato le navi come
“moneta di scambio” al momento dell’armistizio.
Tuttavia concludeva con una nota sentimentale che lo portava a
tessere l’elogio del sacrificio e a rimpiangere la mancata
battaglia sul Canale di Sicilia. Iachino in realtà toccava
tutti i tasti sensibili per condurre il suo tentativo di
“pacificazione” sul terreno nient’affatto
sentimentale e nostalgico di un’ottica giocata sugli
schieramenti della guerra fredda, sul superamento dei particolarismi
nazionali che quest’ottica richiedeva. Il “tramonto”
della Marina italiana iniziato in quell’estate del 1943, per
l’ammiraglio altro non era stato che l’annuncio (si
sarebbe detto indolore) del tramonto delle “marine nazionali”,
la fine di un’epoca: “Era tramontata nel mondo tutta
un’era navale, l’era delle grandi navi e delle Marine
autonome. Sorgeva invece l’era dei missili, dei sommergibili
atomici e delle marine cosiddette integrate nella nuova associazione
atlantica in omaggio all’ideale di solidarietà
europea al quale tutte le nazioni aderenti hanno sacrificato la
loro indipendente sovranità e l’autonomia delle loro
forze armate”.
6. Ricostruire la patria a destra?
L’ultimo dei libri importanti in questo
dibattito fu quello di Gaetano Zingali, L’invasione della
Sicilia, pubblicato nel 1962. La data già segna una svolta
importante, avvertita di più in Sicilia che altrove per via
della crisi che aveva colpito la politica regionale negli anni dal
1958 – ’59, con la scissione democristiana, la tentata
creazione di un secondo partito cattolico e la formazione di un
governo regionale composto da partiti di destra e di sinistra alleati
tra di loro. La vicenda si era risolta con una anticipazione di
quella che sarebbe stata da lì a poco la formula di centro -
sinistra applicata su scala nazionale.
Davanti a questa congiuntura il tentativo di Zingali era volto a
ricucire le sparse schiere della destra, in Sicilia come al Sud,
numericamente rilevanti, ma divise tra di loro da insanabili
contrasti e senza una strategia comune. Per far ciò l’anziano
professore dell’Università di Catania, proprietario di
una azienda agrumicola, aveva buone carte di credito. Era stato
segretario della federazione fascista di Catania negli anni venti,
messo da parte dalla gestione staraciana del partito; durante la
guerra era stato richiamato a ricoprire la carica di vice presidente
del Consiglio provinciale delle corporazioni, carica dalla quale si
dimise dopo aver constatato, secondo la sua stessa ricostruzione, la
inadeguatezza e la contraddittorietà delle misure adottate dal
regime per far fronte alla drammatica situazione in cui versava la
popolazione ridotta alla fame. Quello di Zingali era stato un
osservatorio privilegiato della crisi del rapporto tra classi
dirigenti regionali e fascismo, e tuttavia questa crisi non aveva
trovato altro sbocco che la protesta separatista, le lamentele
sicilianiste, che segnano anche l’argomentazione del nostro
testimone. La dialettalità del sicilianismo, si era rivelata
ben presto labile terreno su cui tentare l’unificazione delle
vecchie classi dirigenti perfino su scala regionale. Da qui il
recupero del tema patriottico rappresentato attorno alla battaglia
decisiva che aveva decretato la svolta della guerra, la fine del
vecchio mondo monarchico e fascista insieme. Da politico qual era,
Zingali allargava la sua trattazione agli aspetti sociali ed
economici, tentando anche di dare una rappresentazione della
contraddizione tra Forze armate e regime. Tra le due entità
contrapposte, “Governo -. Partito” ed “Esercito –
popolazione siciliana”;
(l’una effettiva responsabile della sconfitta, l’altra
ingiustamente accusata dai tedeschi, dai gerarchi e dai loro epigoni)
il popolo siciliano a suo dire si sarebbe riconosciuto nell’Esercito.
Zingali fondava tali deduzioni sulla composizione delle divisioni
dislocate sull’isola, al 70 per cento siciliana; anche se
bisogna dire che le formazioni della Milizia non erano da meno, ed
anzi raccoglievano una percentuale di popolazione locale sicuramente
maggiore.
In realtà la preponderanza di elementi
locali era stata fatale sia nella capacità di tenuta
dell’Esercito, sia nella vicenda della caduta delle base di
Augusta - Siracusa affidata in gran parte a truppe della Milizia che
si sciolsero al primo annuncio dell’attacco nemico. Che la
presenza di siciliani fosse un punto debole era d’altronde ben
presente ai comandi. Nel tracciare il suo quadro a forti tinte
negative Faldella non taceva questo aspetto: “Era evidente che
i militari siciliani risentissero maggiormente delle condizioni
ambientali e fossero indotti a preoccuparsi della sorte delle loro
famiglie in caso di sbarco sulle coste dell’isola”.
Ma anche prima della battaglia era stato difficile gestire questo
curioso esercito “stanziale”, formatosi senza un preciso
progetto, ma forse casualmente, con l’affluire in modo
disordinato di soldati che ottenevano di servire vicino a casa.
Roatta aveva invece tentato di dare un senso politico e un segno di
carattere patriottico alla presenza di siciliani creando le Centurie
Volontarie Vespri, formazioni appositamente pensate per raccogliere
sotto forma di volontariato popolare questa tendenza. Il progetto non
ebbe fortuna, bastò infatti solo averlo annunciato attraverso
un apposito proclama perché si scatenassero le tensioni più
aspre tra militari e politici. La frase suscitatrice della discordia,
posta a conclusione del proclama, così suonava: “Strettamente
fiduciosi e fraternamente uniti, voi fieri siciliani e noi
militari italiani e germanici delle FF.AA. Sicilia, dimostreremo
al nemico che di qui non si passa”.
Successivamente la memorialistica di ispirazione fascista l’avrebbe
considerata come un attentato all’unità della patria o
come un invito al separatismo. Così avrebbe commentato ad
esempio Alfredo Cucco, uno dei più qualificati esponenti del
fascismo siciliano: “La suprema autorità militare
dell’isola, quella che riassumeva tutti i poteri della stato,
offriva già i fondamenti di un movimento separatista prima
ancora [sic!] che tale movimento si fosse pronunciato”.
Tale pseudo-spiegazione serviva ad accreditare teorie complottistiche
anti-monarchiche sorvolando sulle reali contraddizioni e sulle
paralizzanti tensioni esistenti in quel momento tra le varie
componenti dell’apparato istituzionale.
Le Centurie, in realtà, entravano in concorrenza con le
formazioni della Milizia e con gli scopi precipui della
organizzazione politico militare del PNF. Il proclama del generale
Roatta che nel maggio del 1943 ne annunciava la costituzione divenne
così un importante casus belli all’interno delle sfere
dirigenti siciliane, una spia della estrema contraddittorietà
dei comportamenti dei comandi, del governo e delle gerarchie di
partito. Soprattutto, un simile appello agli occhi di molti siciliani
entrava in conflitto con i provvedimenti che imponevano il
trasferimento di tutti i funzionari pubblici nativi della Sicilia a
sedi continentali, considerato un immotivato atto di sfiducia nei
confronti della popolazione, suscitatore di sentimenti avversi al
regime fascista. Era stato lo stesso Mussolini a dare quest’ordine
nell’agosto del 1941, che giunse talmente inatteso da apparire
ai contemporanei al di fuori da ogni logica. Provocò
incredulità e sconcerto e molti credettero nella sua
inapplicabilità. Invece 1020 funzionari furono trasferiti con
i disagi immaginabili, mentre altrettanti, provenienti dalle sedi
continentali dovettero coprire i posti vacanti.
Davanti alle proteste manifestate anche attraverso le gerarchie
provinciali, Mussolini dette una spiegazione che già ai
contemporanei apparve poco convincente: il provvedimento era
punitivo, sì, ma per i continentali, inviati a sperimentare le
dure condizioni di vita in un avamposto come la Sicilia.
Che un simile argomento fosse insincero lo prova il fatto che proprio
nella fatidica notte del Gran Consiglio il duce ribadì la sua
sfiducia nei confronti dei ceti dirigenti isolani sostenendo che
sarebbe stato meglio procedere anche al trasferimento degli ufficiali
delle forze armate nativi dell’isola.
7. Contraddizioni e altre reticenze
La costruzione di un paradigma patriottico che era stata a suo
tempo vanificata dai contradditori comportamenti delle gerarchie
militari e politiche, subiva nel dopoguerra la stessa sorte per
l’incapacità di elaborare una lettura che riuscisse a
recuperare coerenza e senso almeno nella memoria o nel mito. Non
c’era modo così di servire a una politica della storia
che mettesse la destra italiana in condizione di riconoscersi attorno
a un mito forte. La continua oscillazione tra sicilianismo, e
patriottismo monarchico, tra equanimi apprezzamenti del fascismo
lasciava intravedere il tentativo di un vecchio ceto dirigente di
riaprire un dialogo al suo interno, ma nel frattempo ne segnava i
limiti facendo riemergere le linee di frattura con pari forza della
intenzione di riconciliazione. E così lo stesso patriottismo,
la logica del dovere compiuto fino al sacrificio non aveva prodotto
altro che rivendicazioni corporative tra le varie armi nel tentativo
di rintuzzare le accuse, di riversare su altri le responsabilità.
Piuttosto i pezzi incoerenti del discorso sulla guerra e sulla
crisi del fascismo in Sicilia sarebbero rimasti a disposizione di una
elaborazione successiva, compiuta al di fuori dalle sfere che
potevano considerarsi dei legittimi eredi di quella esperienza
politica. E’ certamente il caso della legislazione sulla
colonizzazione del latifondo siciliano avviata nel 1940 con la
costituzione di un Ente di colonizzazione. Sebbene l’esperienza
di quegli anni fosse fallimentare e disordinata, servì poi nel
dopoguerra a rilanciare il tema dell’abolizione della grande
proprietà fondiaria. Ma molto più interessante ai
nostri fini è il discorso sui provvedimenti relativi alla
questione mafiosa.
Con la legge del 11 luglio 1941
venne abrogato il decreto legge 15 luglio 1926, ovvero il
provvedimento che aveva consentito l’operazione del prefetto
Mori contro la mafia. La motivazione che il Ministero dell’Interno
addusse nel promuovere l’iter legislativo faceva riferimento al
patriottismo e allo spirito di sacrificio dimostrato dalla
popolazione siciliana esposta ai disagi della guerra, dava per
esaurito inoltre il pericolo mafioso.
Già negli anni trenta la mafia era stata dichiarata sconfitta
e il problema dichiarato risolto e pertanto accantonato; in realtà
l’attività di contrasto era stata ancora forte. Oggi
disponiamo di una documentazione resa accessibile dalla scadenza dei
limiti che regolano la consultabilità delle fonti più
delicate, che ci parla di questo aspetto poco conosciuto.
La lotta alla mafia quindi continuò in sordina, ma anche con
minori garanzie rispetto al periodo di Mori, la cui durezza era stata
pur temperata dal ruolo della magistratura. Quelli degli anni trenta
furono invece provvedimenti soprattutto amministrativi, sottratti
alla magistratura oltre che all’opinione pubblica, la cui
arbitrarietà scatenò una forte contraddizione
all’interno degli apparati repressivi dello stato: questure
contro comandi dei carabinieri, questi ultimi apertamente contrari ai
metodi e alla leggerezza con cui si indicavano le persone da inviare
al confino. L’improvviso provvedimento del 1941 può
quindi apparire come un tentativo di chiudere un contrasto interno
agli apparati dello stato, oltre che un gesto di riconciliazione
rivolto alla società locale. Forse è una coincidenza il
conferimento del cavalierato della corona d’Italia a Michele
Navarra il medico capo mafia corleonese destinato agli onori della
cronaca criminale, ma già noto ai carabinieri, in questo caso
invece poco dubbiosi sulla pericolosità del soggetto.
E’
possibile che il provvedimento abbia dato inizio a quella tradizione
che parla dell’aiuto prestato dalla mafia siciliana agli
americani al momento dello sbarco alleato. Alcuni accenni si hanno
nella memoria di Cucco già citata, Non volevamo perdere,
ma poi com’è noto questo tema sarebbe diventato un
cavallo di battaglia dell’antimafia del dopoguerra con la
pubblicazione del fortunato e importante libro di Michele Pantaleone,
Mafia e politica (Torino 1962)
Il
filtro sicilianista attraverso cui il dibattito finì per
scomporsi ebbe anche l’effetto di banalizzare alcuni aspetti
della vicenda, come per esempio il segnale inscritto nella nomina del
già prefetto di Fiume Temistocle Testa alla carica di Alto
commissario per la Sicilia. Un tentativo di coordinare l’azione
delle diverse istituzioni civili e i militari nella fase successiva
al proclama Roatta. Testa si era distinto per i metodi criminali
adottati a Fiume nel corso del 1942: aveva fatto fucilare ottanta
contadini croati del villaggio di Podhum, ne aveva fatti deportare
altri ottocento e aveva fatto bruciare sei villaggi.
Sia Faldella che Zingali ne parlano come di un confusionario,
incapace di mettere mano ai numerosi e intrigati problemi dell’isola
e tanto meno in grado di riportare pace e concordia tra autorità
civili e militari. Il compito di ricucire i difficili rapporti tra
diverse istituzioni e di rincuorare la popolazione, invece, sarebbe
stato assolto dal generale Guzzoni, collocato al vertice dell’Armata
dopo la sostituzione di Roatta a causa delle polemiche suscitate dal
suo proclama.
In realtà era difficile separare le
responsabilità politiche da quelle dei comandi militari, prima
e dopo la svolta del 25 luglio, che vide il comando della VI Armata
irrigidirsi su una continuità di comportamenti e di strategia
simile a quella che caratterizzava Badoglio e il suo governo. Guzzoni
infatti tenne a precisare davanti ai comandanti tedeschi che in
mancanza di altri ordini si considerava vincolato a quelli di
resistenza a oltranza contenuti in una lettera scrittagli da
Mussolini il 22 luglio e ricevuta il 29 (sic!). A quella data, le
Forze armate italiane in Sicilia erano ridotte allo stremo,
numericamente inferiori a quelle tedesche a causa delle diserzioni in
massa e delle altrettanto massicce rese al nemico. L’unica
operazione ancora organizzata che i comandi riuscirono a portare a
termine fu la ritirata attraverso lo Stretto di 62 mila uomini sui
315 mila di cui era composta 38 giorni prima la VI Armata.
8. La società regionale nella
ricostruzione
La vicenda siciliana rappresenta così un
terreno di indagine importante per la conoscenza della crisi del
1943. E’ la marginalità in cui essa cadde dopo la
battaglia a renderla interessante ai nostri occhi. In questo
isolamento infatti si consumò la deriva del rapporto tra
istituzioni, classi dirigenti e popolazione, senza che alcuna
prospettiva di azione collettiva si profilasse all’orizzonte.
L’unica salvezza consistette nel rifugiarsi nel particolare,
nel conservare la vita e le cose. Esercito e popolo venero
incoraggiati a imboccare questa strada persino dagli ufficiali di
ogni ordine e grado; anche alcuni dei più coraggiosi
combattenti si resero conto di come la salvezza individuale fosse
l’unica alternativa alla distruzione e alla morte senza alcun
progetto. In questi gesti si dissolse il ruolo di una classe
dirigente ormai incapace di provvedere alla direzione della cosa
pubblica. Se vogliamo così chiamarlo, si consumò quel
fenomeno indicato nel dibattito storiografico come “morte della
patria”;
in Sicilia con rilevanti differenze rispetto al quadro nazionale.
Dopo la sconfitta e nel periodo dell’occupazione, la parte più
arretrata della classe dirigente isolana cercò di dare un
senso a questa rottura formulando un’ipotesi separatista che
peraltro non portò ad alcuna concreta capacità di
direzione politica. Alla fine, risorse ideali e formule organizzative
nuove vennero da un confronto con la dimensione nazionale, con la
nuova Italia, a dare forza e voce a una popolazione avvilita e
affamata.
Nel
corso della battaglia per la Sicilia ad aggravare la situazione si
aggiunse il comportamento dei soldati tedeschi, già usi ad
accaparrare risorse. Passarono in alcuni casi alla rapina a mano
armata e perfino all’assassinio di civili, di religiosi, di
militari. Fu in particolare nella fase della battaglia che si
combatté intorno all’Etna che si verificarono gli
episodi più efferati, a Mascalucia, a Pedara, a Valverde, a
Castiglione di Sicilia, mentre l’Esercito italiano si
dissolveva lasciando la popolazione in balia del rapace alleato.
D’altra parte gli anglo - americani nella loro avanzata si
facevano precedere da una propaganda accattivante, distribuivano cibo
e promettevano la fine della guerra, ma combattevano duramente e
alcuni reparti si resero responsabili nell’immediato entroterra
della provincia di Ragusa, tra Acate e Caltagirone, di stragi di
soldati e contadini inermi. La consapevolezza di questa crudeltà,
riaffiorata di recente grazie a nuove ricerche, ci mette di fronte a
un quadro che non ammette semplificazioni o giustificazionismi, e
tento meno cedimenti a quegli usi impropri della storia che sempre
più di frequente i mezzi di comunicazione di massa ci
propongono.
Un
quadro più completo, come quello che si può ricavare
tra l’altro dalla ricostruzione di queste tragiche vicende, ci
mostra la difficoltà di attribuire agli alleati un progetto
compiuto di democrazia per l’Italia; ci appare pertanto
scorretto soggiacere a certe suggestioni dell’attualità,
come taluni hanno fatto, e parlare della ricostruzione dell’Italia
postbellica come del caso di una democrazia importata sulle baionette
degli eserciti alleati (e tanto meno per intercessione mafiosa).
Dalla ricerca storica riemerge invece con notevole evidenza il
contributo degli stessi italiani alla costruzione della democrazia;
si riaffermano quelle peculiarità che fanno di ogni esperienza
di democrazia un caso a sé, proprio perché essa nasce
dalla storia, dal consenso e dalla creatività di un dato
popolo, e non da schemi astratti e riproducibili sotto ogni cielo. Il
dopoguerra siciliano è un punto di osservazione importante
anche a questo proposito, ci mostra in una prospettiva talvolta
originale le tappe della difficile ricostruzione materiale e morale
dell’intero paese. In Sicilia si dovette fare i conti con un
retaggio di arretratezza, con il vecchio e sempre nuovo problema
della criminalità mafiosa che conobbe allora una delle più
virulente manifestazioni. Una capacità di ricostruzione
dall’interno, di invenzione di nuove forme di convivenza fu
data anche dall’irrompere sulla scena politica e sociale di
ceti e gruppi che fin allora ne erano stati esclusi come le donne, i
contadini, mobilitati attorno a una nuova legislazione agraria (i
decreti Gullo) che ribaltava i rapporti di forza nella campagne. Si
mise così in moto un processo che riportò la Sicilia a
dialogare con il resto del paese, ad aprire un confronto con quelle
altre esperienze e progetti di democrazia che si stavano svolgendo al
di là del fronte che per due lunghi anni aveva diviso
l’Italia. Molto ci fu da prendere da quelle esperienze, e per
esse fu reso disponibile un importante patrimonio politico e
culturale che arrivò da noi per il tramite dei grandi partiti,
veri canali di comunicazione e di dialogo per tutta la società
nazionale.
Battuto
il separatismo, in Sicilia intanto si stava elaborando un originale
progetto di autonomia regionale, inteso come strumento di dialogo con
la società nazionale, destinato ad essere un elemento
integrante della Carta costituzionale. Oggi a noi tocca ricostruire
con attenzione ed equilibrio i diversi aspetti della storia di quegli
anni, contraddittori, come sempre, con una forte conflittualità,
spintasi talvolta fino all’assassinio e alla strage, prezzo
pesantissimo pagato perché si aprisse una stagione nuova.
Dalla regione arretrata venne certamente una forte attenzione ai
problemi dello sviluppo e alla solidarietà tra le varie parti
del paese per promuovere una democrazia delle opportunità.
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