Il percorso della Libertà

Italia 1943 - 1945

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L’invasione della Sicilia e la crisi del vecchio regime

Rosario Mangiameli*


1. La patria muore in Sicilia


Osservato dalla Sicilia il processo che attraverso una terribile esperienza bellica portò alla fine della dittatura e alla nascita della democrazia in Italia rivela aspetti importanti, utili a completare la visione di un quadro nazionale troppo frammentato. Infatti, la separazione del paese in due parti dopo l’occupazione alleata e l’otto settembre ‘43 ha certamente contribuito a rendere difficoltosa la lettura unitaria della più spaventosa crisi della nostra storia nazionale ed ha impedito di coglierne i tratti comuni. Per di più l’occupazione anglo – americana mise la Sicilia nella condizione di beneficiare di un precoce dopoguerra mentre ancora il resto del paese pativa i disagi di una guerra ferocemente combattuta. E questo è stato un ulteriore elemento che ha contribuito a far percepire la sua vicenda come marginale rispetto al contesto nazionale.

Al contrario la nostra ipotesi di lettura, pur non trascurando le peculiarità, com’è tipico di ogni opera storiografica, mira a recuperare i tratti comuni dell’arduo e drammatico passaggio nel quale fu impegnato il popolo italiano nel periodo che va dal 1940 al 1945. Un momento risolutivo di questa vicenda vide il territorio e la società siciliane balzare in primo piano. Fu appunto il momento dell’occupazione cui si accompagnò la manifestazione definitiva della crisi del regime, quella del 25 luglio, effetto diretto dell’avvenuta invasione del territorio nazionale, ma ancor più della acquisita consapevolezza, in Sicilia e nel resto d’Italia, delle enormi e inutili rovine e lutti che la guerra aveva provocato e stava provocando, della pericolosità e inaffidabilità dell’alleato tedesco.

La crisi del regime fu anche crisi di classi dirigenti tradizionali, e della monarchia innanzi tutto, fu crisi degli apparati burocratici e militari, che insieme al regime furono travolti e non solo per la connivenza ventennale, ma soprattutto per l’incapacità a guidare il paese fuori della guerra e dall’alleanza con i tedeschi. In Sicilia questa perdita di leadership contribuì a fare orientare le classi dirigenti regionali in senso separatistico nella speranza, rivelatasi ben presto vana, di trovare un modo per far dimenticare agli alleati e alla stessa popolazione i legami ventennali con il fascismo, nell’altrettanto vana speranza di poter congelare equilibri sociali ed economici grazie alla protezione delle armi alleate.

Questa immagine riempie la scena, sicché si profilano due Italie nella lunga fase bellica che segue il 25 luglio e l’otto settembre: quella di un Centro – Nord, resistente e progressista, con un progetto per il futuro valido per tutto il paese, e quella di un Sud afascista e reazionario di cui la Sicilia rappresenta l’aspetto maggiormente caratterizzato per via della tendenza disgregatrice del separatismo. L’aver posto l’accento su questa dicotomia ha avuto l’effetto di rendere marginale la vicenda siciliana, e non solo per quanto riguarda gli specifici esiti regionalisti che conosciamo, ma anche per quel che riguarda la battaglia che in Sicilia si combatté nel luglio agosto 1943, che fu invece un momento centrale per i destini del paese.



2. Una prospettiva rovesciata e qualche reticenza


Un segno interessante di questa scarsa attenzione è dato dal fatto che le opere più note e citate che riguardano la campagna di Sicilia nei suoi aspetti militari non sono scritte da italiani, ma si devono a storici e memorialisti inglesi e americani, che hanno prodotto libri di buon livello divulgativo, come i “classici” H. Pond, Sicilia! (Milano, 1964) e G. A. Shepperd, La campagna d’Italia, 1943 1945 (Milano, 1975) a cui negli anni novanta si è aggiunto il voluminoso racconto di Carlo D’Este, 1943. Lo sbarco in Sicilia (Milano, 1990). Il punto di vista è prettamente anglo- americano: in modo ripetitivo in questi libri si critica l’eccessivo trionfalismo con cui la campagna di Sicilia fu descritta all’opinione pubblica statunitense e britannica, e si sottolineano le difficoltà cui andarono incontro gli eserciti alleati per poter conseguire la vittoria (il titolo americano del libro di D’Este è Bitter Vicotry). Si tratta, dunque, di una di quelle polemiche originariamente alimentate dagli stessi protagonisti e che poi vengono continuamente reiterate, poiché contribuiscono a rendere intrigante il racconto agli occhi del grande pubblico dei lettori. Questa letteratura ha seguito un percorso parallelo alla pubblicazione delle opere ufficiali, e delle memorie dei comandanti militari e dei responsabili politici alleati1. Una ragione del suo successo consiste sicuramente nel fatto che la narrazione somiglia molto a quella dei film di guerra americani anni cinquanta - sessanta, un genere che ha a lungo dominato i mercati nei decenni scorsi2. Credo che la fascinazione del linguaggio cinematografico abbia avuto un effetto paradossale sulle opere di alcuni giornalisti italiani che ultimamente hanno ripreso l’argomento della guerra in Sicilia riproponendo temi, aneddoti e punti di vista propri della letteratura in questione, lasciando invece su uno sfondo sbiadito la società siciliana. Questo curioso fenomeno ha subito semmai una accentuazione con l’immissione dal 1995 circa sul mercato dei cosiddetti Combat film, ovvero quelle video cassette che raccolgono in modo più o meno disordinato l’enorme materiale filmico realizzato dagli anglo – americani sulla guerra e anche sul fronte siciliano.

Il precisarsi dello schema narrativo militare ha provocato, quindi, una netta separazione rispetto alla narrazione degli aspetti politici e sociali, di carattere più localistico, più incentrata sulle vicende del quadro regionale, talvolta esasperatamente decontestualizzato rispetto alla storia nazionale.

E’ curiosa questa separazione per generi: il militare, il politico; ma trova la sua spiegazione in molte circostanze, come per es nell’aver voluto sottolineare la rottura seguita all’otto settembre, che in molta parte del Sud significava fine della guerra e inizio della politica. Per altri aspetti la separazione si è sempre più accentuata e codificata man mano che, dagli anni sessanta in poi, la storiografia sulla Resistenza acquistava una maggiore importanza. Gli aspetti militari e politici della lotta che si svolse al Nord nel 1943 – ’45 sembravano meglio prestarsi a una sintesi che riguardava la costruzione della nuova convivenza democratica e repubblicana; il racconto della guerra al Sud invece appariva senza sbocchi, come raccontare la guerra per la guerra, il che poteva scontrarsi con un tabù che racchiudeva nazionalismi e bellicismi da poco rimossi dall’orizzonte politico culturale italiano. Il racconto della guerra apparteneva a un genere minore, da lasciare a certa cinematografia o a certa letteratura tra l’intrattenimento e lo scandalistico.

Toni scandalistici aveva finito infatti per assumere il dibattito avviatosi fin dal 1943 sulla sconfitta in Sicilia, ovvero sulla sconfitta tout court dell’Italia nella seconda guerra mondiale, l’interesse dell’opinione pubblica per il processo Trizzino svoltosi all’inizio degli anni cinquanta, di cui tra poco parlerò, aveva anche questo risvolto. La stampa democratica presentò proprio sotto questa veste quello che peraltro sembrava un macabro balletto tra generali e ammiragli sconfitti, con la non secondaria partecipazione di qualche gerarca. Riletto oggi questo dibattito si presenta invece non privo di interesse nella prospettiva di recuperare una visione unitaria della crisi del 1943.



3.Tradimenti


Possiamo distinguere due fasi della produzione italiana sulla guerra in Sicilia, ambedue legate a un dibattito politico e a una produzione di stampa periodica illustrata e filmica tale da allargarne la fruizione al di fuori dei cerchi di lettori colti facendone quasi letture di carattere popolare, fondate sulle recriminazioni di neofascisti, generali e ammiragli per la guerra perduta. L’incipit della prima fase è da collocare nel bel mezzo della battaglia per la Sicilia e si protrae fin verso la fine degli anni quaranta; la seconda fase è invece caratterizzata dal processo per diffamazione che la Marina Militare intentò contro Antonio Trizzino per il contenuto di alcuni suoi scritti e in particolare del libro Navi e poltrone (Milano, 1953).

L’avvio del dibattito è dato dagli articoli che Roberto Farinacci pubblicò a partire dal 15 luglio 1943 su “Regime fascista”. Era un attacco ai comandi militari in Sicilia ritenuti incompetenti e sospettati di tradimento dopo le prime sconfitte, e in particolare dopo il crollo (10 – 12 luglio) della Piazza Militare Marittima di Augusta – Siracusa. La base, dipinta come munitissima, fu effettivamente abbandonata dai suoi difensori senza opporre alcuna resistenza e addirittura prima che le truppe britanniche sbarcate il 10 luglio tra Pachino e Avola, fossero in vista. La polemica così avviata ebbe effetti importanti sia nell’immediato, sia nel futuro dibattito politico. Servì di rincalzo alle accuse che i comandi tedeschi non del tutto esenti da responsabilità nell’abbandono della base rivolsero ai comandi italiani. Le truppe tedesche erano state le prime ad abbandonare il porto di Augusta dando alle fiamme i depositi di carburante e altri impianti. Quelle colonne di fumo che si levavano alte erano state interpretate come il segnale del “si salvi chi può”, d’altronde assecondato dalla inefficienza dei comandi italiani. Ma mentre le truppe tedesche si erano riorganizzate poco più a Nord, sulla Piana di Catania grazie anche all’arrivo di rinforzi paracadutati sulla linea del fronte, le formazioni italiane si erano disgregate o si stavano disgregando anche a causa della confusione e del panico creato dalla precipitosa e disordinata fuga di migliaia di marinai dalla base di Augusta - Siracusa3. L’attacco dei tedeschi e di Farinacci alla condotta dei comandi italiani e l’accusa di incapacità, o peggio, di tradimento, servì a giustificare la tendenza a porre sotto controllo le unità italiane integrandole con quelle tedesche, una operazione che fu avviata in Sicilia nel corso della battaglia, ma che fu riprodotta su scala nazionale e tra le forze italiane impegnate fuori dai confini nazionali. La minore autonomia in cui i comandi italiani si trovarono fu decisiva nel paralizzare le nostre Forze armate nei giorni successivi all’otto settembre.

Un più durevole effetto delle tesi di Farinacci si misura dalla loro persistenza tra le argomentazioni addotte dal fascismo repubblicano contro la monarchia, riprese da Mussolini nel suo Storia di un anno (1944). Nel dopoguerra la ricerca del complotto atto a spiegare la sconfitta sarebbe stata un argomento forte della ricostruzione di una identità neofascista. Tra le opere più importanti di questo periodo vanno segnalate l’opera dello storico Attilio Tamaro, Due anni di storia, 1943 – 1945, le memorie dell’ambasciatore della RSI a Berlino, il catanese Filippo Anfuso, Roma, Berlino, Salò4, le memorie del gerarca palermitano Alfredo Cucco, Non volevamo perdere, opere apparse nel 1950.

Le accuse erano rivolte principalmente ai militari, che avevano divulgato la loro versione con il generale Zanussi, autore tra il 1945 e il 1946 di uno dei primi libri di quella che sarebbe diventata una ricca produzione di memorie e di studi, Guerra e catastrofe dell’Italia. Nel 1946 il generale Francesco Rossi, sottocapo di stato maggiore generale, dette alle stampe Come arrivammo all’armistizio5; lo stesso anno vide la luce Otto milioni di baionette6, del generale Roatta, che era stato il discusso comandante delle Forze armate in Sicilia fino alla vigilia dello sbarco, nonché accusato di crimini di guerra e sottoposto a giudizio per la sua condotta successiva all’otto settembre. Un punto di forte contrapposizione alla teoria del complotto era dato dalla pubblicazione nel 1947 di Luglio 1943 in Sicilia, il suo autore era Dante Ugo Leonardi, comandante del 34° reggimento fanteria delle divisione Livorno. Sulla piana di Gela la Livorno aveva sostenuto un durissimo e onorevole scontro con le truppe americane perdendo oltre 7.000 dei suoi 11.000 effettivi7. Il mito attribuiva alla strenua e sfortunata difesa effettuata da questa divisione l’aver messo in crisi le truppe americane sbarcate tra Licata e Gela fino al punto di far considerare al loro comandante generale Patton l’eventualità di un reimbarco.



4. Processi


Il tema dell’eroismo e il tema del complotto avrebbero avuto una diversa valenza alla ripresa del dibattito, in quella che per comodità indico come una seconda fase. In questa fase i comandi militari avrebbero avuto una parte più importante e una maggiore visibilità. Nel 1953 la ricostruzione di alcune vicende belliche offerta dal libro di Antonio Trizzino, Navi e poltrone8, fu recepita come un atto di accusa di stampo neofascista, rivolto principalmente al comportamento della Marina italiana. Trizzino era un ex ufficiale d’aviazione non nuovo alle polemiche sulla conduzione della guerra; le aveva in un primo momento coniugate con l’aspra polemica sicilianista, come è ben esemplificato dalla pubblicazione di due pamphlet nel 1945, Che vuole la Sicilia? e meglio ancora Vento del Sud recante la prefazione del leader separatista siciliano Andrea Finocchiaro Aprile. Gli argomenti sicilianisti usati in questo testo mostrano come questa pubblicistica avesse un bacino d’ascolto in un’ampia fascia di opinione di destra siciliana che tuttavia, spentasi la protesta separatista, modificava il suo linguaggio in cerca di un altro ambito.

La caduta di Pantelleria, la battaglia per la Sicilia, la fine della Piazza Militare Marittima di Augusta – Siracusa divennero allora, secondo il punto di vista sostenuto in Navi e poltrone, simboli forti del tradimento consumato dai militari contro il regime e la patria. Seguì un processo per diffamazione intentato contro l’autore del libro, e tuttavia conclusosi in secondo grado il 3 febbraio del 1955 davanti alla Corte d’appello di Milano con l’assoluzione dell’imputato. Questo risultato non portò a una messa sotto accusa del comportamento della Marina e delle Forze armate, quanto piuttosto a un avvio di dialogo tra i neofascisti e gli epigoni dell’establishment militare - monarchico, ancora largamente presenti nelle istituzioni. Il contesto era di maggiore attenzione rivolta a destra, a causa della crisi della formula di governo centrista. Alcuni segnali significativi direttamente collegati con la vicenda di cui stiamo trattando furono l’arresto e il processo davanti a un tribunale militare dei critici cinematografici Guido Aristarco e Renzo Renzi per una “irriverente” sceneggiatura sul comportamento dei militari italiani durante l’occupazione della Grecia nella seconda guerra mondiale; nello stesso 1953 fu arrestato Giovanni Guareschi per aver pubblicato alcune false lettere in cui De Gasperi avrebbe chiesto agli Alleati di bombardare l’Italia. Erano questi gesti provocatori compiuti dal potere militare e da un popolare scrittore notoriamente orientato a destra, che voleva rappresentare un’Italia a suo modo “ragionevole”, “dignitosa”, e non faziosamente partitica. Ciò che si voleva sottolineare era la necessità di un congelamento dell’antifascismo (e della Costituzione) come ideologia della rinnovata identità nazionale, ovvero l’impossibilità per i partiti che stavano al potere di condividere una base comune con una opposizione che faceva della Resistenza e dell’antifascismo i suoi punti di forza. Il conflitto non era solo ideologico, né si risolveva solo nell’ambito della politica interna al paese: seguiva le linee di un accentuato bipolarismo sul piano internazionale. Per parte dell’area moderata interna alla Democrazia Cristiana, il recupero di un rapporto stabile con le vecchie classi dirigenti appariva un aspetto importante volto a ricostruire un equilibrio nuovo. Fu un segnale forte in questa direzione l’incontro tra Giulio Andreotti e il maresciallo Rodolfo Graziani9.

Nel corso del processo a Trizzino e negli anni immediatamente successivi (dal 1954 al 1959) il dibattito pubblico sulla campagna di Sicilia conobbe un nuovo slancio, furono questa volta principalmente i militari a far conoscere il loro punto di vista e a elaborare una linea difensiva. Per l’esercito intervennero lo stesso comandante della VI Armata Alfredo Guzzoni e il suo capo di stato maggiore Emilio Faldella, per l’Aviazione intervenne il generale G. Santoro, per la Marina gli ammiragli M Bragadin e Angelo Iachino10. Al di là dei pur presenti aspetti di difesa corporativa che questa rappresentanza delle varie armi comportava, il tono del discorso fu segnato da Guzzoni il quale rintuzzò le accuse sostenendo che la sfortunata battaglia, destinata ad essere perduta in partenza, era stata combattuta con dignità ed eroismo. La sua fu una mossa abile poiché riuscì a contenere il discorso nell’ambito dell’opinione moderata e anzi ottenne qualche apertura nel fronte neofascista. Il suo articolo scritto sotto forma di lettera aperta al Ministro della Difesa Taviani, democristiano e resistente, fu pubblicato dal settimanale «Il Borghese», di area missina, con il titolo provocatorio Il ministro non risponde. Il problema sollevato era quello relativo al medagliere della battaglia di Sicilia, a giudizio di Guzzoni penalizzato da un ingiusto provvedimento preso da Randolfo Pacciardi come Ministro della Difesa del quinto governo De Gasperi (1948). Pacciardi aveva infatti disposto che le onorificenze proposte per la campagna di Sicilia fossero vagliate con maggiore severità delle altre.




5. L’elaborazione di un paradigma eroico


Lo spostamento di fronte polemico verso le sinistre tentato da Guzzoni avrebbe dato in seguito i suoi frutti. Una delle migliori ricostruzioni apparse in questo periodo, il libro di Faldella, Lo sbarco e la difesa della Sicilia, che seguì un anno e mezzo dopo l’intervento di Guzzoni, conteneva ancora un’aspra polemica nei confronti dei gerarchi fascisti e sottolineava il comportamento poco onorevole dei reparti della milizia di fronte al nemico. Tuttavia Faldella riproponeva la linea di una costruzione del quadro eroico, in questo caso rivolgendosi polemicamente verso la cultura politica repubblicana che aveva penalizzato il sacrificio di molti soldati e così facendo aveva tagliato i ponti con una continuità nella quale i gruppi dirigenti delle Forze armate si riconoscevano. La frase destinata a diventare epigrafe da porre a suggello del sacrificio fu dettata dal generale Ottavio Zoppi nella sua prefazione al libro di Faldella:

“La battaglia per la Sicilia, malgrado la più ferma volontà e la capacità dei comandanti e l’eroismo dei soldati, era perduta in partenza per l’incolmabile nostra inferiorità di mezzi. Non poteva essere che la battaglia del dovere e dell’onore. E tale fu”11.

Continuava il generale Zoppi ricordando agli italiani “che la resistenza in Sicilia durò 38 giorni, mentre nel 1939 la Polonia fu conquistata in 29 giorni e l’esercito francese, intatto, crollò in 40 giorni”. Il testo di Faldella non mancava dal canto suo di tracciare un quadro desolante delle condizioni delle truppe che lui comandava, delle gravi deficienze delle difese della Sicilia, delle condizioni disperate in cui versava la popolazione affamata e terrorizzata dai bombardamenti, della inettitudine dei gerarchi fascisti; il tutto metteva ancor più in risalto lo sfortunato eroismo dei militari che, solo, aveva supplito al vuoto lasciato dalla mancanza di ogni strategia e di ogni prospettiva al momento dello sbarco alleato.

Notava Faldella:

“Era naturalmente assurdo pretendere che ufficiali non preparati ad esercitare il comando, dessero prova di iniziativa e di capacità in situazioni particolarmente difficili e mutevoli. Potevano tutt’al più dimostrare di saper morire, e molti infatti caddero da valorosi”12.

La memoria della battaglia per la Sicilia così continuava a evocare il momento cruciale della difesa della patria, intrappolata però in mille contraddizioni che rendevano difficile a ognuno dei protagonisti l’assunzione di un ruolo chiaro davanti alla catastrofe. I militari, per quanto potessero rintuzzare la polemica puntando sulla conduzione politica della guerra e in particolare sulla disastrosa condizione in cui il regime aveva lasciato la popolazione e le Forze armate in Sicilia, si trovavano a condividere alcune di queste responsabilità come esponenti della classe dirigente. Il tema dell’eroismo sottolineava questo punto di vista e questa condizione, come una necessaria prova di espiazione offerta nel momento della resa dei conti. Su questa via si accentuavano però le polemiche di tipo corporativo che contrapponevano eroismo, dedizione, competenza delle varie armi. Un esempio di questa variante polemica fu dato dalle accuse mosse all’Esercito dall’ammiraglio Bragadin per non aver protetto da terra la base di Augusta – Siracusa, lasciando così scoperte le spalle ai marinai che avevano il compito di difendere il fronte a mare. Per questo i difensori sarebbero fuggiti. Faldella dal canto suo non risparmiava critiche all’Aviazione, poco presente nella battaglia, nonostante l’ottimismo mostrato dai suoi comandanti nella fase precedente13.

L’assenza della Marina dalle acque siciliane durante lo sbarco fu un altro dei temi scottanti, che perfino metteva in crisi il paradigma eroico. Lo avrebbe discusso l’ammiraglio Iachino, nel suo Il tramonto di una grande Marina, dedicato ai compagni di “una guerra più assurda che sfortunata”. Ammetteva la giustezza della scelta di avere usato le navi come “moneta di scambio” al momento dell’armistizio. Tuttavia concludeva con una nota sentimentale che lo portava a tessere l’elogio del sacrificio e a rimpiangere la mancata battaglia sul Canale di Sicilia. Iachino in realtà toccava tutti i tasti sensibili per condurre il suo tentativo di “pacificazione” sul terreno nient’affatto sentimentale e nostalgico di un’ottica giocata sugli schieramenti della guerra fredda, sul superamento dei particolarismi nazionali che quest’ottica richiedeva. Il “tramonto” della Marina italiana iniziato in quell’estate del 1943, per l’ammiraglio altro non era stato che l’annuncio (si sarebbe detto indolore) del tramonto delle “marine nazionali”, la fine di un’epoca: “Era tramontata nel mondo tutta un’era navale, l’era delle grandi navi e delle Marine autonome. Sorgeva invece l’era dei missili, dei sommergibili atomici e delle marine cosiddette integrate nella nuova associazione atlantica in omaggio all’ideale di solidarietà europea al quale tutte le nazioni aderenti hanno sacrificato la loro indipendente sovranità e l’autonomia delle loro forze armate”14.




6. Ricostruire la patria a destra?


L’ultimo dei libri importanti in questo dibattito fu quello di Gaetano Zingali, L’invasione della Sicilia, pubblicato nel 1962. La data già segna una svolta importante, avvertita di più in Sicilia che altrove per via della crisi che aveva colpito la politica regionale negli anni dal 1958 – ’59, con la scissione democristiana, la tentata creazione di un secondo partito cattolico e la formazione di un governo regionale composto da partiti di destra e di sinistra alleati tra di loro. La vicenda si era risolta con una anticipazione di quella che sarebbe stata da lì a poco la formula di centro - sinistra applicata su scala nazionale15. Davanti a questa congiuntura il tentativo di Zingali era volto a ricucire le sparse schiere della destra, in Sicilia come al Sud, numericamente rilevanti, ma divise tra di loro da insanabili contrasti e senza una strategia comune. Per far ciò l’anziano professore dell’Università di Catania, proprietario di una azienda agrumicola, aveva buone carte di credito. Era stato segretario della federazione fascista di Catania negli anni venti, messo da parte dalla gestione staraciana del partito; durante la guerra era stato richiamato a ricoprire la carica di vice presidente del Consiglio provinciale delle corporazioni, carica dalla quale si dimise dopo aver constatato, secondo la sua stessa ricostruzione, la inadeguatezza e la contraddittorietà delle misure adottate dal regime per far fronte alla drammatica situazione in cui versava la popolazione ridotta alla fame. Quello di Zingali era stato un osservatorio privilegiato della crisi del rapporto tra classi dirigenti regionali e fascismo, e tuttavia questa crisi non aveva trovato altro sbocco che la protesta separatista, le lamentele sicilianiste, che segnano anche l’argomentazione del nostro testimone. La dialettalità del sicilianismo, si era rivelata ben presto labile terreno su cui tentare l’unificazione delle vecchie classi dirigenti perfino su scala regionale. Da qui il recupero del tema patriottico rappresentato attorno alla battaglia decisiva che aveva decretato la svolta della guerra, la fine del vecchio mondo monarchico e fascista insieme. Da politico qual era, Zingali allargava la sua trattazione agli aspetti sociali ed economici, tentando anche di dare una rappresentazione della contraddizione tra Forze armate e regime. Tra le due entità contrapposte, “Governo -. Partito” ed “Esercito – popolazione siciliana”;16 (l’una effettiva responsabile della sconfitta, l’altra ingiustamente accusata dai tedeschi, dai gerarchi e dai loro epigoni) il popolo siciliano a suo dire si sarebbe riconosciuto nell’Esercito. Zingali fondava tali deduzioni sulla composizione delle divisioni dislocate sull’isola, al 70 per cento siciliana; anche se bisogna dire che le formazioni della Milizia non erano da meno, ed anzi raccoglievano una percentuale di popolazione locale sicuramente maggiore.

In realtà la preponderanza di elementi locali era stata fatale sia nella capacità di tenuta dell’Esercito, sia nella vicenda della caduta delle base di Augusta - Siracusa affidata in gran parte a truppe della Milizia che si sciolsero al primo annuncio dell’attacco nemico. Che la presenza di siciliani fosse un punto debole era d’altronde ben presente ai comandi. Nel tracciare il suo quadro a forti tinte negative Faldella non taceva questo aspetto: “Era evidente che i militari siciliani risentissero maggiormente delle condizioni ambientali e fossero indotti a preoccuparsi della sorte delle loro famiglie in caso di sbarco sulle coste dell’isola”17.

Ma anche prima della battaglia era stato difficile gestire questo curioso esercito “stanziale”, formatosi senza un preciso progetto, ma forse casualmente, con l’affluire in modo disordinato di soldati che ottenevano di servire vicino a casa. Roatta aveva invece tentato di dare un senso politico e un segno di carattere patriottico alla presenza di siciliani creando le Centurie Volontarie Vespri, formazioni appositamente pensate per raccogliere sotto forma di volontariato popolare questa tendenza. Il progetto non ebbe fortuna, bastò infatti solo averlo annunciato attraverso un apposito proclama perché si scatenassero le tensioni più aspre tra militari e politici. La frase suscitatrice della discordia, posta a conclusione del proclama, così suonava: “Strettamente fiduciosi e fraternamente uniti, voi fieri siciliani e noi militari italiani e germanici delle FF.AA. Sicilia, dimostreremo al nemico che di qui non si passa”18. Successivamente la memorialistica di ispirazione fascista l’avrebbe considerata come un attentato all’unità della patria o come un invito al separatismo. Così avrebbe commentato ad esempio Alfredo Cucco, uno dei più qualificati esponenti del fascismo siciliano: “La suprema autorità militare dell’isola, quella che riassumeva tutti i poteri della stato, offriva già i fondamenti di un movimento separatista prima ancora [sic!] che tale movimento si fosse pronunciato”. Tale pseudo-spiegazione serviva ad accreditare teorie complottistiche anti-monarchiche sorvolando sulle reali contraddizioni e sulle paralizzanti tensioni esistenti in quel momento tra le varie componenti dell’apparato istituzionale19.

Le Centurie, in realtà, entravano in concorrenza con le formazioni della Milizia e con gli scopi precipui della organizzazione politico militare del PNF. Il proclama del generale Roatta che nel maggio del 1943 ne annunciava la costituzione divenne così un importante casus belli all’interno delle sfere dirigenti siciliane, una spia della estrema contraddittorietà dei comportamenti dei comandi, del governo e delle gerarchie di partito. Soprattutto, un simile appello agli occhi di molti siciliani entrava in conflitto con i provvedimenti che imponevano il trasferimento di tutti i funzionari pubblici nativi della Sicilia a sedi continentali, considerato un immotivato atto di sfiducia nei confronti della popolazione, suscitatore di sentimenti avversi al regime fascista. Era stato lo stesso Mussolini a dare quest’ordine nell’agosto del 1941, che giunse talmente inatteso da apparire ai contemporanei al di fuori da ogni logica. Provocò incredulità e sconcerto e molti credettero nella sua inapplicabilità. Invece 1020 funzionari furono trasferiti con i disagi immaginabili, mentre altrettanti, provenienti dalle sedi continentali dovettero coprire i posti vacanti20. Davanti alle proteste manifestate anche attraverso le gerarchie provinciali, Mussolini dette una spiegazione che già ai contemporanei apparve poco convincente: il provvedimento era punitivo, sì, ma per i continentali, inviati a sperimentare le dure condizioni di vita in un avamposto come la Sicilia21. Che un simile argomento fosse insincero lo prova il fatto che proprio nella fatidica notte del Gran Consiglio il duce ribadì la sua sfiducia nei confronti dei ceti dirigenti isolani sostenendo che sarebbe stato meglio procedere anche al trasferimento degli ufficiali delle forze armate nativi dell’isola22.


7. Contraddizioni e altre reticenze


La costruzione di un paradigma patriottico che era stata a suo tempo vanificata dai contradditori comportamenti delle gerarchie militari e politiche, subiva nel dopoguerra la stessa sorte per l’incapacità di elaborare una lettura che riuscisse a recuperare coerenza e senso almeno nella memoria o nel mito. Non c’era modo così di servire a una politica della storia che mettesse la destra italiana in condizione di riconoscersi attorno a un mito forte. La continua oscillazione tra sicilianismo, e patriottismo monarchico, tra equanimi apprezzamenti del fascismo lasciava intravedere il tentativo di un vecchio ceto dirigente di riaprire un dialogo al suo interno, ma nel frattempo ne segnava i limiti facendo riemergere le linee di frattura con pari forza della intenzione di riconciliazione. E così lo stesso patriottismo, la logica del dovere compiuto fino al sacrificio non aveva prodotto altro che rivendicazioni corporative tra le varie armi nel tentativo di rintuzzare le accuse, di riversare su altri le responsabilità.

Piuttosto i pezzi incoerenti del discorso sulla guerra e sulla crisi del fascismo in Sicilia sarebbero rimasti a disposizione di una elaborazione successiva, compiuta al di fuori dalle sfere che potevano considerarsi dei legittimi eredi di quella esperienza politica. E’ certamente il caso della legislazione sulla colonizzazione del latifondo siciliano avviata nel 1940 con la costituzione di un Ente di colonizzazione. Sebbene l’esperienza di quegli anni fosse fallimentare e disordinata, servì poi nel dopoguerra a rilanciare il tema dell’abolizione della grande proprietà fondiaria. Ma molto più interessante ai nostri fini è il discorso sui provvedimenti relativi alla questione mafiosa.

Con la legge del 11 luglio 1941 venne abrogato il decreto legge 15 luglio 1926, ovvero il provvedimento che aveva consentito l’operazione del prefetto Mori contro la mafia. La motivazione che il Ministero dell’Interno addusse nel promuovere l’iter legislativo faceva riferimento al patriottismo e allo spirito di sacrificio dimostrato dalla popolazione siciliana esposta ai disagi della guerra, dava per esaurito inoltre il pericolo mafioso23. Già negli anni trenta la mafia era stata dichiarata sconfitta e il problema dichiarato risolto e pertanto accantonato; in realtà l’attività di contrasto era stata ancora forte. Oggi disponiamo di una documentazione resa accessibile dalla scadenza dei limiti che regolano la consultabilità delle fonti più delicate, che ci parla di questo aspetto poco conosciuto24. La lotta alla mafia quindi continuò in sordina, ma anche con minori garanzie rispetto al periodo di Mori, la cui durezza era stata pur temperata dal ruolo della magistratura. Quelli degli anni trenta furono invece provvedimenti soprattutto amministrativi, sottratti alla magistratura oltre che all’opinione pubblica, la cui arbitrarietà scatenò una forte contraddizione all’interno degli apparati repressivi dello stato: questure contro comandi dei carabinieri, questi ultimi apertamente contrari ai metodi e alla leggerezza con cui si indicavano le persone da inviare al confino. L’improvviso provvedimento del 1941 può quindi apparire come un tentativo di chiudere un contrasto interno agli apparati dello stato, oltre che un gesto di riconciliazione rivolto alla società locale. Forse è una coincidenza il conferimento del cavalierato della corona d’Italia a Michele Navarra il medico capo mafia corleonese destinato agli onori della cronaca criminale, ma già noto ai carabinieri, in questo caso invece poco dubbiosi sulla pericolosità del soggetto25.

E’ possibile che il provvedimento abbia dato inizio a quella tradizione che parla dell’aiuto prestato dalla mafia siciliana agli americani al momento dello sbarco alleato. Alcuni accenni si hanno nella memoria di Cucco già citata, Non volevamo perdere, ma poi com’è noto questo tema sarebbe diventato un cavallo di battaglia dell’antimafia del dopoguerra con la pubblicazione del fortunato e importante libro di Michele Pantaleone, Mafia e politica (Torino 1962)

Il filtro sicilianista attraverso cui il dibattito finì per scomporsi ebbe anche l’effetto di banalizzare alcuni aspetti della vicenda, come per esempio il segnale inscritto nella nomina del già prefetto di Fiume Temistocle Testa alla carica di Alto commissario per la Sicilia. Un tentativo di coordinare l’azione delle diverse istituzioni civili e i militari nella fase successiva al proclama Roatta. Testa si era distinto per i metodi criminali adottati a Fiume nel corso del 1942: aveva fatto fucilare ottanta contadini croati del villaggio di Podhum, ne aveva fatti deportare altri ottocento e aveva fatto bruciare sei villaggi26. Sia Faldella che Zingali ne parlano come di un confusionario, incapace di mettere mano ai numerosi e intrigati problemi dell’isola e tanto meno in grado di riportare pace e concordia tra autorità civili e militari. Il compito di ricucire i difficili rapporti tra diverse istituzioni e di rincuorare la popolazione, invece, sarebbe stato assolto dal generale Guzzoni, collocato al vertice dell’Armata dopo la sostituzione di Roatta a causa delle polemiche suscitate dal suo proclama27.

In realtà era difficile separare le responsabilità politiche da quelle dei comandi militari, prima e dopo la svolta del 25 luglio, che vide il comando della VI Armata irrigidirsi su una continuità di comportamenti e di strategia simile a quella che caratterizzava Badoglio e il suo governo. Guzzoni infatti tenne a precisare davanti ai comandanti tedeschi che in mancanza di altri ordini si considerava vincolato a quelli di resistenza a oltranza contenuti in una lettera scrittagli da Mussolini il 22 luglio e ricevuta il 29 (sic!). A quella data, le Forze armate italiane in Sicilia erano ridotte allo stremo, numericamente inferiori a quelle tedesche a causa delle diserzioni in massa e delle altrettanto massicce rese al nemico. L’unica operazione ancora organizzata che i comandi riuscirono a portare a termine fu la ritirata attraverso lo Stretto di 62 mila uomini sui 315 mila di cui era composta 38 giorni prima la VI Armata.



8. La società regionale nella ricostruzione


La vicenda siciliana rappresenta così un terreno di indagine importante per la conoscenza della crisi del 1943. E’ la marginalità in cui essa cadde dopo la battaglia a renderla interessante ai nostri occhi. In questo isolamento infatti si consumò la deriva del rapporto tra istituzioni, classi dirigenti e popolazione, senza che alcuna prospettiva di azione collettiva si profilasse all’orizzonte. L’unica salvezza consistette nel rifugiarsi nel particolare, nel conservare la vita e le cose. Esercito e popolo venero incoraggiati a imboccare questa strada persino dagli ufficiali di ogni ordine e grado; anche alcuni dei più coraggiosi combattenti si resero conto di come la salvezza individuale fosse l’unica alternativa alla distruzione e alla morte senza alcun progetto. In questi gesti si dissolse il ruolo di una classe dirigente ormai incapace di provvedere alla direzione della cosa pubblica. Se vogliamo così chiamarlo, si consumò quel fenomeno indicato nel dibattito storiografico come “morte della patria”28; in Sicilia con rilevanti differenze rispetto al quadro nazionale. Dopo la sconfitta e nel periodo dell’occupazione, la parte più arretrata della classe dirigente isolana cercò di dare un senso a questa rottura formulando un’ipotesi separatista che peraltro non portò ad alcuna concreta capacità di direzione politica. Alla fine, risorse ideali e formule organizzative nuove vennero da un confronto con la dimensione nazionale, con la nuova Italia, a dare forza e voce a una popolazione avvilita e affamata.

Nel corso della battaglia per la Sicilia ad aggravare la situazione si aggiunse il comportamento dei soldati tedeschi, già usi ad accaparrare risorse. Passarono in alcuni casi alla rapina a mano armata e perfino all’assassinio di civili, di religiosi, di militari. Fu in particolare nella fase della battaglia che si combatté intorno all’Etna che si verificarono gli episodi più efferati, a Mascalucia, a Pedara, a Valverde, a Castiglione di Sicilia, mentre l’Esercito italiano si dissolveva lasciando la popolazione in balia del rapace alleato29. D’altra parte gli anglo - americani nella loro avanzata si facevano precedere da una propaganda accattivante, distribuivano cibo e promettevano la fine della guerra, ma combattevano duramente e alcuni reparti si resero responsabili nell’immediato entroterra della provincia di Ragusa, tra Acate e Caltagirone, di stragi di soldati e contadini inermi. La consapevolezza di questa crudeltà, riaffiorata di recente grazie a nuove ricerche, ci mette di fronte a un quadro che non ammette semplificazioni o giustificazionismi, e tento meno cedimenti a quegli usi impropri della storia che sempre più di frequente i mezzi di comunicazione di massa ci propongono.

Un quadro più completo, come quello che si può ricavare tra l’altro dalla ricostruzione di queste tragiche vicende, ci mostra la difficoltà di attribuire agli alleati un progetto compiuto di democrazia per l’Italia; ci appare pertanto scorretto soggiacere a certe suggestioni dell’attualità, come taluni hanno fatto, e parlare della ricostruzione dell’Italia postbellica come del caso di una democrazia importata sulle baionette degli eserciti alleati (e tanto meno per intercessione mafiosa). Dalla ricerca storica riemerge invece con notevole evidenza il contributo degli stessi italiani alla costruzione della democrazia; si riaffermano quelle peculiarità che fanno di ogni esperienza di democrazia un caso a sé, proprio perché essa nasce dalla storia, dal consenso e dalla creatività di un dato popolo, e non da schemi astratti e riproducibili sotto ogni cielo. Il dopoguerra siciliano è un punto di osservazione importante anche a questo proposito, ci mostra in una prospettiva talvolta originale le tappe della difficile ricostruzione materiale e morale dell’intero paese. In Sicilia si dovette fare i conti con un retaggio di arretratezza, con il vecchio e sempre nuovo problema della criminalità mafiosa che conobbe allora una delle più virulente manifestazioni. Una capacità di ricostruzione dall’interno, di invenzione di nuove forme di convivenza fu data anche dall’irrompere sulla scena politica e sociale di ceti e gruppi che fin allora ne erano stati esclusi come le donne, i contadini, mobilitati attorno a una nuova legislazione agraria (i decreti Gullo) che ribaltava i rapporti di forza nella campagne. Si mise così in moto un processo che riportò la Sicilia a dialogare con il resto del paese, ad aprire un confronto con quelle altre esperienze e progetti di democrazia che si stavano svolgendo al di là del fronte che per due lunghi anni aveva diviso l’Italia. Molto ci fu da prendere da quelle esperienze, e per esse fu reso disponibile un importante patrimonio politico e culturale che arrivò da noi per il tramite dei grandi partiti, veri canali di comunicazione e di dialogo per tutta la società nazionale.

Battuto il separatismo, in Sicilia intanto si stava elaborando un originale progetto di autonomia regionale, inteso come strumento di dialogo con la società nazionale, destinato ad essere un elemento integrante della Carta costituzionale. Oggi a noi tocca ricostruire con attenzione ed equilibrio i diversi aspetti della storia di quegli anni, contraddittori, come sempre, con una forte conflittualità, spintasi talvolta fino all’assassinio e alla strage, prezzo pesantissimo pagato perché si aprisse una stagione nuova. Dalla regione arretrata venne certamente una forte attenzione ai problemi dello sviluppo e alla solidarietà tra le varie parti del paese per promuovere una democrazia delle opportunità.



* Università di Catania.

1 L’elenco sarebbe molto lungo, ma sicuramente alcune opere vanno citate per fornire alcuni punti di riferimento in ordine alle date di pubblicazione. Per quanto riguarda i documenti ufficiali si vedano C. R. S. Harris, Allied Military Administration of Italy. 1943 – 1945, London HMSO, 1957; U. S. State Department, Foreign Relations of the United States, Washington D. C. pubblicazioni annuali a partire dal 1958; U. S. State Department, Foreign Relations of the United States, Washington D. C. pubblicazioni annuali a partire dal 1958; L. Woodward, British Foreign Policy in World War II, London, HMSO, 3voll. 1962 – 1976; H. L. Coles – A. K. Weinberg, Civil Affairs: Soldiers become governors. The U.S. Army in World War II, Washington D. C., 1964; A. N. Garland – H. McGaw Smith, Sicily and surrender of Italy, 1943 – 1945, Washington D. C. 1965; U S, State Department, The Conferences of Washington, 1941 – 1942, and Casablanca, 1943, Washington D.C., 1968.Con lo stesso intento di segnare le date di pubblicazione mi limito a prelevare alcun i titoli che maggiormente ricorrono nelle rievocazioni della battaglia di Sicilia anche dal campo della memorialistica, che è molto vasto: D. D. Eisenhower, Crociata in Europa, Milano,1949; .B. L. Momtgomery, Da El Alamein al fiume Sangro, Milano, 1950; A. Alexander, Le memorie 1940 – 1945, Milano, 1963. Oltre alla monumentale opera sulla guerra di W. S. Churchill, La seconda guerra mondiale, Milano, 1948 – 1953; B. Lidell Hart, La seconda guerra mondiale, Milano 1970.

2 Non sono molti i film americani che riguardano la battaglia per la Sicilia, ma tra quelli che meglio hanno elaborato il mito di guerra americano alcuni trattano anche la vicenda siciliana, per es. il fondamentale All’inferno e ritorno tratto dall’ancora più importante omonimo romanzo autobiografico di Audie Murphy (il soldato più decorato dell’esercito degli Stati Uniti), ed. it .Milano 1955; un altro film da ricordare è Il grande uno rosso.

3 Il colonnello tedesco Schmalz inviò dispacci fin dall’11 luglio ai suoi comandi e a quelli italiani in cui addossava la colpa agli italiani. Si veda A. Santoni, Le operazioni in Sicilia e in Calabria (luglio – settembre 1943), Stato maggiore dell’Esercito. Ufficio storico, Roma, 1983, pp. 248 e segg.

4 Successivamente riproposte con il titolo Da palazzo Venezia al lago di Garda, Bologna, 1957.

5 G. Zanussi, Guerra e catastrofe dell’Italia, 2 voll. Roma, 1945 – 1946; F.Rossi, Come arrivammo all’armistizio, Milano, 1946. Ma cfr. anche G. Castellanno, Come firmai l’armistizio di Cassibile, Milano, 1945.

6 Milano, 1946. Roatta fu tra i militari aderenti alla RSI arrestati e processati nel dopoguerra, fu protagonista di una fuga clamorosa dalla clinica nella quale era detenuto per ragioni di salute. L’episodio provocò violente proteste popolari con una vittima e un ampio dibattito, cfr. R. Canosa, Storia dell’epurazione in Italia, Milano 1999, pp. 133 e ss. e 149 e ss. Si veda anche M. Dindi, La lunga liberazione, Roma, 1999, pp. 32 – 33.

7 Modena, 1947; un’altra interessate memoria è quella dell’allora tenente S. Lauritano, La caduta della Sicilia e i Siciliani, Messina, 1948. Nel 19..sarebbe apparso il bel libro di G. Chiesura, Sicilia 1943, ora edito da Sellerio, Palermo, 1993.

8 A. Trizzino, Navi e poltrone, Milano, 1953; dello stesso Autore, Settembre nero, Milano, 1959 e Gli amici dei nemici, Milano, 1959.

9 Sugli episodi specifici e sul contesto generale si veda S. Lanaro, Storia della Repubblica italiana, Venezia 1992. Si veda inoltre, M. G. Rossi, Una democrazia a rischio. Politica e conflitto sociale negli anni della guerra fredda, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. I, La costruzione della democrazia, a cura di F. Barbagallo, Torino, 1994; P. Soddu, L’Italia del dopoguerra. 1947 - 1953, Roma, 1998;

10 A. Guzzoni, Il ministro non risponde, “Il Borghese”, 31 dicembre 1954; E. Faldella, Lo sbarco la difesa della Sicilia, Roma, 1956; G. Santoro, L’aeronautica italiana nella seconda guerra mondiale, vol. II, Roma, 1957; M. A. Bragadin, Che ha fatto la Marina? Milano, 1955; A. Iachino, Tramonto di una grande Marina, Milano, 1959. Da segnalare anche l’opera di più generale impianto del Faldella, L’Italia e la seconda guerra mondiale. Revisione e giudizi, Bologna, 1967.

11 Prefazione a E. Faldella, Lo sbarco e la difesa della Sicilia, cit. p. IX.

12 E. Faldella, Lo sbarco e la difesa della Sicilia, cit., p. 61.

13 Ibidem, p 33. Faldella riporta la discussione secondo il Verbale della riunione con il capo di Stato maggiore generale il 12 maggio 1943, (ora in SME Ufficio storico, Verbali delle riunioni, cit., pp. 103 – 132). Nel suo ruolo di difensore dei comandi dell’Esercito mette in rilievo la infondatezza delle previsioni dell’Aeronautica, secondo le dichiarazioni rese dal suo capo di stato maggiore generale Foguez nel corso della riunione. Foguez descrisse un sistema integrato di difesa che comprendeva anche la Sardegna e la parte meridionale della Penisola: “Se l’azione si limitasse alla sola Sicilia, posso dire che le nostre forze aeree, data la possibilità di far massa sono ragguardevoli. E del resto anche le forze locali della Sicilia sono notevoli. In sintesi abbiamo la possibilità di contrastare efficacemente lo sbarco”. “Questa affermazione, continua Faldella, fatta dopo che il generale Roatta aveva premesso che le truppe costiere avrebbero potuto ostacolare lo sbarco soltanto se le forze aeree contrapposte fossero state equivalenti, assumeva particolare importanza”.

14 A, Iachino, Il tramonto di una grande marina, op. cit., p. 12. Le sottolineature sono mie.

15 Dal 1962 ha inizio la pubblicazione di opere che tentano una lettura della vicenda siciliana per così dire collocata all’interno della cultura repubblicana, contraddistinte da una forte attenzione per le vicende politiche successive, fino alla nascita della Regione autonoma. Tuttavia restano per lo più fortemente influenzate dalla produzione precedente,. Il tema della liberazione mafiosa viene assunto come un tema centrale e rielaborato in particolare da Pantaleone. Si veda: F. Gaia, L’esercito della lupara, Milano, 1962; M. Pantaleone, Mafia e politica, Torino 1962; S. Di Matteo, Anni roventi. La Sicilia dal 1943 al 1947, Palermo 1967.

16 G. Zingali, L’invasione della Sicilia (1943), Catania, 1962, p. 116.

17 Faldella, Lo sbarco e la difesa della Sicilia, p. 58.

18 IL testo del proclama è citato in quasi tutti i libri che parlano dell’occupazione della Sicilia, io ho sott’occhio G. Zingali, L’invasione della Sicilia, op. cit., p. 77. Zingali, era professore universitario, ex segretario federale di Catania, richiamato durante la guerra a ricoprire la carica di presidente del Consiglio dell’economia corporativa, rimase colpito da questo manifesto al punto da “pensare di raccoglierlo per la storia futura staccandolo dalla pubblica cantonata in cui era affisso”; vi leggeva una contrapposizione tra italiani e siciliani “che poneva in ballo la stessa unità della patria”. Per lo stesso motivo il proclama sarebbe stato ritirato subito dalla circolazione, vietata la riproduzione sulla stampa. E’ questa l’interpretazione che si è consolidata nella memorialistica e nella letteratura alla luce della successiva esplosione separatista, ma che nasconde le reali cause del conflitto, o meglio dà al conflitto un senso in un contesto differente da quello in cui esso era nato. Anche il ben più radicale fascista Alfredo Cucco, nelle memorie scritte nel dopoguerra vi avrebbe letto una forma di discriminazione che “implicitamente pronunciava la prima parola autorizzante il nascere di un autonomismo siciliano Sia Cucco che Zingali, scrivevano in una fase successiva, quando il separatismo si era già manifestato come protesta delle classi dirigenti più conservatrici e sembrava aver dato orizzonte alla crisi di consenso che aveva travagliato la società siciliana negli anni della guerra A. Cucco, Non volevamo perdere, cit., pp. 180 – 181. Era stato il fondatore dei fasci palermitani e il capo del fascismo siciliano, oi l’accusa infamante di collusione con la mafia formulata da Mori, la caduta, i processi, infine la riabilitazione. Cfr C. Duggan, La mafia durante il fascismo, Soveria Mannelli, 1986; S. Lupo, L’utopia totalitaria del fascismo, cit. e ora Id, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Roma, 2000, pp 179 e ss, 431 e ss.


19 Per una autodifesa di Roatta, Otto milioni di baionette, Milano, 1946, pp. 251 – 252; anche Faldella assume una difesa del proclama: “Nell’ambiente in quei tempi particolarmente sensibile non fu tenuto conto che il vocabolo militari escludeva l’intenzione [di discriminare], d’altra parte inconcepibile”, p. 35.

20 La documentazione in Archivio Centrale di Stato, Roma, Presidenza del Consiglio, 1940 /’41 / 2 / 22355, Allontanamento dalla Sicilia dei funzionari nativi dell’isola. Portatore delle lamentele della popolazione fu il segretario federale del PNF di Caltanissetta presente al “Rapporto al duce” del gennaio 1942. Cfr. Rapporto al duce. Il testo stenografico inedito dei colloqui tra i federali e Mussolini nel 1942, a cura di G. B. Guerri, Milano, 1978, pp. 61 – 66.

21 Il discorso di Mussolini in Rapporto al duce, cit., pp. 70 - 71. L’unico a tentare di dare una spiegazione di questo provvedimento è Zingali, il quale lo attribuisce a una precisa richiesta dei tedeschi, già allora presenti nell’isola con alcuni reparti dell’aviazione, convinti che nei gangli dell’amministrazione siciliana si nascondessero spie e sabotatori, cfr L’invasione della Sicilia, cit. pp. 70 – 74. Cfr. S. Lupo, Blocco agrario e crisi in Sicilia tra le due guerre, cit., pp. 198 199.

22 D. Grandi, 25 luglio, quarant’anni dopo, a cura di De Felice R., Bologna, 1983, p. 352.

23 Si veda R. De Felice, Mussolini l’alleato, t. II, Crisi e agonia del regime, p. 813; De Felice insiste molto sulle decisioni contraddittorie che caratterizzarono l’ultima fase del fascismo fino a determinare una sorta di paralisi.

24 Una prima ricerca è quella di Marzia Andretta, La mafia corleonese e la sua continuità, in L’associazionismo a Corleone. Un’inchiesta storica e sociologica, a cura di Titti Morello e Paolo Viola, CD – Rom a cura dell’Istituto Gramsci siciliano, Palermo, 2004.

25 Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, V legislatura, documenti XXIII, n. 2 – quarter, Commissione parlamentare d’Inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, voll. I, II, III, IV, Relazione sull’indagine riguardante casi di singoli mafiosi, Cenni biografici su Michele Navarra,

26 Si veda E. Apih, Italia, fascismo e antifascismo nella Venezia Giulia(1918 – 1943), Bari. 1966, pp. 424 – 5; T. Sala, La seconda guerra mondiale, in. Il Friuli - Venezia Giulia, a cura di R. Finzi, C. Magris, G. Miccoli, t. I, Torino, 2002, p.557.

27 A. Cucco, Non volevamo perdere, cit., p 76 che apprezza Guzzoni come più diplomatico e dotato di buon senso; la fama di diplomatico è enfatizzata da E. Faldella, 1943. Lo sbarco e la difesa della Sicilia, cit., pp. 65 ss. Sulle misure prese dall’esercito per rincuorare la popolazione si veda anche R. Morretta, Sicilia 1943, Rosolini, 1975.

28 R. Romeo, In marcia verso il disastro, “il Giornale”, 5 giugno 1980, ora in Gli scritti. Scritti storici, 1951 – 1987, Milano 1990, pp. 383 – 6 ; R. Romeo, La Marina faceva un po’ acqua, “il Giornale”, 21 giugno 1980, ora in Gli scritti. Scritti storici, 1951 – 1987, Milano 1990, pp. 386 –7.

29 Una puntuale ricostruzione in F. Pezzino, La guerra e l’estinzione del fascismo a Catania, in AA. VV., Catania tra guerra e dopoguerra (1939 – 1947), Catania, 1983, pp. 180 – 183 – 185 e segg.





PROLUSIONE - 4 febbraio 2005
- Oscar Luigi Scàlfaro

BARI - 11 febbraio 2005
- Luciano Canfora
- Luigi Masella
- Vito Antonio Leuzzi

NAPOLI - 16 febbraio 2005
- Francesco Paolo Casavola
- Guido D'Agostino
- Paolo De Marco
- Isabella Insolvibile


  CATANIA - 22 febbraio 05
  - Giuseppe Barone

 Rosario Mangiameli

  - Salvatore Lupo


ROMA - 3 marzo 2005
- Claudio Pavone
- Alessandro Portelli

CAGLIARI - 7 marzo 2005
- Manlio Brigaglia
- Giangiacomo Ortu

BOLOGNA - 9 marzo 2005
- Luciano Casali
- Antonio Parisella

PADOVA - 14 marzo 2005
- Angelo Ventura
- Emilio Franzina

TORINO - 16 marzo 2005
- Gianni Oliva
- Claudio Dellavalle

FIRENZE - 17 marzo 2005
- Michele Battini
- Ivano Tognarini

GENOVA - 17 marzo 2005
- M. Elisabetta Tonizzi
- Antonio Gibelli

TRIESTE - 19 marzo 2005
- Raoul Pupo
foto d'archivio
carte storiche
- Enzo Collotti

MILANO - 22 marzo 2005
- Mariuccia Salvati
- Claudio Dellavalle
- Gianni Perona



 
 
 
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