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Il cammino della libertà e della democrazia: 1945-2005
Francesco Paolo Casavola
Il
25 aprile ricordiamo nel calendario delle feste civili della
Repubblica la Liberazione. Se invece di pronunziare l’espulsione
di rito “festa della Liberazione” isoliamo l’epesegetico,
la Liberazione rivela tutta la problematicità del suo
significato. Con lo scorrere del tempo, le generazioni che non hanno
potuto sperimentare il vissuto di quei giorni ormai lontani, sono
prive di una intuizione globale e immediata di quanto quella parola
contiene in sé. E’ perciò un dovere civile per
quelli cui la vita ha consentito di unire quel tempo all’età
dei nostri più giovani concittadini di oggi di spiegare che
cosa significò quella parola quanto fu coniata e cominciò
ad essere usata. Innanzi tutto a mano a mano che la V Armata
americana e l’VIII Armata britannica risalivano la penisola
rispettivamente lungo il versante tirrenico e quello adriatico il
territorio che lasciavano dietro di sé era indicato come
Italia liberata. Liberata dalle truppe naziste ad opera degli
Alleati, ch’erano dalle popolazioni acclamati come liberatori.
Un primo paradosso: Liberator si chiamava il bombardiere
pesante americano che in centinaia di esemplari oscurava i cieli
delle nostre città che ne restavano devastate, e pure nei
rifugi antiaerei ciascuno temeva per la propria morte ma non odiava
quegli aviatori che potevano da un istante all’altro
determinarla. Viceversa nell’Italia occupata le popolazioni
civili avevano paura dei tedeschi e dei fascisti, malgrado i tedeschi
fossero stati nostri alleati fino all’armistizio dell’8
settembre 1943, e i fascisti fossero stati nella stragrande
maggioranza gli italiani fino al 25 luglio di quello stesso anno,
data della deposizione di Mussolini e sua sostituzione con il
maresciallo Badoglio. Una profonda crisi politica passava in quei
mesi dagli eventi nelle coscienze individuali e si faceva crisi
psicologica e morale. Senza un’adeguata rilevazione del pathos
con cui le esistenze delle generazioni italiane attraversarono le
drammatiche vicende degli ultimi anni della guerra, ch’era
iniziata nel 1940, non si ha una piena comprensione della esplosione
catartica, davvero una liberazione, che salutò la fine delle
operazioni di guerra in Italia. Gli storici che non hanno convissuto
con i fatti che rimettono razionalmente in ordine, ma che dispongano
solo delle loro tracce documentali, da diari privati ad atti
ufficiali, per indicare solo le tipologie che racchiudono una estesa
gamma di fonti, non riusciranno a restituire la realtà emotiva
e cioè compiutamente umana di accadimenti che la crescente
lontananza nel tempo irrigidisce in fredde e parziali tesi
interpretative. La Liberazione non è soltanto il punto di
conclusione della guerra in Italia. Se fosse solo questo ne sarebbero
protagonisti soprattutto gli anglo-americani. Nel nord-Italia la
resistenza contro i tedeschi e il governo della Repubblica fascista
era guidata da un Comitato di Liberazione. La Liberazione era stata
dunque, prima del 25 aprile del 1945, una meta da raggiungere
attraverso una dura lotta non solo contro lo straniero ma nello
scontro tra italiani. La storiografia cosiddetta revisionista sembra
scoprire nella Resistenza la guerra civile. Chi ha vissuto tra
infanzia e adolescenza a nord della linea Gustav e poi a nord della
linea Gotica dall’inverno 1943-1944 alla primavera del 1945 non
ha avuto bisogno di leggere dai libri che fu guerra civile. Non si
dia alcuna valutazione negativa a questa espressione. Gli Stati Uniti
d’America, negli stessi anni 1860-1865 in cui nell’Italia
meridionale si combatteva contro il brigantaggio, ebbero la guerra di
secessione tra nordisti e sudisti. Ogni guerra tra connazionali è
guerra civile. Ma il bilancio del giudizio storico va fatto con le
poste giuste. La Resistenza si batteva per un ideale di liberazione
da un regime che aveva fatto precipitare il Paese nel baratro del
secondo conflitto mondiale. La Repubblica dei fascisti, ostaggio
della Germania nazista, continuava il massacro inutile di una guerra
già, nella convinzione finanche dei tedeschi, del tutto
perduta. Come dire chi si batteva consapevolmente e volontariamente,
in condizioni impari per numero e per armamento, per un avvenire di
libertà fortemente voluto, e chi si batteva con la copertura
delle forze germaniche e per obbligo di Stato per andare verso il
disastro. Nelle guerre civili potranno contarsi eroi e martiri da una
parte e dall’altra, ma non si potranno considerare equivalenti
le scelte giuste e le scelte sbagliate. Ci furono nelle stesse
famiglie fratelli che andarono nella resistenza e fratelli che si
arruolavano nell’esercito fascista. Divisione drammatica, che
basta da sola a simboleggiare il contributo italiano e perciò
non solo anglo-americano alla Liberazione. Perché lo strazio
degli affetti familiari sacrificati nella divisione dell’odio
politico è il prezzo più pesante in ogni lotta tra
uomini, che si aggiunge al numero dei morti in combattimento, dei
fucilati e torturati, degli innocenti civili vecchi, donne, bambini,
preti uccisi in massa in azioni di rappresaglia. Certo, si può
e anzi si deve analizzare le tante cause di scelte sbagliate, da una
concezione tragica dell’onore militare che spinse molti a
restare a fianco dell’alleato germanico alla paura delle
sanzioni per diserzioni o resistenza alla leva, da una ostinata
fedeltà agli ideali politici del fascismo alla incomprensione
altrettanto cieca nelle opposte ragioni di un antifascismo condiviso
da cattolici, comunisti, liberali, o semplicemente monarchici. Le
scelte personali sono rievocabili più nell’arte di
un’opera narrativa o di un film (a questo proposito non va
dimenticato “Roma, città aperta” di Rossellini,
girato proprio nel 1945, dopo la liberazione della capitale) che non
nei libri degli storici. Ma a decidere tra scelte giuste e scelte
sbagliate non vale, non deve valere, il criterio estrinseco di chi ha
vinto e di chi ha perduto. Il revisionismo, che dovrebbe essere
alimento di ogni progresso storiografico, diventa esperimento
polemico se si dedica a difendere le cause dei vinti. Non l’esito,
ma il fine porta a distinguere tra le scelte. E accanto al
protagonismo delle persone occorre saper ascoltare quello del popolo,
nell’accezione tolstoiana impiegata nella meditazione
conclusiva di Guerra e Pace. Il popolo seppe distinguere tra
Liberazione e il suo contrario.
La
mia generazione ricorda ancora come si estraniarono italiani e
tedeschi nel settembre del 1943. Tolte le eccezioni legate al mondo
interpersonale, i sentimenti collettivi furono netti. I tedeschi
riconobbero nell’armistizio italiano la vocazione storica degli
italiani al tradimento. Esistono nella tradizione dei popoli esiti di
psicologia collettiva nati da eventi che pur avrebbero dovuto essere
cancellati nella loro contingenza. Il ricordo del passaggio
dell’Italia dalla Triplice Alleanza alla Intesa, con la
dichiarazione di neutralità dell’agosto 1914, era ancora
tenace nell’anima tedesca. Così come per converso la
prima guerra mondiale combattuta dagli italiani contro gli
austro-tedeschi a completamento dell’indipendenza nazionale
nella liberazione delle terre irredente al confine nord-orientale,
fece subito rivivere alla vista delle divise e bandiere delle truppe
germaniche che scendevano dal Brennero ad occupare l’Italia
l’immagine del nemico storico. Gl’italiani malgrado la
propaganda fascista (tra le canzoni del tempo di guerra trasmesse
dall’EIAR ricorderò Camerata Richard benvenuto),
non avevano mai fino in fondo accettato l’alleanza con la
Germania nazista.
Se
non ostilità, il distacco manifestato coralmente dalle
popolazioni rivelò finalmente con spontaneità e
sincerità (anche questo era liberazione) un sentimento
represso dal regime, di cui taluni esponenti, come Galeazzo Ciano,
erano peraltro anch’essi partecipi. Di fronte a questo popolare
sentimento antitedesco, i fascisti apparvero, schierati accanto ai
germanici, come non più integrati nella nostra comune
nazionalità Dei fascisti si cominciò a temere come e
più dei tedeschi. La percezione della nazione divisa non solo
nel territorio e nell’ordinamento dello Stato, il Regno
d’Italia nel sud, la Repubblica Sociale nel nord, ma anche tra
concittadini, fascisti e antifascisti, attraversò tutti i ceti
sociali dalla borghesia al proletariato, nelle città e nelle
campagne. Ma non era la morte della Patria, come pure oggi si
teorizza a distanza. La frustrazione della sconfitta verrà
dopo. Altrimenti non si sarebbe potuto combattere nella Resistenza e
non si sarebbe potuto dare un contenuto ideale alla Liberazione. La
Patria, ciascuno sperava di rivederla, insieme con la propria
sopravvivenza, di nuovo unita da nord a sud, e magari rinnovata come
Repubblica, in luogo della monarchia risorgimentale, con un
Parlamento democratico, con libertà di opinioni politiche
nella stampa e nei partiti, con gli stranieri fuori dai nostri
confini, non solo i tedeschi, ma anche gli alleati. La Liberazione fu
anche questo, sogno di una Patria pacifica e non bellicosa, cittadini
non oppressi dalla censura, da delatori della polizia politica, da
Tribunali speciali, da discriminazioni razziali, da imposizioni
culturali xenofobe, da deliranti esaltazioni nazionalistiche.
Liberazione significa fine dell’incubo totalitario «tutto
nello Stato, nulla fuori o contro lo Stato». La Liberazione
apriva la via ad una costituzione democratica in cui i valori
fondamentali fossero quelli della persona umana e della società
in cui la persona si realizza, mentre lo Stato è lo strumento
ordinato a riconoscerli, proteggerli e promuoverli. Il cammino della
Liberazione a partire dal 1945 ha queste tappe: 1946 la Repubblica e
la Costituente; 1948 la Costituzione; il decennio 1950 la
Ricostruzione; il decennio ’60 il miracolo economico; il
decennio ’70 gli anni di piombo; il decennio ’80 la crisi
della partitocrazia; il decennio ’90 la transizione
costituzionale. Perché intitolare tante e diverse fasi della
storia repubblicana alla Liberazione? Non certo soltanto per la
banale considerazione che senza l’uscita dell’Italia dal
fascismo e dalla guerra la sequenza storica successiva non sarebbe
stata possibile. Piuttosto perché quei decenni in cui abbiamo
schematizzato la distanza dei nostri giorni da quelli della
Liberazione si caratterizzano per un diverso rapporto dialettico con
lo spirito della Liberazione. Costituzione, ricostituzione e sviluppo
del Paese sono inveramento dei sogni e progetti di quanti vissero la
lotta e la vittoria della Liberazione per una società più
libera e prospera e moderna. Gli anni della contestazione studentesca
e poi del terrorismo stragista a destra e brigatista a sinistra sono
il segno di una eclissi dello spirito della Liberazione nell’animare
una nuova politica di collaborazione tra le classi e i partiti che
fino ad allora le avevano rappresentate. Freni derivanti dalle
tensioni internazionali tra Unione Sovietica e Stati Uniti d’America,
istanze di emancipazione dei gruppi sociali che andavano mutando la
morfologia della società senza più confini certi tra
proletariato contadino ed operaio e ceti medi, investendo le
strutture della famiglia e del matrimonio, e sollecitando
rivendicazioni femministiche e giovanili, non trovavano risposte in
un establishment che paventando il collasso delle istituzioni
cercava protezione in solidarietà occulte di lobbies o
di legge massoniche mentre in parallelo si organizzavano e operavano
i gruppi clandestini dell’eversione. Lo spirito della
Liberazione ebbe ragione alla fine di quel decennio tragico che ebbe
le centinaia di assassinati dai terroristi tra i quali Moro e
Bachelet, per l’isolamento in cui i cittadini e i lavoratori
abbandonarono stragisti e brigatisti senza farsene né
suggestionare né intimorire e per la fermezza con cui i
partiti di governo e di opposizione reagirono dinanzi ai ricatti
estremi dei terroristi. A guardar bene anche quella fu, con modalità
inedite, una cruenta lotta di liberazione.
Negli
anni ’80 la Repubblica dei partiti cominciò ad accusare
una crisi di rappresentanza democratica. Le si andava contrapponendo
una Repubblica dei cittadini, che evidentemente non si rispecchiavano
più nei partiti che avevano espresso i Comitati di Liberazione
Nazionale e l’Assemblea costituente e i Governi e i Parlamenti
delle legislature repubblicane. Dietro quelle rappresentanze non
c’erano più le classi dirigenti che avevano avuto leader
protagonisti della lotta antifascista e poi delle politiche
economiche e sociali della ricostruzione del decennio ’50 e
dello sviluppo del decennio ’60. Mentre si imputavano le
insufficienze dei partiti alla Costituzione del 1948 e si cercavano
modelli di riforma della forma dello Stato e di governo, scoppiava la
questione morale sulla dilagante corruzione politico-amministrativa.
Tangentopoli dava inizio alla decapitazione di un intero ceto
parlamentare e di governo mentre le commissioni bicamerali della IX,
XI, e, negli anni ’90, della XII legislatura concludevano senza
un nulla di fatto i loro lavori di progetti di revisione
costituzionale. Lo scioglimento formale di partiti di massa che
avevano accompagnato l’evoluzione politica del Paese,
Democrazia Cristiana, Partito Socialista Italiano, Partito Comunista
Italiano, segna, secondo una convenzione ormai acquisita da storici,
politologi, politici e mass-media, la fine della I Repubblica. La
incerta transizione costituzionale si aggrava nella presente XIV
legislatura con una revisione che appartiene alla volontà
della sola maggioranza di governo. L’ora presente è la
più grave che il Paese vive dopo quel giorno della Liberazione
di sessanta anni fa.
In
più i problemi della vita italiana non sono più
prospettabili e risolvibili sulla lavagna delle questioni nazionali.
Siamo nel contesto di una costituzione europea; siamo in un processo
di globalizzazione dell’economia; attraversiamo una fase di
grande disordine internazionale con un terrorismo fondamentalista
islamico diffuso in ogni continente, con la Organizzazione delle
Nazioni Unite che stenta a realizzare i suoi fini statuari a
cominciare da quello di prevenire o sedare il flagello delle guerre;
condividiamo con tutti i paesi della terra i pericoli derivanti
dall’aggravarsi delle alterazioni climatiche e degli squilibri
ecologici; siamo un territorio di sbarco e di insediamento per flussi
immigratori da paesi poveri dell’Asia e dell’Africa; la
vita sociale è angustiata dai dilemmi della bioetica,
insidiata dalla criminalità organizzata, dalla devianza
minorile, resa insicura dalla precarietà del lavoro e dalla
emigrazione di capitali e imprese all’estero.
Lo
spirito della Liberazione che fu sogno e progetto di futuro dopo gli
odi e le lotte per vincere il passato sembra smarrirsi nella
complessità dei fattori in campo in ogni parte del nostro
orizzonte.
Occorre
oggi dotarsi di conoscenze e di fantasia operativa per affrontare
come cittadini consapevoli delle proprie libertà
costituzionali e dei propri diritti le difficoltà che nei
sessanta anni trascorsi erano riservate ai partiti, alla burocrazia,
alla mano pubblica. Liberazione vuol forse significare nel secolo
nuovo cittadinanza attiva non solo nel dare investitura alla
rappresentanza democratica ma anche nell’esercitare a sussidio
delle istituzioni ogni iniziativa utile al bene comune e alla pace.
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