|
Società e storia: note per una storia della democrazia in Italia
Claudio Dellavalle
Queste
note muovono dalla convinzione che l’esperienza della guerra di
liberazione 1943-1945 abbia comportato, tra le molte implicazioni e
conseguenze di natura politica, un apporto sostanziale alla
ridefinizione di quella che possiamo chiamare la memoria storica e
l’elaborazione di una moralità collettiva, su livelli di
coinvolgimento impensabili nell’Italia prefascista. Come questo
processo si sia prodotto è stato studiato da molti, da molte
angolazioni e, ad esempio, elaborato ad un livello straordinariamente
aperto dalle migliori intelligenze che questo paese abbia prodotto
per quanto riguarda i concetti di libertà, di democrazia,
della stessa politica intesa nel senso più alto di ricerca
individuale e collettiva del bene comune. Le radici di questo
processo nel suo farsi, negli anni del ferro e del fuoco, ha trovato
nel lavoro di Claudio Pavone il punto di elaborazione insieme più
complesso e finora più completo, come esattamente indica il
sottotitolo: Saggio sulla moralità della resistenza.
Nell’intervento programmato per oggi Claudio Pavone avrebbe
voluto portare la sua riflessione su come quell’idea di
moralità abbia trovato cittadinanza e applicazione negli anni
successivi alla liberazione e fino ai nostri giorni. Ci dispiace
quindi che non possa essere oggi con noi perché la sua
relazione ci avrebbe certamente arricchiti per la sua capacità
di guardare lontano e in profondità, sempre lucido e insieme
motivato da una passione civile che ha come solo limite l‘attesa
della verità.
Non
tenterò neppure con questo mio intervento di supplire ad una
riflessione di questo impegno. Ma poiché siamo alla
conclusione del percorso con cui abbiamo voluto onorare e ricordare
il Sessantesimo della liberazione, senza nessuna pretesa di
sistematicità, cercherò di attivare qualche
ragionamento e qualche domanda su un passato, che, usando una felice
definizione applicata ad analoghe riflessione dalla storiografia
tedesca, non passa e ci ripresenta questioni e domande a cui non si
possono dare risposte conclusive, ma che ci spingono a interrogare il
proprio tempo.
Questi
ragionamenti muovono dall’interno della vicenda resistenziale,
ma guardano al dopo, riprendendo una serie di questioni che si posero
nel corso stesso della guerra e, una volta riconquistata la libertà,
si posero ad un paese che si interrogava sul suo futuro. Questi
ragionamenti insistono su un sentire comune e diffuso, generale,
anche se più forte nei paesi che avevano sperimentato
l’occupazione nazista, di essere passati attraverso
un’esperienza così radicale da rimettere in discussione
i riferimenti abituali di pensare se stessi e gli altri.
Un’esperienza che coinvolgeva élite intellettuali, ma in
una misura inusitata e assolutamente non comparabile con altre
esperienze del passato, masse di milioni di uomini e donne. La guerra
totale aveva prodotto, e non poteva essere diversamente, una domanda
di senso poiché era stata rimessa in discussione alla radice
l’idea di convivenza civile, proprio nel punto in cui si
riteneva che avesse raggiunto il massimo di elaborazione nella
storia.
Una
ferita profonda di cui le macerie che ricoprono le città, i
simboli della cultura occidentale, sono solo l’aspetto
esteriore di una rottura culturale che venne elaborata dalle correnti
filosofiche del tempo, cioè dalle intelligenze più
acute nelle forme di una crisi esistenziale prodotta dall’angoscia
della deprivazione del futuro, ma, e questo è l’elemento
di novità che voglio richiamare, una ferita che arrivò
ai sentimenti profondi di ogni persona capace di pensiero. Un ferita
per chiunque avesse sperimentato, ed era la stragrande maggioranza,
gli effetti della guerra totale, per chiunque fosse stato sfiorato
dall’invasività di una violenza che non riconosceva
confini tra la dimensione militare e la dimensione civile e che era
diventata esperienza quotidiana di milioni di individui. Ciò
che si brucia nella violenza esercitata senza limiti nei confronti
dei civili, a partire dall’invasione dei territori russi
nell’agosto 1941 e per i quattro lunghi anni che seguono in
tutti i teatri di guerra in Europa, in Asia, in Africa è il
concetto stesso di civiltà e di convivenza civile. E’ da
questo retroterra profondo, incardinato nell’esperienza di
milioni di persone che si definisce l’idea della fine della
guerra come liberazione, cioè come uscita da una condizione di
oppressione, da una condizione umanamente insopportabile. Quest’idea,
che si fa aspettativa e speranza, si porta dietro due concetti
importanti: l’uno, l’antifascismo deriva dall’alleanza
che ha combattuto Mussolini e Hitler, e si configura come l’impegno
a impedire che si riproducano rischi per la libertà appena
riconquistata. E’ una categoria ambigua e verrà usata in
modo strumentale da chi ( è il caso di Stalin, ma non sarà
il solo) non associa strettamente il rifiuto del fascismo e del
nazismo al concetto di libertà e di salvaguardia dei diritti
dell’individuo. Il secondo concetto è dato dal rifiuto
della guerra come strumento di definizione dei contrasti
internazionali. E’ un concetto che nell’Europa liberata
dalla minaccia nazista avrà ricadute importanti, ad esempio
nei progetti di costruzione dell’Europa unita. I due concetti
avranno storie diverse e si intrecceranno con i sommovimenti epocali
del dopoguerra, come i movimenti di liberazione dall’assoggettamento
coloniale. Non proveremo neppure ad avvicinare problemi di questa
portata, che sono stati richiamati solo per far cogliere la
dimensione generale delle questioni che riguardano anche il nostro
paese. Proveremo invece a riprendere alcuni, pochi punti che
riguardano le modalità con cui l’Italia viene liberata e
si libera e quali elementi concorrano alla definizione della
convivenza civile in un paese prostrato dalla guerra.
Per
l’Italia il processo di liberazione ha due momenti: uno esterno
determinato dall’avanzata delle truppe alleate lungo la
penisola, uno interno dovuto all’attività del movimento
partigiano nei territori occupati dai tedeschi. I due momenti sono
interdipendenti ed è chiaro che senza il primo, il secondo non
avrebbe alcuna possibilità di successo. Questo dato di fatto
ha portato alcuni a giudizi fortemente riduttivi del valore della
resistenza italiana, come se il limite sul piano dell’efficienza
militare, certamente non comparabile con quella di un esercito
regolare, si traducesse direttamente in un limite dell’intera
esperienza. A parte il fatto che il riconoscimento del valore della
resistenza italiana anche sul piano militare è venuto in modo
formale dagli stessi eserciti alleati alla fine della guerra, il
punto è che il significato del movimento di resistenza sta
nell’ essere parte del complessivo movimento di liberazione,
parte dello scontro politico, militare, ideologico che contrappone
fascismo e antifascismo in Europa e nel mondo. Nella specifica
situazione italiana questo significato va ricercato anche su altri
piani, non ultimo quello di un paese che portava la responsabilità
storica di aver conosciuto la prima esperienza di un movimento e di
un regime totalitario moderno. Era vitale per il futuro del paese che
dal suo interno prendesse forma un movimento di opposizione che non
si fermasse al rifiuto di principio, ma praticasse la ricerca della
libertà. Questo movimento nel corso del 1943-1945 produsse
un’articolazione complessa di risposte che vanno dalla scelta
armata di quelli che si chiameranno i volontari della libertà,
i partigiani che provengono da ogni componente della società
italiana e che si battono contro tedeschi e fascisti, ai militari
che a sud si battono accanto alle forze alleate negli eserciti
alleati o nel Corpo di liberazione italiano, ai militari che in
Grecia e nei Balcani si oppongono con le armi ai tedeschi e
collaborano con i movimenti di resistenza locali, ai soldati
internati all’8 settembre nei territori controllati dai
tedeschi e che si rifiutano di aderire alle forze armate tedesche e
fasciste. Ma accanto a queste diverse resistenze che hanno comunque a
che fare con la dimensione militare c’è la resistenza
dei politici, degli antifascisti che pagheranno un prezzo alto alla
loro scelta; c’è la resistenza dei civili, la resistenza
senza le armi, che ha una serie complessa di varianti e di forme:
dall’aiuto fornito ai militari italiani sbandati all’8
settembre, ai prigionieri alleati e slavi che fuggono dai campi di
prigionia , agli ebrei perseguitati, ai deportati politici fino alle
manifestazioni di opposizione attraverso gli scioperi, le agitazioni,
le interruzioni dell’attività produttiva che nelle
campagne e soprattutto nelle fabbriche alimenteranno un dissenso
costante e crescente con cui fascisti e tedeschi devono continuamente
fare i conti. Atteggiamenti attivi di resistenza , che comportano
comunque un’esposizione al rischio con costi elevati in
sacrifici e vite umane, e che si alimentano di un dato di fondo che
appartiene alla quasi totalità della popolazione italiana, e
cioè il rifiuto della guerra, di una guerra di conquista
trasformatasi in incubo per tutta la popolazione, coinvolta dai
bombardamenti e dalle violenze che in forma crescente colpiscono i
civili.
Dunque
resistenza armata e resistenza dei civili, con le armi e senza le
armi come è stato detto con felice sintesi. Se non si tengono
insieme questi diversi e complessi elementi si perde il significato
di un’esperienza che invece si rivela fondante per la storia
successiva dell’Italia, perché tra l’una
esperienza e l’altra agisce la politica che cerca di dare senso
e sviluppo a ciò che spesso nasce in forme spontanee,
destinate a breve vita.
Certamente
questo non significa che tutti gli italiani siano allo stesso modo
partecipi di un movimento che in realtà conosce percorsi
differenziati nel tempo, nei luoghi e nei contenuti. Seguendo le
truppe alleate nel movimento da sud a nord, dallo sbarco in Sicilia
del 10 luglio 1943 alle giornate della liberazione del nord
dell’aprile maggio 1945, si può dire che ogni plaga
d’Italia conosce una diversa modalità di riconquista
della libertà. E sperimenta durate diverse del percorso della
liberazione, come il ciclo di lezioni che abbiamo voluto ha
ampiamente documentato. Queste differenze sono state utilizzate per
mettere in discussione il senso complessivo dell’esperienza
resistenziale, esperienza frammentata e quindi riferimento debole per
l’insieme della popolazione italiana, per la quale
risulterebbero molto più significative alcune categorie
ricavabili dalla sua storia secolare di subordinazione ai potenti,
come l’indifferenza per le parti in lotta e la ricerca della
difesa del proprio particolare, individuale o al massimo familiare.
Ma a parte il fatto che per sostenere queste tesi alcuni storici
hanno evitato di utilizzare la stessa documentazione di parte
fascista che testimonia comportamenti e atteggiamenti tutt’altro
che equidistanti da fascismo e antifascismo, il punto da chiarire è
se ciò che drammaticamente si produce nel corpo del paese
durante la guerra, e particolarmente nelle sue fasi conclusive,
comporti o non comporti qualche mutamento nel dopoguerra e negli anni
successivi. Se quella passività richiusa su se stessa che
riguarderebbe la maggioranza degli italiani, è la chiave che
ci consente di decifrare il dopo, gli anni della ricostruzione e in
fin dei conti la storia dell’Italia repubblicana. Perché
se si evidenziano i limiti, le fratture, le discontinuità, che
pure ci furono, noi dovremmo essere di fronte ad un paese allo
sfascio senza risorse né morali né materiali per
ricominciare. Ma la storia ci dà un’immagine diversa.
Malgrado le distruzioni, i drammi collettivi e individuali, malgrado
venti anni di fascismo, malgrado scelte che hanno bruciato una
credibilità internazionale costruita faticosamente dal
Risorgimento in poi, malgrado la povertà fisica e morale che i
film del neorealismo ci restituiscono con cruda lucidità,
questo paese nel giro di pochi anni liquida la monarchia per le sue
collusioni con il fascismo, sperimenta la democrazia, scrive e attua
una carta costituzionale di straordinaria efficacia, ricostruisce il
paese e lo prepara alla più profonda trasformazione della sua
storia. Il tutto mentre conflitti di non piccolo peso lo
attraversano, a cominciare dalla frattura est-ovest che ha ricadute
pesanti per la vita politica interna ed internazionale. Visto a
posteriori un miracolo. Per cui la domanda da porsi è: dove il
paese ha trovato le risorse morali per non ripiegarsi su se stesso?
Dove ha trovato l’orizzonte di speranza per guardare in avanti?
Nella classe dirigente? Certamente la classe dirigente di quegli
anni è notevole, di qualità straordinariamente alta se
comparata con il presente, perché in buona parte selezionata
da un processo durissimo; divisa da obiettivi e opzioni differenti,
come avviene di solito in democrazia, ma tuttavia collegata da
un’esperienza di fondo che produce solidarietà e produce
compromessi positivi. La democrazia è fatta di compromessi Ma
una classe dirigente selezionata non basta da sola, se non è
espressione di qualcosa di più profondo, se non si collega con
attese, sentimenti e appunto speranze di coloro che le si affidano.
Quelli che chiamiamo i valori di democrazia, di libertà, di
pace, i valori alti del dopoguerra, sono maturati nelle esperienze
drammatiche di quelle minoranze, che hanno scelto di battersi, di
mettersi in gioco. Ma gli ideali non bastano se non possono ancorarsi
ad un terreno che li accolga e li faccia crescere: bisogna allora
guardare a quelle parti della società italiana in cui questa
disponibilità si era aperta, quando nel corso della fase più
drammatica della guerra erano nate le attese concrete di un “domani
migliore” per migliaia, per milioni di persone, proprio quelle
che la storia precedente del paese aveva tenuto ai margini, che il
fascismo aveva chiuso dentro i confini delle gerarchie sociali. Sono
quelle componenti che vivono che l’esperienza di lotta durante
la guerra come ricerca della libertà, ma anche come momenti di
emancipazione, di ricerca di cittadinanza di un paese che hanno
contribuito a difendere e a liberare. Forse sta qui il salto che
spiega molti passaggi del dopoguerra e della costruzione della
democrazia in un paese che è stato fascista. Sta nella domanda
politica che si riversa nei partiti di massa, nelle richieste sociali
che alimentano il sindacato, le associazioni che articolano la
società civile, nell’incredibile vivacità della
comunicazione pubblica che caratterizza il dopoguerra. Forse bisogna
provare una volta tanto a guardare questo paese dal basso, per vedere
come la democrazia possa attecchire e crescere e alimentare una
storia che appartiene a tutti noi perché molti, molti di più
di quelli che ci immaginiamo, l’hanno fatta propria. E’
un percorso non facile perché richiede di rimettere in
discussione qualche pregiudizio, qualche lettura di comodo di un
paese che ha una storia complessa e più drammatica di quanto
di solito vogliamo riconoscere. Certamente in tempi di realismo
trionfante è chiedere molto, perché è un gioco
da ragazzi scegliere nel grande movimento generato da quegli anni
intensi e contraddittori qualche pezzo di memoria a cui appiccicare
una ricostruzione di comodo per svalutare quel passato che non
rientra nelle categorie ciniche del presente. Memoria e storia sono
due cose diverse e importanti, ma non vanno disgiunte, vanno tenute
insieme perché solo così ci consentono di capire ciò
che è stato e di guardare avanti. Come ci suggeriscono le
persone che oggi hanno la responsabilità di rappresentare il
nostro Istituto, che qui ringrazio perché con la loro presenza
e la loro esperienza di vita, di una lunga straordinaria vita, ci
hanno insegnato e ci insegnano ancora che cosa significa vivere il
proprio tempo con dignità.
|