|
La guerra ai civili e il nodo della violenza
Michele Battini
La “guerra ai civili” è
divenuta un paradigma del carattere “totale” della ii
guerra mondiale quando la questione della violenza è tornata
ad essere un nervo scoperto nella riflessione sulla Resistenza.
Da poco tempo gli storici hanno
restituito la dimensione di guerra civile alla Resistenza. Gli
scrittori - gli scrittori partigiani o i partigiani divenuti
scrittori - l’avevano immediatamente riconosciuta. Era già
accaduto con il Risorgimento.
Umberto Saba scrisse che tutta la
nostra storia nazionale è impregnata di fratricidio. Roberto
Battaglia, l’autore di una pionieristica Storia della
Resistenza Italiana e assertore convinto della formula
“Resistenza, secondo Risorgimento”, fu il primo a
riconoscere che «quella tra patrioti e austriacanti era stata
una guerra civile”: fratelli contro fratelli. Rosolino Pilo, il
precursore di Garibaldi in Sicilia, non occupò Termini Imerese
per non battersi contro i propri due fratelli, borbonici militanti.
Carlo Pisacane, patriota, rischiò di battersi contro il
fratello Filippo, legittimista e ufficiale di Ferdinando ii, che
Nello Rosselli descrive come “un esempio di coerenza ideale”.
Anche in Spagna la guerra civile
viene ripensata come epilogo di un passato storico fratricida, e in
Francia si allude ad una guerra intestina franco francese che si
riaccende dal 1789 al confronto tra Vichy e Resistenza.
Nel 1943-1945, la guerra civile fu
del resto temuta ma anche invocata ad esempio da Gaetano Salvemini,
che nella Resistenza vide, forse con troppo ottimismo, l’inveramento
del progetto mazziniano di quella guerra d’insurrezione per
bande che il genovese aveva giudicato “la più
conveniente all’Italia”, nonché del sogno dello
stesso Pisacane di fare dei briganti e dei contadini l’esercito
della democrazia, invece che della santa fede. Claudio Pavone prima
ci spiega che la discussione sul Risorgimento e sulla sua tradizione
è stata la matrice delle scelte intellettuali di fascisti e
antifascisti poi, con il suo saggio sulla moralità nella
Resistenza, ne descrive la pluralità delle dimensioni: la
guerra di liberazione dall’occupante nazista, la guerra per la
giustizia sociale, la guerra civile tra fascisti e antifascisti. Si
rileggano le pagine manzoniane del capitolo vii di quel suo saggio -
dedicate alla violenza nel contesto della guerra, alla
violenza dei resistenti e a quella dei fascisti, all’autodisciplina,
al sistema punitivo, alle rappresaglie e alle controrappresaglie:
sono tra le più innovative di tutta la letteratura
storiografica. Quindici anni prima, in Resistenza e storia
d’Italia, Guido Quazza aveva già aperto la
riflessione storiografica sulla violenza, quella fascista, essenza
del regime, e quella collettiva organizzata dal basso in una
potenziale forza insurrezionale, che riceve nutrimento dalla scelta
come spinta esistenziale, magari priva di motivazioni chiare, ma in
cui si esprime il “centro morale di una possibile Italia
nuova”.
La guerra civile, come oggetto di
storia, scaturisce dunque dall’attenzione storica e dalla
preoccupazione etica per l’uso e gli effetti della violenza. A
sua volta la “guerra ai civili”, al centro della recente
successione di studi di una più giovane generazione di
studiosi che non ha avuto il privilegio di quella che i greci
chiamavano «autopsia» è figlia della prima e
dell’allargamento delle ricerche dai temi precipuamente
politici (i partiti, il cln, il governo monarchico, le relazioni con
gli Alleati), o militari (le bande, il Corpo Volontari della Libertà,
l’insurrezione), alla dimensione della soggettività,
inaugurato proprio da Quazza e da Pavone.
Lo spostamento degli interessi
storiografici e l’allargamento dell’indagine alla
deportazione, all’internamento dei militari, alle donne, alle
comunità locali, nonché la moltiplicazione conseguente
delle fonti di indagine, non deve indurci a conclusioni affrettate
sulle nostre conoscenze sulla Resistenza militare e sulla guerra
partigiana. Pur considerevolmente aumentate queste non sono ancora,
allo stato attuale, esaustive, come non lo sono quelle sulle
istituzioni politiche della Resistenza, i renitenti, gli occupati
nell’industria o le vittime dei bombardamenti. Tale condizione
di inevitabile e parziale incertezza conoscitiva è,
ovviamente, il riflesso - dello stato degli studi, ma anche della
difficoltà dell’oggetto di studio - la situazione
magmatica della Resistenza - di cui il carattere fluido della
«banda», la formazione partigiana per eccellenza, rimane
il miglior paradigma: tensione mai risolta tra spontaneità e
organizzazione, brevità dell’esperienza, pendolare
oscillazione tra il farsi e disfarsi. Come ha scritto Gianni Perona,
(e nonostante i risultati notevoli dei lavori sulle brigate
partigiane dello stesso Perona, Carocci, Grassi, Camilla, Cappelli,
De Luna, Vitali): siamo di fronte a molti «indizi affioranti
che ci rinviano ad una complessità dell’universo
partigiano, sinora appena sondata». Nel contempo però il
campo degli studi si è allargato: una riflessione originale
sul ruolo delle donne è affiorata ad esempio dalle pagine
della Bravo, della Rossi-Doria, della Siddons, della Gagliani; mentre
le monografie di Cavazzoli, Guiderzo, Silingardi e altri intorno a
varie province e comunità hanno aperto scenari inediti sulla
storia sociale della Resistenza, sulle strutture economiche nel
periodo di guerra, sulle condizioni materiali di vita, sui centri
del potere territoriali sopravvissuti al crollo dello Stato
intervenuto nel 1943: quadri locali di una storiografia totale da cui
emergono sempre nuove acquisizioni, ad esempio sui vescovi e i
sacerdoti cattolici attestati spesso in un ruolo di tutela
«benedettina» delle popolazioni di fronte ai poteri
fascisti repubblicani e all’occupazione.
La
questione ci riporta alla “guerra ai civili”. Le
multiformi disposizioni d’animo della società rurale,
tra sfiducia conclamata verso tutto ciò che concerne lo Stato,
atavica diffidenza verso il potere e cristiana solidarietà
verso i renitenti, accolti come sostituti dei figli in grigioverde
lontani da casa, sono state indagate con maggiore acribia. Si è
affrontata la differenza tra gli esiti del fenomeno della renitenza
in un Mezzogiorno ormai indisponibile a rinnovare, dopo l’otto
settembre, qualsiasi ulteriore sacrificio innanzi alle nuove chiamate
da parte di un Regno d’Italia totalmente discreditato, e quelli
al Nord, in cui la renitenza e la diserzione dall’esercito di
Graziani hanno offerto una base alla resistenza militare: “fare
la guerra per non doverla fare”, anche se la maggioranza dei
renitenti si rifiutò di compiere il salto nella guerra di
guerriglia.
Riconsiderare la “guerra ai
civili” significa innanzitutto mettere a fuoco un aspetto
importante di quel problema della violenza indagato da Quazza e da
Pavone: la violenza che si rovescia sulla società civile
attraverso i massacri della popolazione perpetrati dalle truppe di
occupazione ma anche dai “fratelli italiani”, i
collaborazionisti: operazione che non può prescindere da
questo ripensamento storiografico della storia della Resistenza
effettuato negli ultimi trent’anni grazie ad una consapevole
nuova molteplicità di approcci, di indagini locali rigorose su
documenti d’archivio, di inchieste di storia orale sul campo,
di microstorie. Un lavoro ben lungi dall’essere esaurito, che
perciò impone continue verifiche empiriche e cautela nelle
conclusioni necessariamente provvisorie, ma che vale la pena sulle
sudate carte, perché offre a mio avviso due opportunità:
la verifica della natura (sotto un profilo particolare) del sistema
di occupazione nazista, e l’indagine sulla complessità
delle relazioni tra popolazioni civili e resistenza armata. Un lavoro
umile, che impone l’arte della combinazione di sapienza
cronologica, pazienza cartografica e immaginazione sociologica.
Assai più che in altre
regioni dell’Europa occidentale, l’occupazione in Italia
da parte della Wehrmacht, delle forse di polizia e delle ss fu
connotata da una progressione della violenza sulla società
civile, la cui cause sono molteplici: la reazione dei comandi
tedeschi all’armistizio e alla nuova posizione diplomatica
dell’Italia (che avrebbe terminato il conflitto sul fronte
delle alleanze opposto a quello in cui l’aveva iniziato); le
circostanze tattiche delle operazioni militari nel corso della lunga
e lenta ritirata dal Sud, che resero necessari ben due anni per
liberare la penisola; l’emergenza della Resistenza come «nuovo
fronte di combattimento» (secondo la definizione del
feld-maresciallo Kesselring). Prescindendo dall’immediato
precedente dei massacri sui diversi teatri di guerra mediterranei e
balcanici, quei massacri che avviarono il disarmo, la cattura e la
deportazione in massa dei soldati italiani dopo l’8 settembre
(massacri per i quali fu cruciale la decisione del comandante supremo
della Wehrmacht, Keitel, di eseguire l’ordine del Führer
contro gli ufficiali del regio esercito), la violenza contro i civili
può essere considerata l’effetto di un sistema di ordini
repressivi adottati contro le popolazioni, non come risposta alla
loro ribellione, bensì come blocco di misure per prevenirne
l’indisciplina e l’ostilità.
Vi è a mio avviso un rapporto
evidente tra la formazione del sistema di occupazione e il sistema
degli ordini che scateno la guerra ai civili, anche se sulla sua
interpretazione gli storici non sono concordi. Il sistema di
occupazione- ad esempio secondo Klinkhammer - rifletteva il disordine
interno alla policrazia del Reich e il dualismo tra le istituzioni
dello Stato e gli apparati del potere specificamente nazisti:
Oberkommando dell’esercito e ministro plenipotenziario
del Reich, da una parte; vertici delle polizie e delle SS, e
amministrazioni speciali del Tirolo e del Litorale Adriatico
dall’altra. Al quadro si aggiungono i conflitti di potere
all’interno dell’universo caotico delle forze armate e
delle istituzioni della Repubblica Sociale. Beemoth: la disordinata
confusione di ruoli e autorità aveva avuto origine da due
dispositivi contraddittori emanati dal Führer il 10 e il 14
settembre 1943. Tutto ciò è vero, ma sul piano della
politica di repressione, da una situazione di condivisione della
sovranità tra Rahn (e Rommel) nelle zone occupate, e
Kesselring in quelle operative, si sarebbe passati presto a un
predominio chiaro della Wehrmacht: predominio diretto nelle zone
operative, su tutte le coste, sul litorale Adriatico e in Tirolo, e
predominio indiretto nelle altre. Sancito il I maggio 1944, l’accordo
tra Kesselring, il comandante in capo dell’esercito, e Wolff,
il comandante delle ss, fu pensato con il fine politico di evitare il
ripetersi di situazioni di confusione come quella in cui era stata
presa la decisione del massacro delle Ardeatine, e significò
la vittoria della soluzione militare su quella della politica.
L’iniziale disordine policratico cede dunque ad una strategia
omogenea e alla chiara suddivisione dei compiti nelle misure di
guerra antipartigiana e contro i civili. Nelle retrovie del Nord il
capo è Wolff, e in subordine, Debes (Waffen SS), Harster
(Sichereits-Polizei e SD), von Kamptz (Ordnungs Polizei) ma costoro
agiscono dietro indicazioni strategiche di Kesselring. Nelle aree
operative, speciali e sulle costiere, il comando è
direttamente di Kesselring, dei generali Vietinghoff (x armata),
Lemelsen (xiv armata), e Kübler (litorale adriatico), sino a
scendere ai comandanti di corpo d’armata e di divisione.
Dal 17 giugno 1944, data
dell’emanazione del primo ordine sui rastrellamenti, al 22
agosto, quando sono ridefiniti i confini delle aree di competenza
delle due armate, la serie dei dispositivi, emanati dall’Oberkommando
e adattati dalle istanze inferiori, guida le rappresaglie e la guerra
ai civili, secondo procedure coerenti e omogenee: il controllo sulle
popolazioni; la repressione dei ribelli per tutelare la ritirata
verso l’Arno e la linea Verde; i rastrellamenti massicci della
popolazione maschile per drenare manodopera da inviare ai lavori per
le fortificazioni appenniniche; la punizione della renitenza; la
deportazione e l’evacuazione dalle aree e dalle province di
interesse strategico. Si costituisce un canone di misure repressive
ispirato ad un principio inequivocabile: “considerare qualsiasi
civile che ostacoli o inciti ad ostacolare la Wehrmacht come un
partigiano che deve essere giustiziato immediatamente”. (La
citazione è da un documento autografo di Kesselring).
La documentazione della Wehrmacht
rivela anche il paradigma di tali misure: le disposizioni di Hitler
per la condotta di guerra contro le bande all’Est del 18
ottobre 1942, applicate per la prima volta in Europa occidentale da
Keitel contro i combattenti greci dell’Eλαs in
dicembre e poi ridiscusse da Kesselring e Harster alla fine del 1943
in Italia. Il 9 luglio 1945, un Réport inviato dalla
Special Investigation Branch al Sottosegretario di Stato
britannico concludeva che i massacri dei civili italiani - oggi ne
conosciamo l’entità - erano da addebitare non ai singoli
comandi delle unità militari coinvolte, ma “ad una
campagna organizzata diretta dal Quartier generale del
feld-maresciallo Kesselring”. Oggi tale conclusione
sull’esistenza di un piano dietro il sistema degli ordini (e la
considerazione di questi come indizi probanti) è oggetto di
interpretazioni storiografiche divergenti. Klinkhammer e Schieder la
contestano, adducendo l’estraneità della maggior parte
delle unità dell’esercito ai massacri e, anzi, il
coinvolgimento privilegiato di unità speciali indipendenti
dall’Oberkommando dell’esercito (in particolare la
Divisione Hermann Göring, la I Divisione Paracadutisti e la XVI
Divisione Corazzata SS). Lungo la stessa linea, Carlo Gentile
sottolinea in particolare il peso dell’esperienza delle
campagne di sterminio combattute in Polonia, Russia e Ucraina prima
del trasferimento in Italia nelle biografie degli ufficiali confluiti
nella XVI SS (von Simon, Reder, Galler).
Altri storici, Collotti, Schreiber, Andrae
rinviano invece ad una intenzionalità della condotta
terroristica della guerra contro i civili e ritengono inammissibile
qualsiasi distinzione nelle responsabilità tra la Wehrmacht e
le Waffen SS. Io rimango convinto - allo stato attuale - delle mie
conclusioni del 1997: le disposizioni del Comando dell’esercito
comportarono l’adozione di un’ottica operativa di tipo
squisitamente militare e provocarono l’intensificazione delle
procedure preventive. La violenza contro i civili fu intesa dai
comandi come la imprescindibile dimostrazione di forza dell’occupante
nella prassi quotidiana. Da ciò non consegue che il massacro
dei non combattenti deve essere considerata la norma in tutti i
territori occupati.. Mi pare illuminante tuttavia che la ricerca
sulla Campania, la Puglia, la Toscana e l’Emilia per la
redazione di un Atlante delle stragi coordinata da Paolo Pezzino
conforti la mia ipotesi, e mi riferisco alle modalità che
provocarono 1612 morti in Campania (672 nella sola Napoli) e
soprattutto i 3.774 morti toscani sinora censiti (tra un terzo e un
quarto di tutti i morti italiani per strage, massacro o eccidio).
Circa l’ottanta per cento di questi episodi e di queste vittime
non possono essere ricondotti a rappresaglie seguite ad azione
partigiana e oltre il dieci per cento fu provocato dai fascisti
repubblicani. Anche il gruppo di ricerca finanziata con la legge n.
59 del 1999 della Regione Toscana, coordinato da Enzo Collotti, ha
prodotto tre volumi - scritti rispettivamente da Valeria Galimi e
Simone Duranti, Absalom e altri, Paolo De Simonis - che concludono
nella stessa direzione. La chiave della guerra ai civili sta dunque
nella struttura del sistema di occupazione e nella funzione svolta
dal sistema degli ordini emanati contro le popolazioni e i
resistenti.
- Immaginazione sociologica,
pazienza cartografica, sapienza cronologica. La prima virtù,
che rese celebre Whright Mills, conosce una buona applicazione per
merito del prof. Matta, che ha proposto una tipologia di modelli di
violenza, distinguendo tra rappresaglie conseguenti ad azioni
partigiane; stragi di civili senza connessione con azioni partigiane;
eccidi nel corso di rastrellamenti; eccidi di prigionieri e ostaggi;
stragi a scopo terroristico o preventivo; massacri di militari
italiani sbandati; stragi compiute da fascisti. Nutro qualche riserva
sull’inclusione nella tipologia degli eccidi di ebrei ma il
modello è apprezzabile, purché si ricordi che, nel
corso di quelle tragedie di sangue impastate di eventi tanto
drammatici quanto confusi, compaiono spesso molti elementi che
appartengono a “modelli” di violenza diversi. Più
precisa può essere invece la cartografia dei massacri.
Fu Federico Chabod, nelle sue
straordinarie lezioni tenute nel 1950 all’Institut d’Études
Politiques dell’Università di Parigi, a insistere
per primo sulla necessità di distinguere tra le esperienze
vissute dalle popolazioni del Mezzogiorno, del Centro e del Nord, dal
punto di vista del rapporto con la guerra e le istituzioni politiche.
L’Italia fu divisa in due e conobbe tre diversi governi e due
occupazioni militari. Distinguere le differenze regionali è
necessario, al fine di capire i differenti tragitti della storia
politica delle diverse parti del nostro disgraziato paese anche nel
dopoguerra, ma per le stragi manca ancora un contributo all’altezza
di quello offerto da Luca Baldissara con l’Atlante geografico
delle formazioni della Resistenza.
Oggi vengono individuate
essenzialmente tre aree in cui infuriò la guerra ai civili. La
prima zona si può collocare in quella compresa tra il golfo di
Napoli e la valle del Volturno, da un lato, e l’Abruzzo e la
valle del Sangro dall’altro, lungo la linea Gustav e sul piano:
area di massacri diffusi, nonostante la brevità
dell’occupazione. Qui e, in particolare, nell’antica
Terra di Lavoro in provincia di Caserta, l’entrata in vigore
per le truppe tedesche in Italia del Merkblatt 69/1 (la direttiva di
combattimento del 1942 contro le bande dell’Europa dell’Est)
conobbe un’applicazione famigerata e paradossale. L’inesistenza
di formazioni partigiane (ma non di episodi di guerra patriottica o
di iniziative clamorose, come il concorso generoso dei civili di
Frosinone alla fuga di duemila prigionieri alleati) non impedisce
l’esercizio in funzione preventiva della violenza, per punire i
contadini e i civili che si oppongono ai saccheggi, al lavoro coatto,
alle brutalità: prevenire, appunto, l’insorgere di forme
di ribellione sociale endemiche in una regione che conosce nel
settembre-ottobre 1943 vari episodi di insurrezione contadina a
Matera, a Capua, a Lanciano. Vent’anni fa Nicola Gallerano
rivelava già che tali insorgenze per il pane e il carovita - a
Calitri, Avellino, Sanza di Salerno, Montesano - non si interrompono
dopo la fine dell’occupazione tedesca. Il confine tra le terre
d’occupazione tedesca e quelle di restaurata sovranità
sabauda, nelle quali permane un sistema di potere locale compromesso
con il regime fascista, non arresta quei tumulti e alcuni eccidi si
verificano anche nel “Regno del Sud”.
I nuovi storici del Mezzogiorno -
Gloria Chianese, Gabriella Gribaudi, Tommaso Baris fra questi - ci
insegnano che i massacri provocati dalle truppe tedesche -
paradigmatici i casi di Caiazzo e di Bellona in Campania, Rionero in
Vulture vicino Potenza, Valle Cannella presso Cerignola, Castello di
Scilla presso Napoli, Ortona in Abruzzo - sono provocati dalle
reazioni contadine a requisizioni, rastrellamenti, sgomberi,
saccheggi e razzie, cioè da quel controllo violento del
territorio che nel Sud annulla subito ogni pretesa di mediazione da
parte delle residuali autorità fasciste. Nella pagine degli
autori meridionali l’uso dell’inchiesta sociologica e
delle fonti orali appare finalizzato a perseguire l’obiettivo
della ricostruzione del «vissuto antropologico» della
guerra e della memoria sociale della violenza: da tale scelta
discende l’inserimento del ricordo della strage tedesca in un
continuum, e nella percezione di una indistinta violenza
bellica, in cui divengono preponderanti le memorie dell’incubo
dei bombardamenti alleati e delle violenze materiali e morali subite
anche da parte degli Alleati, a partire dagli stupri di massa
praticati lungo la linea Gustav dai goumiers algerini e
marocchini comandati dal generale Juin. L’inferno che trasuda
dalle pagine che conservano la memoria delle donne del Frusinate e
del Viterbese ci fa comprendere l’adulterazione letteraria di
quella realtà tremenda, proposta nel diario rielaborato a
posteriori da Norman Lewis sulla Napoli del 1944, e conferma, invece,
la profezia amara annunciata dal protagonista di un celebre testo
eduardiano, quel Gennaro Iovine che, sotto il fuoco degli ultimi
bombardamenti alleati sulla città partenopea ammonisce che non
si può gioire per l’imminente arrivo degli Alleati,
poiché il peggio può ancora venire: “Addà
a passà a’ nuttata.
Una seconda area la si può
circoscrivere alle spalle della linea Gustav, tra la bassa valle del
Tevere e il Piceno, tra i monti del Lazio, la Tuscia e il Gran Sasso,
ove, tra l’inverno del 1943 e la primavera del 1944, l’avvio
di una attività partigiana favorisce il ricorso sempre più
frequente alla pratica della rappresaglia. Il teatro della vera e
propria “guerra ai civili” è però
sicuramente la terza zona, quella appenninica a valle e a monte della
Linea Gotica, tra l’Aretino e la Val d’Arno, l’Alta
Versilia e la montagna bolognese (tra il Monte Belvedere e il Monte
Sole): qui a partire dalla primavera del 1944, i massacri precipitano
in zone rurali ma densamente coltivate e abitate, ai danni di una
popolazione di contadini coinvolta senza motivo nella guerra
preventiva e nella repressione anti partigiana. Si può
discutere se tali caratteri siano estendibili alle tragedie delle
valli alpine e prealpine, mentre invece la fisionomia assunta
dall’occupazione tedesca sul confine est, tra Carso Istria e
Friuli orientale, spiega gli aspetti che qui assunse la guerra ai
civili, divenendo prossima alla guerra di sterminio tipica delle
regioni balcaniche e dell’Europa centro orientale.
Infine la cronologia. I tempi del
massacro non coincidono perfettamente con quelli della Resistenza,
pur coprendo tutto l’arco delle cinque epoche brevi di
quest’ultima: le origini dopo l’8 settembre ’43; la
prima fioritura del gennaio-giugno ’44; il riflusso nella
seconda metà dell’anno e la crisi dell’inverno
’44-45; infine l’insurrezione. Nella scansione dei tempi
delle stragi c’è invece in primo luogo sicuramente il
settembre del 1943, quando l’occupazione si stabilizza, dando
luogo ad una rivalsa antitaliana che si abbatte per la prima volta
sulle popolazioni meridionali (ma c’è anche una prima
reazione brutale agli esordi di resistenza inattesa nel Nord, a
Boves, Collebrincioni o Canfanaro, in Istria). Poi seguono l’autunno
’43 e il primo semestre ’44, quando i massacri provocati
dai rastrellamenti in Campania e in Abruzzo si sovrappongono alle
rappresaglie a Roma, alle stragi di civili compiute nel corso delle
operazioni Wallerstein sull’appennino tosco-emiliano, alle
fucilazioni di prigionieri, partigiani e ostaggi civili in Liguria e
Piemonte, ai massacri e alle rappresaglie di Trieste, Opicina e dei
villaggi croati della provincia del Carnaro. La lunga torrida estate
del 1944 segna infatti l’acmé della guerra ai
civili, prefigurata nel sistema degli ordini dell’ Oberkommando
dell’esercito che viene varato al suo inizio: il maggior numero
di episodi e di vittime che interessano tutta l’Italia centro
settentrionale è infatti del periodo che si avvia dopo la
liberazione di Roma, quando la guerra ai civili (di cui la
rappresaglia, ripetiamolo, è solo un aspetto) si trasforma in
una scelta operativa diffusa volta a colpire, come documentano le
ammissioni del generale Lemelsen e gli autografi di Kesselring e del
suo assistente Beelitz (testimone chiave del processo di Venezia del
1947 ma paradossalmente inescusso al primo dibattimento contro
Priebke, mezzo secolo dopo.
Un altro documento, siglato dal
plenipotenziario Rahn alla fine dell’ottobre 1944, prova
esaurientemente come in questa fase, l’estate del 1944, ogni
rispetto del diritto di guerra fu deliberatamente trascurato: lo
stesso passaggio, in ottobre ad una logica diversa, non fu l’effetto
delle proteste di Mussolini, bensì delle esigenze strategiche
tedesche di concentrarsi nella distruzione delle formazioni
partigiane dell’Italia settentrionale, in serie difficoltà
nel corso della lunga stasi invernale del 1944-1945. Infine
dell’ultimo tempo e della recrudescenza terminale dell’aprile
1945, lungo le vie delle ritirata verso la Germania, si è
detto.
Io ribadisco insomma la natura
sistematica dell’intreccio tra sistema di occupazione e
dispositivo di ordini per la guerra ai civili. A mio avviso, esso
risulta utilissimo anche a dirimere un’altra vexata
quaestio, la presunta responsabilità dei partigiani. In
tal caso, infatti, i “partiti” storiografici sono presi
da tempo: da una parte c’è chi sostiene che “nella
guerra giusta” pertigiana fu inevitabile compiere azioni che,
post factum e in tempo di pace acquisita a caro prezzo,
possono apparire ingiuste anche alla coscienza morale in nome della
quale le si è compiute. Soggiacere al ricatto della
rappresaglia avrebbe significato rinunciare alla resistenza armata:
questa la tesi enunciata da Alessandro Portelli e da Gabriele
Ranzato, di fronte al perpetuo rovello morale dell’azione di
Via Rasella. Dall’altra c’è chi ricorda come
l’atteggiamento dei partigiani di fronte alla possibilità
di rappresaglie non sia stato né lineare né omogeneo,
e abbia troppe volte ceduto all’assoluta prevalenza dell’ottica
esclusivamente militare, come nei casi di Civitella Val di Chiana e
di Bardine San Terenzo in Toscana, o Saint Amand Montrand in Francia.
I partigiani avrebbero insomma talvolta escluso troppo facilmente una
possibile prassi resistenziale diversa, magari non violenta. Sono i
dubbi suscitati da Tzvetan Todorov e fatti propri da Paolo Pezzino.
Io credo che il dualismo morale tra
etica della convinzione ed etica della responsabilità possa
forse essere applicato nella legittima ricerca della responsabilità
o dei meriti nella ricostruzione dei singoli episodi, ma dubito che
possa essere esteso alla scala delle relazioni complessive tra
sistema di occupazione, popolazioni civili e resistenza armata. È
la «natura» - direbbe Tucidide - della guerra ai civili,
(un meccanismo volto a schiacciare non solo la lotta armata ma
qualsiasi forma di disobbedienza civile, a partire dalla sottrazione
delle risorse destinate alla finalità di guerra
dell’occupante) che, a mio avviso, impedisce l’uso di
tale modello ermeneutico, a meno di non rischiare qualche peccato di
anacronismo. La finalità della guerra ai civili mette in
discussione non le singole azioni partigiane, ma l’idea stessa
di Resistenza, perché ne presuppone l’assimilazione in
blocco al tradimento alle spalle e, quindi, precostituisce la ragione
sufficiente di ogni rappresaglia e di ogni strage. Il precedente
della provocazione partigiana diviene perciò accessorio
e fu nei fatti e in molti casi del tutto inesistente. La guerra ai
civili venne praticata come una scelta strutturale. Ma se ciò
è vero - ed è vero - una storiografia che si limiti a
indagare la legittimità della violenza, circoscrivendo la
critica alle operazioni militari della Resistenza senza
contestualizzarle, o prescindendo dall’intreccio tra sistema di
occupazione e sistema degli ordini dell’esercito, è
sbagliata perché pecca quantomeno di omissione.
C’è anche questo nodo
storico irrisolto dietro l’estenuato dibattito che da anni si
intrattiene sulla formula felice, quanto spesso equivocata, della
memoria divisa: inaugurata da Giovanni Contini, essa viene troppo
spesso banalizzata in un luogo comune funzionale ai seppellimenti
equanimi delle ragioni delle vittime e dei carnefici. In origine però
essa ha avuto il merito di rimarcare la distanza troppo a lungo
taciuta tra le memorie dei sopravvissuti alle stragi e la retorica
delle celebrazioni ufficiali, la canonizzazione del ricordo nel
discorso ufficiale antifascista. In alcune versioni, come quella di
Leonardo Paggi, muove da un presupposto discutibile, l’esistenza
di una cosiddetta memoria egemonica della Resistenza. La classe
dirigente post-resistenziale dei governi di unità nazionale
non fu in grado invece di elaborare una memoria, una religione civile
e una liturgia dell’antifascismo a causa della lotta politica
che si svolse al suo interno. Certamente esistono memorie diverse,
quelle delle comunità e quelle delle istituzioni, ma ci sono
anche memorie politiche e codici culturali contrapposti: di tale
pluralità di memorie e dei loro quadri sociali - per
riproporre la formula di Halbwachs - si può certo fare storia,
a condizione di distinguere però la storia dalla memoria e di
essere consapevoli di praticare un genere, la storia della memoria,
che è anch’essa una narrazione, un discorso, una
retorica. Quindi anche della memoria si può e si deve far
storia, come di ogni forma retorica, ma il discorso storico non può
essere ridotto quello della memoria né interpretato come
metafora narrativa. Ciò significherebbe - ammoniva un mio
vecchio professore, Arnaldo Momigliano - destituirne ogni fondamento
sulle prove e sui dati di fatto. Come ha scritto Yerushalmi: “Lo
storico non si limita a colmare le lacune della memoria, perchè
[...] il suo scopo più ambizioso è quello di
ricostruire un’immagine totale del passato [...]. Nessun
documento diviene allora irrilevante [...] o indegno per la sua
attenzione, e questo aspetto del suo lavoro va sicuramente contro
corrente rispetto alla memoria collettiva che, in quanto tale, è
invece selettiva”. Memoria e storia intrattengono insomma tra
loro rapporti complicati e segreti: affermiamolo con forza di fronte
alla confusione tra rievocazione e giudizio storico che ha condotto,
poco tempo fa, uno studioso di stampo democratico a lungo attivo in
questa città di Firenze, a dichiarare di preferire l’essere
stato dalla parte dei vinti di Salò piuttosto che l’aver
ceduto al fascino dei vincitori. La Resistenza viene così
disonorata come una risposta opportunistica, come la scelta più
comoda di fronte alla leva di Salò. Le due parti, resistenti e
fascisti, vengono equiparate e livellate e, a questo punto è
facile negare anche ogni specificità nazista alla guerra
condotta dai tedeschi e l’esistenza stessa della «guerra
ai civili», perché le atrocità sarebbero
ineliminabili in qualsiasi guerra, senza eccezioni. Da uno storico
che fu anche un testimone non ci saremmo attesi argomenti così
risibili.
Salvatore Satta, appena tre anni
dopo la fine della guerra civile scriveva: “Quel che restava
quaggiù non era una patria, era una terra di nessuno, nella
quale la stessa forza si gettava furibonda, e con le torture, le
impiccagioni, le deportazioni, gli incendi, metteva un popolo che per
venti anni aveva riso di fronte alle responsabilità dei propri
atti”. La guerra civile e la guerra ai civili obbligano al
riesame delle condotte del periodo bellico, ma anche delle scelte che
furono fatte dai governi repubblicani nel dopoguerra. Benedetto Croce
fu il primo a invocare una documentazione sulla guerra ai civili, per
“serbare esatto il ricordo di un tratto della storia della
nostra Italia [...]; mettere sotto gli occhi del mondo con
quanti dolori, con quanti grandi danni spaventosi e irreparabili,
l’Italia abbia pagato la pena della stoltezza fascista [...];
fornire al popolo tedesco, che ha in gran parte ignorato la qualità
e l’estensione di quegli orrori, uno specchio in cui
guardarsi”. Nelle parole di Croce vi era già
l’imperativo dell’esame di coscienza ma quello veniva
addebitato unicamente al popolo tedesco. Si eludevano così
questioni gigantesche, come le responsabilità della monarchia
per l’avvento e il consolidamento del regime o le colpe del
paese nello scatenamento della guerra, componendo una
rappresentazione selettiva del passato che colpevolizzava
esclusivamente l’ex-alleato nazista: una separazione tra “noi
e loro”, una forma di memoria selettiva, un oblio delle proprie
corresponsabilità con il Nuovo Ordine hitleriano che
certamente non erano isolati nell’Europa del 1945, ma che in
Italia corrispondevano alla strategia politica e culturale degli
ambienti monarchici e delle alte gerarchie militari e burocratiche
dello Stato. Tra il 1946 e 1947 le astuzie dei governanti italiani
per evitare la consegna agli Alleati dei nostri criminali di guerra,
- i responsabili della guerra italiana contro i civili dei Balcani
dell’Albania e della Grecia - e per rallentare l’azione
della giustizia verso i gerarchi e gli alti gradi dell’esercito,
si sovrapposero al timore degli Alleati di aggravare il conflitto tra
le forze politiche italiane, nonché di esasperare la
psicologia collettiva, avviando l’azione giudiziaria verso i
comandanti tedeschi responsabili delle stragi. Per tali ragioni, il
grande processo progettato dagli inquirenti britannici contro gli
alti ufficiali responsabili della guerra ai civili e di quella che
venne definita la “machinary of reprisals” - il
processo che nelle carte del Tribunale Supremo Militare è
definita la Norimberga Italiana - non venne mai celebrato e le sue
carte furono disperse in varie istruttorie. I pochi dibattimenti
avviati in sua vece furono chiusi con sentenze presto indebolite
dalla volontà politica di concedere le amnistie e di chiudere
la stagione dei processi e dalla totale incertezza di riferimenti
giuridici certi, mentre la stessa Procura Generale Militare italiana
procedeva all’imboscamento delle molteplici pratiche che
coinvolgevano la responsabilità di centinaia di militari
tedeschi.
Quell’atto di giustizia mancato, seppellito
per decenni nelle carte dell’Archivio di Stato (il Public
Record Office) di Londra, ha avuto effetti laceranti sulla stessa
memoria storica
Forse oggi, possiamo ricucire quello
strappo.
Note
Lutz
Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945,
Torino, Bollati Boringhieri, 1993. Rimando,
senza alcuna pretesa di completezza, e in ordine cronologico, a
Tristano Matta (a cura di), Un percorso della memoria. Guida ai
luoghi della violenza nazista e fascista in Italia, Milano,
Electa, 1996; Leonardo Paggi (a cura di), Storia e memoria di un
massacro ordinario, Roma, manifestolibri, 1996; Michele Battini,
Paolo Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione tedesca e politica
del massacro, Toscana 1944, Venezia, Marsilio, 1997; Giovanni
Contini, La memoria divisa, Milano, Rizzoli, 1997; Leonardo
Paggi (a cura di), La memoria del nazismo nell’Europa di
oggi, Firenze, La Nuova Italia, 1997; Lutz Klinkhammer, Stragi
naziste in Italia. La guerra contro i civili. (1943-1944), Roma,
Donzelli, 1997; Paolo Pezzino, Anatomia di un massacro.
Controversia sopra una strage tedesca, Bologna, Il Mulino, 1997;
Gloria Chianese (a cura di), Mezzogiorno: percorsi della memoria
tra guerra e dopoguerra, numero monografico di «Nord e
Sud», novembre-dicembre 1999; Gabriella Gribaudi, Guerra,
violenza, responsabilità. Alcuni volumi sui massacri nazisti
in Italia, «Quaderni storici», 100, aprile 1999;
Leonardo Paggi (a cura di), Le memoria della Repubblica,
Firenze, la Nuova Italia, 1999; Alessandro Portelli, L’ordine
è gia stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria,
Roma Donzelli, 1999; Enzo Collotti, Tristano Matta, Rappresaglie,
stragi, eccidi, in Enzo Collotti, Renato Sandri e Frediano Sessi
(a cura di), Dizionario della Resistenza, vol. I, Storia e
geografia della Liberazione, Torino, Einaudi, 2000; Ivan
Tognarini, Kesselring e le stragi nazifasciste. 1944: estate di
sangue in Toscana, Roma, Carocci, 2002; Bruno Maida, Prigionieri
della memoria. Storia di due stragi della Liberazione, Milano,
Franco Angeli, 2002;Marco Palla (a cura di), Tra storia e memoria.
12 agosto 1944:la strage di Sant’Anna di Stazzema, Roma,
Carocci, 2003; M. Battini, Peccati di memoria. La mancata
Norimberga italiana, Roma, Laterza, 2003; Toni Rovatti, Sant’Anna
di Stazzema. Storia e memoria della strage dell’agosto 1944,
Roma, Derive Approdi, 2004; F. Focandi, I mancati processi ai
criminali di guerra italiani in L. Baldissara (a cura di),
Giudicare e punire, Napoli 2005.
|