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Vecchia e nuova politica nel lungo dopoguerra siciliano
Salvatore Lupo
Per gli Alleati la Sicilia fu la Region first, il primo pezzo
d’Europa occupato nella lunga marcia che li avrebbe condotti
nel cuore della Germania. Ma dal punto di vista italiano l’isola
fu la prima regione che ancor prima del 25 luglio, e a maggior
ragione dell’8 settembre, si avviò verso una transizione
post-fascista. Questa sfasatura dei tempi della storia regionale
rispetto a quelli della storia nazionale determina peraltro una
distanza tra l’esperienza politica regionale e quella nazionale
tale da estremizzare le differenze tra Nord, Centro, Sud, le grandi
sezioni geografiche in cui comunemente dividiamo il nostro paese. In
Sicilia il nemico divenne amico, gli occupanti liberatori, prima
ancora che l’armistizio sancisse il mutamento di fronte
dell’Italia monarchica. La nuova politica fece il suo esordio
in una situazione di rottura di fatto dell’unità
nazionale: e, sia pure per un breve periodo, tutti si mossero senza
sapere se e quando essa si sarebbe ricostituita. Qui la monarchia e
la forma di Stato che in essa si identificava furono messi sotto
accusa antecedentemente alla formazione dei Cln e alla svolta di
Salerno, grazie alla quale venne sancita una continuità quanto
meno giuridica tra vecchio e nuovo. Infine, in Sicilia la guerra
mondiale finì molto prima che su scala nazionale decollasse la
guerra di Resistenza. Per questi aspetti congiunturali, oltre che per
quelli riferibili alla dialettica di lungo periodo tra Sud e Nord,
tra arretratezza e modernità, la Sicilia ci consente di vedere
un intreccio diverso tra passato, presente e futuro: dove si
evidenziano alla pari il vecchio mondo dei notabili prefascisti,
quello nuovo dei partiti di massa, mentre in mezzo si scorgono, sia
pure confusamente, gli effetti delle modificazioni indotte dal regime
nel rapporto tra Stato e società.
All’atto dello sbarco, gli alleati avevano sulla Sicilia
informazioni generiche, vecchie di dieci-vent’anni. Stando agli
accordi tra britannici e americani, dovevano essere i primi a
definire prioritariamente la linea politica: e i britannici puntavano
sulla restaurazione di equilibri tradizionali prefascisti, pensando
magari di poter applicare i loro consolidati modelli di
amministrazione coloniale, imperniati sulla valorizzazione delle
élites tradizionali locali. Gli americani invece
puntavano su una più chiara prospettiva di democratizzazione,
ad esempio su una radicale epurazione antifascista, e non tardarono
ad accusare i loro partner di spirito reazionario; si pronunciarono
chiaramente in questo senso gli uomini dell’Oss, il servizio
segreto antesignano della Cia. Nei fatti il Governo militare alleato
(Amgot) elevò alcuni uomini politici prefascisti di area
liberale o radical-socialista al rango di prefetto, e, almeno nelle
grandi città, privilegiò per il ruolo di sindaco
esponenti dell'aristocrazia come Antonino di Sangiuliano, ultimo
podestà fascista di Catania, o Lucio Tasca Bordonaro a
Palermo. Ancor più esso si affidò ai suggerimenti della
grande istituzione conservatrice, la Chiesa. L’idea che sin da
prima dello sbarco gli americani avessero definito un accordo di
ferro con la mafia americana o siciliana fa parte del novero delle
leggende. E’ vero invece che in qualche paese della Sicilia
centro-occidentale gli alleati non disdegnarono di elevare esponenti
mafiosi alla carica di sindaco.
Qui c’era una mediazione più specificamente politica. I
primi mesi del governo alleato videro svilupparsi l’iniziativa
del Mis (Movimento per l’indipendenza siciliana), gruppo nel
quale militarono un po' tutti i mafiosi che si andavano segnalando, o
che in seguito si sarebbero segnalati, all'attenzione delle cronache.
Con il separatismo la mafia, per la prima e l'ultima volta nella sua
storia, anziché inserirsi strumentalmente in un apparato di
potere, si identificò in un partito, e nella sua ideologia
acremente sicilianista che d’altronde corrispondeva a quella
sbandierata sin dall'Unità d'Italia dai mafiosi, ovvero dai
politici e dagli avvocati che ne assumevano il patronage.
Nella specifica congiuntura segnata dalla grande crisi dello Stato
nazionale, costoro seguirono i movimenti della parte di classe
dirigente cui erano tradizionalmente legati, e che agitò la
bandiera separatista. I separatisti sembravano in effetti, in quella
prima fase, sulla cresta dell’onda: essi esprimevano con
maggiore vigore la prospettiva antibadogliana e antimonarchica che
era comune alle forze antifasciste, per cui erano abbastanza numerosi
coloro che non escludevano di poter realizzare in Sicilia, con il
sostegno degli alleati, una repubblica atta magari a fungere da primo
nucleo di una futura confederazione italiana. Convergente con quella
dei separatisti apparve poi l’attitudine della gran parte degli
amministratori di nomina alleata, che rifiutavano la prospettiva del
ritorno all’amministrazione italiana; e quella di molti dei
deputati siciliani prefascisti, restii a schierarsi nel Cln. Potremo
comprendere meglio la fisionomia del Mis delineando le figure di tre
suoi importanti esponenti. La leadership venne assunta da Andrea
Finocchiaro Aprile, ex-deputato nittiano di Corleone, tipico
esponente della classe politica emersa tra la tarda età
giolittiana e il dopoguerra precedente. La destra separatista trovò
la guida del detto Lucio Tasca, grande proprietario, già
esponente nei primi anni Venti di un filo-fascista Partito agrario e
poi dirigente del Consiglio provinciale dell’economia
palermitano, infine autore di un opuscolo, L’elogio del
latifondo siciliano, che si caratterizzava per le polemiche
contro le leggi di colonizzazione del latifondo emanate dall’ultimo
fascismo, quello anti-borghese; nonché contro ogni venturo
progetto di riforma agraria, considerato alla stregua di un complotto
contro i siciliani. Calogero Vizzini, sindaco di nomina alleata del
paese di Villalba, gabellotto di latifondi e zolfare, ex-popolare,
parente di illustri prelati, era stato indicato sia nel dopoguerra
precedente che negli anni del regime come grande capo della mafia in
quella zona della Sicilia centrale che viene detta “il
Vallone”. Si trattava in effetti di un personaggio di grande
rilievo, perché collocato nella posizione di cerniera tra il
sottomondo della criminalità e il sovramondo della politica e
degli affari. Fu l’esplicito, precoce pronunciamento politico
della mafia del Vallone, guidata appunto da Vizzini e Genco Russo, a
farne il soggetto più visibile dello stratificato universo
mafioso nel precoce dopoguerra isolano, agli occhi non solo degli
alleati ma di tutti coloro che, soprattutto a sinistra, vedevano
nella mafia il sottoprodotto del latifondo e della società
tradizionale.
Sorto all’indomani dello sbarco, il separatismo cercò di
dipingere se stesso come un movimento di massa, nel quale era
schierata la gran parte del “popolo siciliano”. Nella
realtà esso apparve forte solo in quella primissima fase,
quando la politica di massa non esisteva e non era neanche possibile,
viste le limitazioni poste dagli alleati, a ventitre anni dall’ultima
occasione in cui elezioni libere avevano potuto testare la volontà
politica collettiva. Il Mis vantò anche un sostegno americano
che in quei termini non esistette mai. Fin dall’inizio, e poi a
maggior ragione con la riconsegna dell’isola
all’amministrazione italiana (febbraio ’44) ed al
profilarsi di una transizione verso la democrazia nel “Regno
del Sud”, gli americani videro con preoccupazione le attività
del movimento, sia per le difficoltà che esse proponevano alla
stabilizzazione dei governi Badoglio e Bonomi, sia proprio per i suoi
rapporti con la mafia L’attenzione degli americani ai temi del
self-government li portava a premere sia sugli italiani che sui
britannici perché venissero sollecitamente indette
consultazioni elettorali, e sul medio periodo a caldeggiare più
“moderne” soluzioni autonomiste. Badoglio mostrò
più resistenze che disponibilità in questa direzione.
L’istituzione di un alto commissariato per la Sicilia (marzo
’44) indicò da un lato la necessità di un
trattamento specifico per l’isola, dall’altro riannodò
il legame politico-istituzionale tra essa e il resto del paese. Il
primo alto commissario, il palermitano Francesco Musotto, era stato
un leader combattentista nel dopoguerra precedente ed era considerato
filo-separatista. In quanto tale venne contrastato dal ministro degli
interni del secondo gabinetto Badoglio, il democristiano Salvatore
Aldisio, originario di Gela, che alle dimissioni di Musotto abbandonò
il dicastero per subentrargli (luglio ’44). Con Aldisio, la
Democrazia cristiana puntò esplicitamente su una linea
antiseparatista, che però non coincideva con l’ipotesi
di piena restaurazione della tradizionale struttura centralista.
Nell’isola, la situazione sociale del 1944 era grave. In molte
zone, imperversava il banditismo mentre si moltiplicarono le
manifestazioni di protesta e, in molti centri, si verificarono
insurrezioni popolari per la mancanza di beni alimentari, contro la
politica degli ammassi obbligatori del grano, contro la leva al grido
di “non si parte”. Aldisio tuonò al complotto
reazionario, montato dai neo-fascisti di Salò o dai
separatisti, e i partiti del Cln si accordarono all’alto
commissario. In realtà quelle agitazioni non espressero
nessuna linea politica e nessuna leadership; neo-fascisti e
separatisti semplicemente tentarono di inserirvisi, al contrario dei
comunisti, frenati dalla necessità di rispettare le
compatibilità politiche segnate dalla loro partecipazione ai
governi di unità nazionale. Diverso il caso delle lotte
contadine, che trassero alimento a partire dall’ottobre del ’44
proprio dai decreti per il migliore riparto del prodotto colonico, e
per l’occupazione delle terre incolte da parte delle
cooperative, emanati dal governo di unità nazionale per
iniziativa del ministro dell’agricoltura, il comunista
calabrese Fausto Gullo.
Intorno alla fine del ’44 Mario Scelba, democristiano di
Caltagirone (compaesano cioè nonché allievo di Sturzo),
dichiarò che per battere il separatismo bisognava trovare una
soluzione della questione siciliana senza attendere la convocazione
di un’assemblea Costituente (nazionale) e senza aspettare che
soffiasse forte il “vento del Nord”: vento che con il
socialismo e il fascismo aveva nel dopoguerra precedente provocato
ogni genere di sconquassi. Era un discorso che veniva incontro a
convenzioni radicate negli ambienti conservatori isolani, già
allarmati dalla ventata giacobina proveniente appunto dal nord e
dalle prime lotte per la terra in casa loro. La Sicilia si dipingeva
come innocente dei disastri passati e si predisponeva a resistere
agli sconvolgimenti futuri. Nella fattispecie, una Consulta regionale
composta da eminenti personaggi doveva predisporre i termini
dell’istituenda autonomia, lasciando nelle mani della classe
politica siciliana le chiavi per controllare il mutamento prima
ancora che la collettività si esprimesse in libere elezioni.
L’assemblea, riunitasi per la prima volta nel febbraio 1945,
risultò composta sia da elementi dei partiti del Cln sia da
notabili prefascisti, ivi compresi elementi che avevano mostrato una
certa simpatia per il Mis. E’ vero che una simile soluzione era
quasi inevitabile: anche a livello nazionale si costituì con
la Liberazione una Consulta, i cui membri vennero selezionati sulla
semplice presunzione di una loro rappresentatività. Ma su
scala nazionale alla Consulta seguì una Costituente eletta a
suffragio universale, e fu a quest’ultima che toccò la
stesura della nuova Costituzione; mentre fu la Consulta regionale ad
elaborare lo Statuto siciliano tutt’ora in auge, il quale entrò
in vigore nella primavera del 1946, cioè ben prima della
Costituzione, venendo da quest’ultima semplicemente “recepito”.
La soluzione della questione siciliana insomma si concretizzò
ad opera di una classe dirigente regionale autonominatasi tale,
autonomamente dal processo di costruzione di un circuito democratico
nuovo – e in una qualche misura in alternativa ad esso. Lo
Statuto era ed è ossessivamente teso a difendere lo spazio
politico-amministrativo regionale da uno Stato che non può
essere quello democratico e autonomista disegnato dalla Costituzione;
mentre poco vi si dice rispetto al tema dell’autogoverno e
della partecipazione dal basso.
Molto chiaro era invece l’impegno della nuova-vecchia classe
dirigente per una fuoriuscita dal sottosviluppo economico. Qui è
da rilevarsi il ruolo giocato dall’anziano politico
socialriformista agrigentino Enrico La Loggia, che puntò
sull’alleanza con i partiti di massa e su una decisa linea di
difesa dell’unità nazionale, sia pure all’interno
della soluzione dell’autonomia “speciale”. Eppure
nel volumetto dal titolo Ricostruire, che La Loggia aveva
pubblicato già nel ’43, era rifiutata l’ipotesi
del decentramento quale soluzione del problema siciliano, nella
convinzione che “i mali dell’isola non tanto si
connettono all’ordinamento amministrativo quanto al punto ben
più essenziale di un insufficiente sviluppo economico”;
per realizzare il quale, contrariamente a quanto andavano dicendo i
separatisti, era necessario un forte impegno statale. Grazie
all’iniziativa di La Loggia venne stilato l’art. 38 dello
Statuto, che sanciva il diritto della Sicilia a una “riparazione”
finanziaria annua per i torti storicamente subiti nel processo
unitario. Con esso la regione si candidò al ruolo di attivo
promotore di sviluppo economico, che provò svolgere tra mille
contraddizioni; e di ente intermediario per la gestione di flussi
finanziari dall’esterno. Quanto alla Loggia, ritenne di
concludere la sua carriera di antico massone anticlericale
iscrivendosi alla Democrazia cristiana, di modo da preparare per il
figlio Giuseppe una carriera di primo piano in quello che sarebbe
stato il Partito eternamente in maggioranza: scelta che evidenziò
la sua intelligente percezione del nuovo, indicando nel contempo come
gli antichi poteri personali potessero riprodursi all’interno
del partito di massa, almeno nella sua versione di governo.
D’altronde all’interno stesso della Dc premevano antiche
dinastie politiche: basterebbe pensare a Silvio Milazzo, altro
importante esponente del gruppo cattolico di Caltagirone, che per un
attimo aveva guardato con simpatia al Mis.
Forti consensi conservavano però i vari gruppi di destra,
notabilari, localisti, pseudo-liberali, ostili comunque al Cln. In
Sicilia come in tutto il Mezzogiorno, si annunciavano i successi del
Fronte dell’Uomo qualunque, un gruppo che già nel ’44,
sotto la guida del commediografo Guglielmo Giannini, aveva contestato
il monopolio del potere che si erano auto-attribuiti i partiti del
Cln descritti come un’“esarchia” totalitaria quanto
il Pnf. Giannini diede voce alle preoccupazioni per la minacciata (e
non mai realizzata) epurazione dalla pubblica amministrazione degli
elementi compromessi con il fascismo, e più in profondo
espresse le diffidenze di coloro che vennero da lui definiti “UPP”
(Uomini Politici Professionali), nonché di qualsiasi approccio
ideologico che volesse turbare ancora la vita quotidiana della
“folla” dopo i drammatici sconvolgimenti degli ultimi
anni. Il qualunquismo era un movimento nazionale, che anche sul piano
retorico occupava lo spazio tutto regionale occupato dal Mis, e i cui
successi sancivano nel contempo la crisi dell’indipendentismo.
La leadership separatista finì per lasciarsi sospingere su una
linea, che era provocata dal suo isolamento ma nel contempo lo
accentuava. Nel settembre del '45, a quanto sembra, i maggiorenti del
Mis decisero di utilizzare alcune delle bande brigantesche che ancora
percorrevano l’isola per costituire 1'Evis, una sorta di
esercito clandestino separatista. Da quest’opzione scaturì
la seconda fase della carriera di Salvatore Giuliano, uno dei banditi
emersi in quei tempi turbinosi, il quale venne arruolato col grado di
colonnello nell’Evis, e nella cui vicenda tragica si
intrecciarono nella maniera più clamorosa la mafia, il
banditismo e il separatismo. Il governo Parri (3 ottobre ’45)
replicò decretando l’arresto di Finocchiaro Aprile e di
altri capi del movimento.
Nel frattempo qualcosa si muoveva anche a sinistra. I due partiti
“marxisti” potevano vantare una sia pure limitata
tradizione risalente al dopoguerra precedente; mentre ben modesta era
l’azione clandestina che avevano saputo realizzare negli anni
del regime. In alcuni casi i loro leader, come il lentinese Francesco
Marino, erano riusciti a conservare legami con le masse contadine
intrecciando ambigue relazioni coi sindacati fascisti. Certo, qui
come altrove, le esigenze della politica di unità nazionale
vennero scarsamente comprese dalla base; così come difficile
da comprendersi fu la linea filo-autonomista intesa a conservare
relazioni con le varie sezioni della classe politica ed a cavalcare
l’onda della protesta sicilianista, sulla quale si impegnarono
Togliatti e il leader regionale del Pci, Girolamo Li Causi. In alcuni
casi prevalse semplicemente la disciplina. Quando al primo congresso
regionale del Pci il dirigente Spano spiegò che davanti alla
sezioni, assieme alla bandiera rossa, doveva esserci il tricolore, ci
furono proteste e qualcuno chiese sarcasticamente se si dovesse
esporre anche il vessillo vaticano, ma il segretario della
Federazione catanese tagliò corto dicendo che pur di non
ricadere nel “Circo Barnum” socialista del dopoguerra
precedente egli era disposto a seguire qualsiasi indicazione del
partito, anche a vestirsi da Arlecchino.
Il rischio di una sovrapposizione di linee diverse (bordighista,
filo-separatista, ecc.) e di contrapposti localismi confermò i
comunisti nell’idea che la coscienza politica moderna andava
portata dall’esterno, nella fiducia che la versione
togliattiana del modello leninista si rivelasse particolarmente
adatta per le masse popolari meridionali, oggettivamente
interessate a un radicale rinnovamento sociale, ma
soggettivamente incapaci di elaborare una strategia adatta
alla bisogna, vittime com’erano delle arti politiche della
piccola borghesia trasformista, o della capacità egemonica di
un “mostruoso” blocco agrario. Il Pci non si rassegnava
all’idea della Vandea meridionale. Anche in Sicilia esso puntò
così sull’organizzazione centralizzata, inviando
commissari dal centro a gestire le federazioni, riducendo la
pluralità ad unità. Prestigiosi dirigenti del
dopoguerra precedente furono accusati di spirito notabilare, e messi
fuori gioco senza troppi complimenti. Emanuele Macaluso, allora
giovane leader di partito di Caltanissetta, ricorda oggi con
malcelato fastidio i quadri duri e puri, “soldati della Terza
Internazionale” di origine operaia, provenienti dalle scuole
moscovite di partito e da decenni di attività cospiratoria,
mandati nell’immediato dopoguerra nell’isola a “vigilare
contro ogni possibile deviazione di dirigenti e militanti” non
solo dalla linea politica ufficiale, ma anche dallo stile sobrio di
vita che unico veniva giudicato adatto al comunista; impegnati
insomma a fare “il loro lavoro di rivoluzionari di professione
a Palermo come lo avrebbero fatto a Savona, a Mosca, a Madrid o ad
Addis Abeba”. La notazione è interessante. La
bolscevizzazione che in quegli anni impazzava tragicamente a Praga o
a Budapest serviva qui, paradossalmente, alla costruzione del
togliattiano partito nuovo.
Intanto, nel giugno 1946, la Repubblica legittimò se stessa
nella maniera giusta, attraverso una grande consultazione a suffragio
finalmente universale, col referendum istituzionale preteso dai
conservatori e accettato da De Gasperi, che ignorò le proteste
giacobine di chi temeva il giudizio popolare. Il rischio corso dai
repubblicani fu però molto forte, come si vide dal compatto
pronunciamento monarchico del Sud, Sicilia compresa. Quelle del 2
giugno furono le prime elezioni, il primo vero test per le forze
politiche. Con l’affermazione netta della monarchia il
conservatorismo siciliano consegui una grande vittoria, confermata
dai risultati dei vari movimenti di destra; con l’esclusione
dei separatisti, che pur avendo effettuato una rapida conversione
filo-monarchica non giunsero al 10% svelando il loro bluff. Le
percentuali a favore della monarchia furono schiaccianti nelle grandi
città (81 % a Catania, 84 a Palermo!), dove disastrosi furono
i risultati conseguiti da Pci e Psi; mentre sia il sostegno alla
repubblica che quello ai due partiti di sinistra risultò
incoraggiante in provincia e nelle aree rurali. Qui infatti si
vedevano gli effetti positivi della mobilitazione collettiva,
l’impatto politico delle lotte bracciantili e per la terra. Si
era visto anche l’uso che lo schieramento conservatore
intendeva fare dell’autonomia, attraverso l’emendamento
Aldisio che per la Sicilia ridimensionava la portata dei decreti
Gullo al fine di garantire la rendita (giugno ’45). Lo scontro
si sviluppò aspro, non senza lo schieramento della mafia che
inaugurò lo stillicidio degli assassini dei capi-lega. Si
sente dire spesso che il movimento contadino rappresentò in
Sicilia un equivalente della Resistenza, che non c’era stata e
che non poteva esserci. In effetti esso segnò la ripresa di un
filo antico di sviluppo della democrazia che riporta al dopoguerra
precedente e, da lì, alla fine dell’Ottocento, al
movimento dei fasci siciliani: specie se pensiamo alla rottura di una
serie di rapporti di subordinazione sociale, di tipo prepolitico, in
luoghi “profondi” della vita collettiva, che un tale moto
collettivo comportava.
Su quest’onda, i due partiti di sinistra ebbero occasione di
rifarsi sin dalle elezioni regionali dell’aprile del ’47
allorché conseguirono la maggioranza relativa e sfiorarono il
30% dei suffragi: recuperando così un 9% rispetto all’anno
precedente e superando la Dc,. In quell’occasione i due gruppi
in cui il Mis si era diviso non giunsero al 10%, però la
destra nel suo complesso arrivò al 40% e la Dc al 20. Col
complesso di questo dato dobbiamo misurarci per evitare di
sopravvalutare (come spesso si fa) il successo del Blocco del popolo:
le elezioni del ’47 legittimarono in Sicilia la sinistra,
segnalarono il prossimo esaurimento dei sogni separatisti, ma
soprattutto aprirono la strada alla convergenza tra una destra
fortissima su scala regionale e una Democrazia cristiana insediatasi
alla guida dello schieramento centrista nazionale, convergenza che
avrebbe segnato tutta la prima stagione della vita politica isolana.
Com’è noto, fu la strage di Portella della Ginestra
a siglare simbolicamente questo passaggio, allorché la banda
Giuliano usò le mitragliatrici contro i contadini che
festeggiavano il primo maggio uccidendone dodici. Si trattò di
un momento di feroce strategia della tensione, di un complotto
politico-mafioso il cui mandante rimane ignoto. Possiamo peraltro
dedurne le logiche dalle parole di due personaggi provenienti da
mondi opposti ma in qualche modo accomunati da simile intento
politico: lo stesso Giuliano, che inviò messaggi di amicizia
ai carabinieri, forze “devote al nostro Re”, mostrandosi
determinato a concentrare i suoi attacchi contro gli “agenti di
Ps, che parte sono partigiani (traditori e assassini degli
italiani)”; e il cardinale palermitano Ernesto Ruffini,
autorevole rappresentante dell’ala destra della gerarchia, a
suo tempo filo-monarchico, il quale ritenne di giustificare il gesto,
addirittura col Papa, come risposta dei patrioti del sud ai massacri
perpetrati dai comunisti al nord, dicendo “inevitabile la
resistenza e la ribellione di fronte alle prepotenze, alle calunnie,
ai sistemi sleali e alle teorie antiitaliane e anticristiane dei
comunisti”. L’attentato si inseriva insomma in logiche
che vedevano pur sempre protagonista la destra siciliana
post-separatista, in cerca di una collocazione nella nuova politica e
disponibile a provocare una radicalizzazione del conflitto
politico-sociale al fine di vendere al prezzo più alto la
propria collaborazione; anche se col senno del poi esso può
essere considerato significativo del montare di tensioni distruttive
e delle contraddizioni della stessa Democrazia cristiana, la quale
con il ministro degli interni Scelba non sembrò più di
tanto intenzionata a che i mandanti fossero trovati, e piuttosto si
soffermò a considerare con preoccupazione le implicazioni del
test elettorale siciliano, che appariva come una confutazione della
politica di unità nazionale, un piccolo ma significativo
segnale da inserirsi nei grandi eventi che stavano portando il mondo
dentro la guerra fredda. Così, nello stesso maggio in cui fu
perpetrata la strage, a livello di governo nazionale De Gasperi
consumò la rottura con entrambi i partiti di sinistra, tra gli
applausi della Chiesa, degli americani, degli imprenditori e della
destra: ed a destra si orientò la rotta governativa perché
il leader democristiano cercò e trovò il sostegno
necessario nei liberali e nel gruppo parlamentare qualunquista,
ribellatosi alla linea antidemocristiana di Giannini grazie a una
specie di congiura organizzata dall’armatore napoletano Lauro,
dal presidente della Confindustria Costa e dal segretario
democristiano Piccioni.
Qui finisce la vicenda del dopoguerra siciliano, più
precoce e quindi più lungo che nel resto d’Italia, con
tratti di forte specificità rispetto al quadro nazionale. La
peculiarità determinatasi in quell’occasione ebbe
effetti di lungo periodo dal punto di vista istituzionale con
l’esperienza della Regione a statuto speciale, mentre l’altra
specificità politica attiene alla dialettica serrata tra la Dc
e le forze di destra, nate nella polemica contro i partiti del Cln e
la Repubblica. Vero è che l’intreccio tra la Democrazia
cristiana e l’opinione di destra, tra passato e futuro,
caratterizza tutta la vita politica repubblicana, in tutt’Italia.
In questo senso il punto di vista siciliano, pur apparentemente
eterogeneo, aiuta a capire meglio la storia nazionale.
Bibliografia
essenziale
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- L.Tasca
Bordonaro, L’elogio del latifondo siciliano, Palermo
1944.
La
lettera del cardinale Ruffini al Papa del 29 giugno 1947 è
ampiamente citata da F.M.Stabile, La Chiesa nella società
siciliana, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1992, in particolare
alla p. 265.
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