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La maturità della Resistenza armata e la mancata liberazione di Bologna
Luciano Casali
Quando,
nella zona di Montefiorino, carabinieri e militi cominciarono a
cercare borgo per borgo i renitenti alla leva, molti di coloro che
avevano deciso di non presentarsi nella speranza che la guerra
sarebbe durata ancora poco tempo, abbandonarono le case e si
nascosero nei castagneti.
Anche Pasquino decise che, per nessuna
ragione al mondo, avrebbe indossato un’altra volta l’uniforme:
Non dormii più in casa. Stetti
3-4 giorni in un bosco e mi riunii con alcuni ragazzi di diverse
classi, dal 1922 al 1925. Ma circolavano le voci che i militi
andavano nelle case ed incendiavano. Ed allora uno si presentò,
allora un altro lo seguì. Io resistevo [...]. Dormii
febbraio e marzo in una grotta, con tanta neve! E tutti mi dicevano:
“Ma cosa fai? Perché vuoi fare una vita così? È
meglio che ti presenti!” Eh no! Verrà anche l’estate...
E arrivò l’estate del 1944...
Negli ultimi giorni del maggio, il fronte cominciò a muoversi
visibilmente; tutta la guerra sembrò assumere un altro ritmo,
parve accelerare improvvisamente i propri tempi e le armate Alleate
diedero l’impressione di potere dilagare rapidamente per tutta
l’Italia e per tutta l’Europa. Il 4 giugno Roma veniva
liberata e due giorni dopo, sbarcando da oltre Manica, centinaia di
migliaia di uomini (divenuti all’inizio di luglio un milione e
mezzo) mettevano piede sul continente. Il “secondo fronte”,
da tanto tempo atteso e quasi invocato, era stato aperto e ciò
non poteva non determinare una svolta di accelerazione alle
operazioni belliche, una svolta che veniva immediatamente avvertita
dalle popolazioni.
Nello stesso tempo la Resistenza armata faceva un
improvviso balzo organizzativo e quantitativo. Nel giugno i
partigiani armati raggiungevano il numero di 82 mila uomini, secondo
una valutazione, verosimilmente molto arrotondata per eccesso, dello
Stato maggiore di Graziani; o di 50 mila, se prestiamo fede ad un
calcolo proposto da Pietro Secchia e Filippo Frassati che comunque
mettevano in evidenza il fatto che – se ci fossero state armi a
sufficienza – tale numero sarebbe stato triplicato e non
sarebbe stato necessario respingere la maggior parte dei giovani che
si presentavano alle formazioni chiedendo di combattere .
Entro settembre si sarebbe giunti a 80-100 mila uomini armati, «che
rappresentano la massima espansione delle forze partigiane in termini
di individui effettivamente inquadrati» .
Tuttavia, al di là delle cifre e dell’armamento –
che in ogni caso non sarebbe mai stato né sufficiente né
adeguato alla tipologia degli scontri che si sarebbero svolti in
montagna e in città – in tutto il territorio nazionale
che si stendeva dalle vallate alpine fino all’Italia centrale
ed alle immediate retrovie del fronte, con l’arrivo della buona
stagione e dopo la liberazione di Roma l’attività
partigiana sembrò esplodere in maniera incontenibile,
raccogliendo i frutti della lunga preparazione invernale e
primaverile.
Lo
ha rilevato lo stesso Albert Kesselring nelle sue memorie, ricordando
le preoccupazioni tedesche di fronte alla repentina espansione della
guerriglia:
Dopo l’abbandono di Roma si
ebbe un inasprimento dell’attività partigiana, in misura
per me affatto inattesa. Questo periodo di tempo può essere
considerato come la data di nascita della “guerra partigiana
illimitata” in Italia. L’afflusso di nuovi elementi alle
bande, che agivano specialmente tra il fronte e gli Appennini, andò
intensificandosi in modo visibile [...]. A partire da
quell’epoca la guerra partigiana diventò per il comando
tedesco un pericolo reale, la cui eliminazione era un obiettivo di
importanza capitale .
In
maniera ancora più esplicita ha osservato Lutz Klinkhammer:
Dopo la presa di Roma [...] il
pericolo rappresentato dai partigiani nelle montagne appenniniche era
diventato così forte che [...] si doveva ormai parlare di
un movimento insurrezionale pianificato e impostato militarmente, che
non poteva più essere qualificato con disprezzo come mero
banditismo: si trattava piuttosto di un nemico che combatteva
secondo i principi della guerriglia alle spalle delle truppe
al fronte e che – come si dovette ammettere – era quasi
impossibile contrastare in modo efficace .
Se
i tedeschi si andavano convincendo di trovarsi di fronte ad una
guerriglia sempre più dilagante e quindi pericolosa, tanto da
dover essere presa in seria considerazione e da richiedere un
consistente intervento armato per limitarne le conseguenze; i
fascisti di Salò, in quegli stessi giorni di giugno, secondo
la ricostruzione che ne ha fatto Dianella Gagliani, si trovavano
“sull’orlo del collasso e dello sbandamento totale”.
Mussolini, “richiesto da diversi ministri di assumere un più
deciso e più largo orientamento di governo e di presentarsi
con un discorso alla nazione [...], si era di fatto negato. Come
avrebbe, del resto, potuto rincuorare gli stessi fedeli? .
Dai Notiziari della Guardia nazionale repubblicana risultava evidente
la preoccupazione degli stessi estensori per la propria incolumità
personale:
dopo il messaggio con cui il generale Alexander, comandante in capo
delle forze alleate in Italia, chiamava all’insurrezione
partigiana, ognuno di quanti avevano aderito alla Repubblica sociale
“sembrò avvertire il rischio di ritrovarsi da solo
davanti alla Resistenza vittoriosa e temette per la propria sorte”.
Da più parti ed in maniera sempre più insistente si
cominciò a chiedere di armare il partito, tutto il partito e
non solo le forze armate: era assolutamente necessario che ogni
fascista repubblicano fosse messo in condizione di usare le armi
contro tutti quegli italiani, sempre più numerosi e
aggressivi, che rifiutavano il loro consenso alla Repubblica di
Mussolini.
Nacquero
così le Brigate nere, con lo scopo dichiarato di eliminare
sistematicamente l’opposizione di massa al fascismo
repubblicano.
Progressivamente
i fascisti si rifugiarono nelle città, che vennero controllate
e presidiate, abbandonando il controllo del territorio, per loro
sempre più insicuro. Nelle vallate, nei paesi di montagna e
spesso nei borghi agricoli si allontanarono – a volte vennero
fatti fuggire – dalle caserme della Guardia nazionale
repubblicana e dalle vecchie stazioni dei carabinieri.
Possiamo
concretamente renderci conto della espansione della Resistenza nel
corso dei mesi estivi analizzando l’attività delle
formazioni partigiane dell’Emilia Romagna per le quali
possediamo dati quantitativi e qualitativi pressoché
completi.
Il
primo elemento che appare di per sé significativo è
rappresentato dal numero delle azioni partigiane che vennero portate
a compimento.
In
tutto il territorio regionale, nel corso del mese di maggio 1944 si
ha notizia di 434 interventi eseguiti dai “ribelli”. Essi
divennero 618 in giugno, 864 in luglio, 1006 durante il mese di
agosto e ben 1417 in settembre, quasi 50 azioni al giorno. Poi, con
la fine di quella buona stagione che permetteva una alta mobilità
partigiana, le azioni cominciarono a diminuire e furono 838 in
ottobre e 638 in novembre.
Particolarmente
significativa la provincia di Bologna, che passò da 32 azioni
in maggio a 356 in settembre, e quella di Ravenna dove in maggio
erano state condotte a termine 47 azioni, che diventarono 219 in
settembre.
A
questi dati quantitativi, ne possiamo affiancare altri,
qualitativamente significativi.
Per
prima cosa, se esaminiamo la tipologia della attività
partigiana, dobbiamo indubbiamente riscontrare la presenza di
interventi che avevano come proprio obiettivo la interruzione delle
comunicazioni telefoniche e telegrafiche attraverso il taglio dei
fili di collegamento o altri che riuscivano a far saltare i binari
delle ferrovie o che facevano in modo che si disperdessero i raduni
del bestiame razziato o che impedivano la trebbiatura del grano
rendendo inutilizzabili le macchine o, infine, che incendiavano
magazzini e depositi militari o contenenti beni che potevano essere
utilizzati a fini bellici. Si trattava senza dubbio di azioni che
comportavano una pericolosità abbastanza limitata durante la
esecuzione, anche se non dobbiamo dimenticare che si agiva comunque
in territori spesso fortemente presidiati e controllati da reparti
armati.
Tuttavia
– oltre a queste azioni che abbiamo ricordato – ci furono
i combattimenti veri e propri, tanto è vero che ben il 35,7
per cento delle azioni partigiane condotte nel corso del mese di
giugno causarono morti e/o feriti ai tedeschi o ai fascisti e tale
percentuale salì al 45,1 nel mese di settembre: quasi la metà
delle azioni partigiane finì dunque in quel mese con morti o
feriti fra gli avversari. Si può ricordare che nel giugno in
provincia di Reggio Emilia ben il 67,7 per cento delle azioni
partigiane provocò morti o feriti.
Una
seconda considerazione può essere significativa, quella
relativa alla “scelta” dell’avversario contro cui
operare e da colpire. Se in giugno il 61,3 per cento dei colpi
partigiani fu rivolto contro i fascisti e solo il 19,4 per cento
contro i soldati tedeschi, tale rapporto tese via via a modificarsi
fino a rovesciarsi. In settembre il 42,4 per cento delle azioni
partigiane ebbe come proprio obiettivo i tedeschi e il 27,1 per cento
i fascisti. In questo stesso mese di settembre vanno segnalati Forlì
con il 63,4 per cento e Ravenna con il 65,3 per cento della attività
partigiana rivolta contro i soldati tedeschi.
Una
guerriglia intensa, dunque, sia per la quantità delle azioni
portate a compimento, sia per gli obiettivi che vennero colpiti.
Quelli che, all’inizio, erano soltanto giovani renitenti alla
leva senza alcuna esperienza militare e che dovettero essere
addestrati all’uso e al maneggio delle armi, in pochi mesi
seppero trasformarsi in combattenti in grado di affrontare anche
complessi combattimenti, come fu indubbiamente la battaglia per la
liberazione di Ravenna, una manovra “irradiante” di primo
ordine per ordinamento e capacità tattica che prevedeva una
concentrazione a tergo dell’avversario e l’attacco su
sette direttrici divergenti.
Né va dimenticato che, proprio per le capacità
dimostrate, due reparti partigiani emiliano-romagnoli furono scelti
come parte integrante dell’esercito alleato ed entrarono a
pieni ranghi uno, la 28.a brigata Mario Gordini, nell’VIII
Armata britannica, l’altro, la Divisione Armando, nella
V Armata americana e vi combatterono partecipando alle operazioni
della primavera 1945 fino alla smobilitazione al termine del
conflitto in Italia.
Evidentemente
il clima generale e quella che potremmo chiamare la diffusa mentalità
popolare erano cambiati profondamente negli otto mesi che trascorsero
dopo l’8 settembre.
Allora evidentemente era prevalso – negli italiani e negli
emiliani – un atteggiamento generale di stanchezza dopo tanti
anni di guerra, di violenze compiute e subite, di morte e di
sacrifici. Il rifiuto del fascismo e la mancata adesione di massa
alla Repubblica sociale italiana furono prevalentemente determinati
da un rifiuto dei motivi di fondo che venivano sottesi o dichiarati
come finalità per la ricomparsa di Mussolini al fianco dei
tedeschi: nel modo più assoluto non si voleva continuare a
combattere. Se in alcune zone del Paese motivi patriottici e
tradizioni risorgimentali fecero sì che qualche gruppo
prendesse immediatamente le armi e cominciasse ad opporsi contro
quello che appariva come il tradizionale nemico tedesco, contro il
quale si era lottato negli anni della Unificazione nazionale e
durante la Grande Guerra e che ora aveva invaso ed occupato il
territorio italiano; altrove ci si limitò a rifiutare lo Stato
fascista, a non rispondere alle chiamate della leva e ad attendere
gli eventi: a nascondersi, come aveva fatto Pasquino,
aspettando la buona stagione.
Al
di là di piccoli gruppi attivi, di fenomeni circoscritti di
origine totalmente o parzialmente spontanea (che non mancarono
neppure in Emilia Romagna: si pensi al gruppo di Silvio Corbari, alla
formazione dei fratelli Cervi, alla “banda”
Rossi-Barbolini, ai gruppi parmensi e piacentini...); la
Resistenza fu necessario costruirla e ciò fu possibile solo
con grande pazienza e con grande costanza, grazie alla indispensabile
presenza e alla attività delle organizzazioni politiche e
sociali che agirono partendo dalla profonda avversione alla guerra e
alla politica generale del fascismo per dare spazio alle
rivendicazioni e alle richieste di carattere sociale e di massa che
il fascismo aveva interrotto e sconfitto politicamente e militarmente
nel 1921-22.
Questa
stretta connessione fra opposizione attiva e rinascita della
conflittualità sociale appare con tutta evidenza nella Pianura
padana dove – assente la grande industria, e quindi essendo la
regione solo parzialmente toccata dagli scioperi operai della
primavera 1944 – la conflittualità assunse i ritmi e i
tempi legati alle rivendicazioni delle campagne: dalle mondine, ai
braccianti, ai mezzadri. Dovette perciò attendere la primavera
1944 e la ripresa dei lavori agricoli per manifestarsi apertamente e
pienamente. Così i contadini sarebbero divenuti i protagonisti
della opposizione al fascismo repubblicano e della lotta di
liberazione armata, in quanto la lotta per i rinnovi contrattuali o i
miglioramenti salariali si unì strettamente allo schieramento
attivo contro il neofascismo e l’occupazione tedesca e
determinò l’arruolamento nelle formazioni partigiane,
come già aveva notato Roberto Battaglia.
In maniera esplicita si univano le parole d’ordine di carattere
sociale a quelle con contenuto patriottico e a quelle che chiedevano
la ripresa del cammino lungo la via della democrazia. In tal modo, la
lotta partigiana assunse maggiore consistenza e livelli di più
ampia partecipazione popolare proprio in quei territori e fra quelle
categorie sociali dove più profonda e più partecipata
era stata l’attività politico-sociale negli anni che
avevano preceduto la presa del potere da parte dei fascisti.
Soprattutto le vecchie rivendicazioni mezzadrili tornarono in primo
piano e ricomparvero quelle stesse richieste contrattuali che avevano
caratterizzato gli anni del primo dopoguerra.
Erano
valutazioni che Arrigo Boldrini aveva già reso esplicite nel
settembre 1943, ma che solo nell’estate 1944 sarebbero state
accettate e fatte proprie dai gruppi dirigenti politici e militari
della Resistenza della regione. Già da allora Bulov
aveva intuito che il coinvolgimento delle campagne avrebbe avuto un
ulteriore effetto, quello di trasformare immediatamente in lotta di
massa la guerra di Resistenza.
In
effetti in Emilia Romagna non furono solo i giovani renitenti alla
leva o gli adulti – uomini e donne – più
politicizzati a schierarsi attivamente dalla parte della Resistenza,
ma furono gli interi nuclei familiari a partecipare, proprio perché
la lotta armata contro il nazifascismo assunse dalla tarda primavera
del 1944 anche lo specifico significato di quella che possiamo
chiamare una battaglia “sindacale” e rivendicativa; il
rinnovamento democratico veniva ad assumere in molti casi il
significato di un profondo mutamento dei rapporti sociali.
Furono
non marginali le situazioni in cui – a livello di mentalità
popolare – il movimento di liberazione venne inteso in
senso fortemente classista, come se si trattasse, soprattutto e prima
di tutto, di una liberazione dai padroni, sia all’interno
del non numeroso mondo operaio sia nei territori agricoli gestiti a
mezzadria classica. Né mancò, all’interno dei
Gruppi di difesa della donna, una lettura che faceva trarre dai
comitati di liberazione la possibilità di riprendere il
discorso emancipazionista, egualitario e modernizzatore che avrebbe
portato alla “liberazione della donna” e che il fascismo,
nella sua fase di regime, aveva bruscamente e drasticamente
interrotto.
Con
la tarda primavera, la Resistenza come fenomeno spontaneo cedeva
progressivamente il passo “a forme di organizzazione, di
inquadramento sempre più omogenee e centralizzate. Potremmo
definire tutto ciò come un processo di istituzionalizzazione,
anche se l’effettiva efficienza delle nuove strutture
gerarchiche non va enfatizzata”.
Come ricorda Claudio Pavone, “l’unità assicurata
da questi comandi era soprattutto di indirizzo politico e lato
sensu organizzativo”.
Anche
in Emilia Romagna, seguendo le indicazioni del Cln per l’Alta
Italia, nel mese di giugno cominciarono i contatti fra i partiti
politici per la creazione di un comando regionale unico che vide la
luce nei primi giorni del mese di luglio,
ma che solo in agosto poté conseguire quella composizione
partitica unitaria che avrebbe dovuto caratterizzarlo. Solo alla fine
di agosto, infatti, la Democrazia cristiana emiliana diede la propria
adesione alla Resistenza,
differenziando così il proprio atteggiamento da quello che
aveva caratterizzato la maggior parte delle province che, a volte sin
dal 1943 più spesso dalla primavera 1944, avevano visto la
presenza attiva, politica o militare, di uomini legati a quel
partito, come Benigno Zaccagnini, Giuseppe Dossetti ed Ermanno
Gorrieri.
In
ogni caso, ma ancora più di quanto accadde altrove, il comando
regionale non riuscì ad assumere una direzione effettiva della
Resistenza emiliana. I mai superati contrasti, fra gli antichi stati
ducali e le province che fino al 1860 avevano fatto parte dello Stato
della chiesa, ricomparvero con inattesa veemenza. Già dal
maggio i Cln di Modena, Reggio, Parma e Piacenza –
appoggiandosi ad un intervento diretto in tal senso che era stato
compiuto da Ferruccio Parri – avevano dato vita ad un centro di
coordinamento e si erano dichiarati autonomi da ogni “dipendenza”
nei confronti di Bologna. Tale ripartizione territoriale si sarebbe
riconfermata quando fu creato il Comando militare regionale con sede
a Bologna e il comandante regionale, Ilio Barontini, praticamente
riuscì a mantenere contatti, più o meno stabili, solo
con le province di Ferrara, Ravenna e Forlì.
Non
può sfuggire che nella regione prevalsero i caratteri
centrifughi e che ci si trovò di fronte ad una Resistenza
nella quale furono estremamente forti gli elementi localistici, con
tutto ciò che di bene e di male ne poteva derivare. Non ci fu
alcun tentativo di vero coordinamento delle attività militari
e di cooperazione fra gruppi e brigate; ogni formazione normalmente
rispettava i confini della propria provincia nel presidiare i
territori o nel condurre a termine le proprie azioni. Il più
importante esperimento di cooperazione, quello che nella seconda metà
di giugno, all’interno della Repubblica di Montefiorino, diede
vita al “Corpo d’Armata Centro Emilia”, diretto in
maniera unitaria da modenesi e reggiani, nella sostanza restò
solo una dichiarazione di intenti e di buona volontà, in
quanto le singole brigate mantennero dipendenze di carattere
provinciale e nessuna operazione comune venne effettuata neppure
quando, dal 30 luglio, la “zona libera” dovette subire
l’attacco della Wehrmacht.
Abbiamo
appena ricordato Montefiorino. Il nome del piccolo comune delle
colline a sud di Modena è ormai assurto a simbolo di quelle
che oggi chiamiamo Repubbliche partigiane, ma che allora si
definirono molto più semplicemente “zone libere”,
un fenomeno che si espanse in tutta l’Italia settentrionale nel
corso dell’estate e dell’autunno 1944, dal Piemonte al
Friuli, e che in Emilia si estese per gran parte dell’Appennino
occidentale, con sedi significative nell’Alto Parmense, a
Bobbio, a Varzi e a Borgotaro.
In quelle zone, per molte settimane, nel corso dell’estate
1944, si riuscì a presidiare militarmente il territorio,
annullando la presenza fascista e nazista ed esercitandovi, più
o meno sistematicamente, il potere. Particolarmente significativo fu
il fatto che si tese a riorganizzare (specialmente nei sette comuni
che fecero capo a Montefiorino) in maniera democratica le
amministrazioni locali, giungendo anche, in alcuni casi, alla
elezione dei sindaci.
La
liberazione e il controllo del territorio (circa 600 km2
comprendendo i comuni di Toano, Villa Minozzo, Ligonchio, Frassinoro,
Prignano, Polinago, oltre a Montefiorino stesso) per oltre quaranta
giorni a partire dal 18-19 giugno 1944 permise innanzi tutto di
Coinvolgere vaste porzioni di
popolazione in tentativi di “rinascimento” politico e
sociale; parole inusuali ed astratte come ad esempio politica,
democrazia e uguaglianza, bandite per vent’anni, acquistano
finalmente un senso concreto e di responsabilità individuale,
di diritto di partecipazione alle decisioni che riguardano la
collettività .
Ma
l’esistenza di una zona libera divenne anche punto di richiamo
per una più ampia mobilitazione e di rifugio per quanti erano
ricercati o perseguitati, dai più noti antifascisti agli
ebrei, che sperarono di trovare un luogo definitivo di asilo.
Non poteva essere così. Anche se in quel
territorio si riuscì ad organizzare ed inquadrare quasi 5000
partigiani armati, l’essere a ridosso della Linea Gotica ed
attraversato da importanti vie di comunicazione, quali la via
Giardini e la strada delle Radici, non poteva consentire che la
Wehrmacht ne tollerasse la sopravvivenza e, alla fine di luglio, la
“repubblica” venne attaccata e spazzata via, anche se la
presenza ed il controllo tedeschi si protrassero per poche settimane
e, ad iniziare dall’autunno, quegli stessi comuni ed altri
confinanti ripresero una parziale libertà ed una parziale
possibilità di autogestione .
Nessuna “zona libera” si realizzò
nella Pianura padana, un ambiente che veniva considerato “quanto
mai sfavorevole alla guerra partigiana, essendo privo di rifugi
adatti e caratterizzato da un sistema di comunicazioni che favorisce
un esercito di tipo tradizionale” .
Tuttavia la “battaglia contro la trebbiatura”, che
mobilitò le pianure specie da Reggio a Ravenna a partire dagli
inizi del mese di luglio, fece sì che la Resistenza riuscisse
a divenire largamente egemone nelle campagne ed immobilizzasse
politicamente i nazifascisti .
Le forze di liberazione si proposero di impedire
che i tedeschi si impadronissero del grano e lo trasportassero in
Germania. Fu una battaglia che si snodò attraverso una serie
di fasi successive: “ritardare al massimo la mietitura;
lasciare i covoni di grano in piccole biche disseminate nei campi
onde non offrire un ammasso di covoni per la trebbiatura; allontanare
al massimo la trebbiatura stessa” .
Non si trattava di una ipotesi avanzata dagli
organismi dirigenti della Resistenza che i nazisti si apprestassero a
razziare e trasportare in Germania la produzione granaria emiliana.
Sin dal settembre 1943 lo sfruttamento dell’economia italiana
aveva rappresentato uno degli obiettivi prioritari, se non
l’obiettivo principale in senso assoluto, della occupazione del
territorio italiano ;
nell’estate del 1944 – in particolare nelle province di
Ravenna, Forlì e Reggio – il “compito preciso di
procedere alla asportazione di grano e alla razzia del bestiame»
veniva esplicitamente affidato alle truppe di occupazione che erano
invitate «al saccheggio definitivo e senza più limiti
del territorio invaso” .
Gli energici interventi nazisti e fascisti
non riuscirono ad incidere in quello che fu un “concerto
armonioso” - come lo definisce Luigi Arbizzani
- fra azione partigiana e azione rivendicativa ed economica che saldò
definitivamente le rivendicazioni politico-patriottiche con quelle
del mondo del lavoro che vide, nella difesa del prodotto delle
campagne, non solo la salvaguardia della propria attività e
delle proprie fatiche, ma la base stessa per impostare nuovi accordi
di riparto e nuovi tariffari. E questo risultato – positivo per
le alleanze che la lotta di Liberazione seppe stringere – fu
egualmente positivo in relazione al fatto che si impedì la
asportazione dei prodotti. Come veniva rilevato il 30 marzo 1945 dal
Capo Dipartimento della MV presso il generale plenipotenziario della
Wehrmacht in Italia, l’azione delle “bande” nella
regione a sud del Po” aveva “sconvolto” il bilancio
alimentare; mancavano “soprattutto i cereali” e restava
scoperto, per l’alimentazione dell’esercito tedesco, un
“periodo di 1-2 mesi sino al prossimo raccolto. Inevitabili le
riduzioni” .
La sconfitta politica e militare determinò
una dura reazione da parte di nazisti e fascisti che, in linea di
massima, andarono a cercare le proprie vittime soprattutto fra la
popolazione civile, uccidendo e struprando ,
ma anche creando un profondo clima di insicurezza e di paura. Non
solamente le razzie e gli incendi avvenivano nel corso dei
rastrellamenti, ma spesso – soprattutto ad iniziare dal luglio
1944 – il passaggio di truppe tedesche in ritirata dal fronte o
in fase di trasferimento determinava (ed era lo stesso Guido
Buffarini Guidi a segnalarlo a Mussolini)
il furto di tutto quanto poteva essere portato via, anche di oggetti
non direttamente utili o che anzi avrebbero reso più
complicati i movimenti delle truppe in marcia. Oltre agli automezzi,
i tedeschi prelevavano anche interi corredi, mezzi agricoli,
biciclette, macchine da cucire, radio, cavalli, muli, capi di
bestiame dalle stalle, suini, polli e generi alimentari di ogni
specie. Raramente era possibile identificare i responsabili di tali
furti e dei veri e propri saccheggi che erano divenuti un fatto
usuale e quotidiano; le promesse di interventi draconiani, che i
comandi continuamente si affrettavano a fare, rimanevano del tutto
disattesi.
E poi
soprattutto c’erano le vittime che sempre più numerose
cadevano, fucilate od impiccate, esposte pubblicamente a monito, o
nascoste e sotterrate malamente nei luoghi stessi delle esecuzioni.
Il
semplice dato statistico può portare ad effetti di
distorsione, in quanto non può contribuire a rendere evidente
il clima generale e il contesto nei quali stragi, eccidi ed omicidi
di singoli cittadini avvennero; né può far comprendere
le differenze, profonde, che caratterizzarono il modo di ammazzare
dei nazisti e dei fascisti.
Spesso
ci si è chiesti se e fino a qual punto esistesse un rapporto
diretto di azione-reazione fra attività partigiana ed omicidi
nazifascisti. Se leggiamo semplicemente i dati numerici, potrebbe
apparire come reale una tale relazione. In effetti si ebbe un rapido
crescendo degli omicidi commessi da nazisti e fascisti a partire
dalla tarda primavera del 1944.
Durante il mese di maggio essi furono 14 in tutta
la regione, ma stragi ed eccidi crebbero rapidamente di mese in mese:
51 in giugno, 121 in luglio, 112 in agosto, 122 in settembre, fra i
quali la strage di Marzabotto. Nel corso dei cinque mesi estivi
furono dunque 420, ma non dimentichiamo che fra il settembre 1943 e
l’aprile 1945 per ben 1081 volte nazisti e fascisti ammazzarono
cittadini emiliano-romagnoli – soprattutto donne, vecchi e
bambini – al di fuori di episodi di guerra o di combattimento .
È un freddo dato statistico che andrebbe
più attentamente valutato ed analizzato rilevando la quantità
delle vittime, i luoghi e le occasioni delle uccisioni, chi ne furono
gli autori. Una ricerca che in molti casi è ancora da portare
a termine, ma per la quale possediamo comunque molti elementi
indicativi .
Ciò che ci sembra necessario sottolineare per prima cosa è
una non diretta correlazione fra stragismo e attività
partigiana. Anzi: tranne casi particolari, appare evidente che,
laddove più intensa e pericolosa era l’organizzazione
della guerriglia, più raramente si avventuravano i nazisti ed
ancora di meno i fascisti.
La seconda considerazione che possiamo fare è
che – contrariamente a quanto avvenne in altre regioni e
soprattutto in Toscana – in Emilia Romagna “casi di
stragi in cui l’accusa sia stata riversata sui partigiani sono
praticamente assenti” e (come ha constatato Paolo Pezzino) non
si generò una contrapposizione fra popolazione e resistenti a
causa delle uccisioni perpetrate dai nazifascisti .
È una valutazione che ci pare molto importante in quanto
comporta un giudizio positivo sullo stretto legame che nella regione
venne saldandosi fra combattenti e popolazione civile e sulla attenta
politica del consenso che i comandi partigiani seppero costruire e
mantenere anche di fronte alle situazioni più difficili e
delicate.
In terzo luogo va rilevato un modus operandi
ben diverso dei fascisti rispetto ai nazisti. Quelli, pur
partecipando alacremente alle operazioni di rastrellamento condotte
dai tedeschi: furono presenti ed attivi sia a Monchio nel marzo che a
Marzabotto nel settembre, normalmente concentravano la propria
violenza nelle rappresaglie e nelle uccisioni ad personam. In
altri termini, se in linea di massima i tedeschi operavano
incendiando e massacrando su quei territori nei quali per supposte
esigenze di guerra era richiesta una situazione di tranquillità,
per cui si riteneva utile distruggere ogni possibile base di appoggio
alla guerriglia; i fascisti, normalmente, agivano in città,
cioè in situazioni molto controllate e relativamente più
tranquille, arrestavano, torturavano ed uccidevano senza ingaggiare
particolari combattimenti. Soprattutto avevano scelto il compito di
selezionare ed indicare nominalmente chi doveva essere ucciso, quando
a farlo erano plotoni di esecuzione nazisti, consumando in talmodo
vendette e rancori anche personali.
Erano
stati costituiti dei veri e propri “depositi di ostaggi”,
all’interno dei quali scegliere quando si decideva di ammazzare
qualcuno.
Il 1° luglio era stato divulgato un ordine,
firmato da Kesselring, che provvedeva a riempire le carceri di
cittadini – di nulla colpevoli – che venivano detenuti
proprio come ostaggi da usarsi per le esecuzioni ..
Per quel tipo di guerra che i fascisti decisero di
combattere e che era quasi esclusivamente una “guerra interna”,
dal momento che raramente vennero scelti come obiettivi da
contrastare gli “invasori anglo-americani”, non
occorrevano indubbiamente né dei “mistici” né
dei “santi” né dei “teneri di cuore”,
come avevano scritto fra giugno e luglio diversi periodici delle
federazioni repubblicane .
Ma si trattò di una situazione che andò ancor più
peggiorando nei mesi successivi all’autunno 1944, tanto è
vero che, all’inizio del nuovo anno, il generale Frido von
Senger und Etterlin decise di allontanare da Bologna le Brigate nere
guidate da Franz Pagliani, sulle quali esprimeva un giudizio non
equivoco:
Autentico flagello della popolazione,
queste erano altrettanto odiate dai cittadini come dalle autorità...
e da me. Le brigate nere erano composte dai seguaci più
fanatici del partito (...). Gli uomini di queste formazioni
erano capaci di assassinare chiunque, di compiere qualsiasi
nefandezza quando si trattava di eliminare un avversario politico .
Mussolini non mosse ciglio di fronte ai rapporti
che gli giungevano sugli omicidi brutali operati dalle Brigate nere;
“i fascisti, anzi, dovevano mostrare la loro tempra ai tedeschi
e, quindi, anche superarli, chiaramente nell’attività in
cui, nella loro concezione, si palesava il massimo della civiltà,
cioè la guerra, che per la Rsi era, tuttavia, una guerra
civile” .
Il “modello” delle SS doveva essere emulato nell’uso
della violenza a tutto campo.
E i
fascisti emiliani ci riuscirono perfettamente.
Con l’inizio di agosto e l’avvicinarsi
del fronte, vennero intensificate le operazioni di sabotaggio su
tutte le vie di comunicazione e il 18 settembre il Comando del Corpo
volontari della libertà diramò le Direttive
operative per la battaglia della Pianura padana: le formazioni
partigiane erano in grado e potevano «dare il massimo
contributo all’azione alleata per la sconfitta del nemico» .
Tuttavia già dai primi giorni di settembre (probabilmente il
5), Giorgio Amendola (che dalla fine di luglio si era trasferito a
Bologna per coordinare, in qualità di ispettore, le attività
delle brigate Garibaldi e nello stesso tempo per intervenire ad una
migliore e più efficace organizzazione del suo partito),
convinto del valore emblematico che avrebbe avuto il fatto che il
capoluogo emiliano fosse riuscito ad autoliberarsi, accogliendo le
truppe alleate già con le piazze piene di cittadini in festa,
avvertiva il suo partito che “di colpo il problema della
preparazione dell’insurrezione aveva assunto una concreta ed
urgente immediatezza” .
Subito tutto fu predisposto perché Bologna fosse in grado di
insorgere non appena si fosse profilata la certezza dell’arrivo
degli anglo-americani. Varie formazioni partigiane furono fatte
confluire nella città o nelle immediate vicinanze. Il 10
settembre Giuseppe Dozza faceva clandestinamente rientro in quella
Bologna dalla quale era assente da diciassette anni, trascorsi in
esilio, e nella quale tornava come sindaco designato .
La
data per l’insurrezione venne fissata al 25 settembre, ma nel
frattempo il clima insurrezionale prese salde radici nelle province
di Modena, Ravenna e Bologna (oltre, naturalmente, Forlì, dal
momento che Rimini venne effettivamente raggiunta dall’VIII
Armata britannica). Un clima insurrezionale che fu evidente nelle
manifestazioni popolari che portarono alla temporanea liberazione di
intere località: il 3 settembre a Bondanello di Castel
Maggiore, il 10 a Castenaso e Medicina, il 14 a Galliera, il 17 ad
Anzola e San Pietro in Casale.
Evidentemente – come avrebbe scritto
Ferruccio Parri qualche anno dopo
- da parte dei bolognesi c’era stata una eccessiva fretta o una
sopravvalutazione della volontà e capacità offensive
degli Alleati; ma va anche considerato che la V Armata americana
continuò fino al 13 ottobre ad inviare istruzioni relative
all’ingresso nel capoluogo emiliano, inducendo quindi il
comando partigiano a rafforzare e protrarre le misure che dovevano
portare alla liberazione della città .
Un comportamento che resta ancor oggi del tutto inspiegato: perché
Mark Clark sollecitava i bolognesi a tenersi pronti, quando già
dal 6 ottobre aveva avvertito il proprio Stato maggiore di poter
mantenere l’offensiva solo per pochi giorni ancora,
probabilmente non oltre il 9 o 10 ottobre?
Ci furono senza dubbio errori di valutazione: la
strage di Marzabotto alla fine di settembre avrebbe dovuto mostrare
con evidenza che i tedeschi stavano tentando di consolidare il
territorio alle loro spalle e che non erano più sottoposti ad
una pressione che li costringesse a continuare la ritirata.
Contemporaneamente si rafforzavano i presidi fascisti e tedeschi in
città: anche questo sembrò sfuggire ai partigiani. Ma
il 20 ottobre i nazifascisti passarono all’offensiva,
cominciando sistematicamente ad attaccare e smantellare le basi
partigiane. Il 20 ottobre appunto fu la volta della cosiddetta
battaglia dell’Università, con l’uccisione dei
partigiani del Partito d’azione, attaccati e battuti fra via
Zamboni e via San Giacomo; il 7 e il 15 novembre furono attaccate le
basi di Porta Lame e della Bolognina, che invece riuscirono a
sfuggire all’accerchiamento e a sganciarsi. In ogni caso,
troppo a lungo le formazioni partigiane si erano trattenute in città,
in un terreno non ben conosciuto e sul quale (per il tipo di
armamento e per la configurazione delle strade di Bologna) ben
difficile sarebbe stato, come fu, condurre combattimenti contro
eserciti tradizionali .
Ancor prima che Alexander avvertisse, il 13
novembre, che l’offensiva «condotta senza interruzione
fin dopo lo sfondamento della linea gotica era finita»
sarebbe dovuto apparire chiaro che la liberazione della regione era
rinviata alla fine dell’inverno .
Dopo
la grande stagione estiva, durante la quale la Resistenza aveva
conosciuto momenti epici e aveva portato a termine un crescendo di
azioni riscuotendo un sempre maggiore consenso popolare, cominciava
la lunga e dura attraversata che avrebbe portato all’aprile
1945.
Solo
la provincia di Forlì, la parte orientale di quella di Ravenna
(compreso il capoluogo) e la parte meridionale di quella di Bologna
avevano visto la fine della guerra negli ultimi mesi del 1944.
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