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Il problema politico della ricostruzione dello Stato e la Resistenza
Gianni Perona
Una
riflessione sulla Resistenza e sul periodo dopo la liberazione,
considerati come laboratori politici, può partire dalla
constatazione apparentemente banale che in quei brevissimi anni si
formano simultaneamente la repubblica e la classe dirigente
repubblicana. Un processo di trasformazione eccessivamente rapido, se
si tiene conto dell’insieme di istituzioni e di culture che ne
erano investiti, e perciò necessariamente imperfetto in alcuni
esiti. Esso colpisce tuttavia piuttosto per la sua ricchezza e per la
durevolezza dei risultati, i quali non si possono comprendere se non
si esaminano un retroterra geografico ampio, e i precedenti culturali
anche cronologicamente remoti. L’attenzione deve dunque
estendersi non soltanto all’Italia centro-settentrionale e alle
zone che sono state teatro della resistenza armata, ma a tutta
l’Italia, secondo un criterio che ha guidato il progetto stesso
del ciclo di lezioni in cui questa si colloca, e anche all’ambito
europeo in cui si formò il linguaggio comune della Resistenza.
Dividerò
dunque la comunicazione in due parti. Una è tutta italiana,
molto legata a circostanze storiche, ad avvenimenti anche casuali di
natura politica e militare; l’altra è dedicata a una
dimensione culturale europea, considerata nel lungo periodo, perché
non si capisce la resistenza italiana, se non s’intende che
essa è parte di un processo (a cui partecipano anche in altri
paesi moltissimi italiani) e che ha dei contenuti politici che
risalgono molto indietro nel tempo.
Il
problema dell’Italia si pone drammaticamente fra il luglio e il
settembre del 1943: in luglio incomincia l’occupazione da parte
anglo – americana della Sicilia, dopo l’8 settembre, alla
notizia dell’armistizio, l’esercito si sfalda, e i
territori che erano occupati da truppe italiane passano in altre
mani, ivi compreso il territorio metropolitano. Dietro la cronaca dei
fatti militari, importa rilevare la situazione di totale disastro
istituzionale dello stato nazionale. È una struttura che
esplode, non soltanto al centro, nel senso che non ha un capo, non
una sede a Roma, non ha più una direttiva governativa di
politica civile, né militare, ma che si disgrega sulle
periferie, dove si manifesta uno stato di precarietà totale
della nostra sovranità, non solo perché gran parte del
territorio è sottoposto all’autorità di truppe
occupanti, non solo perché due terzi dell’Italia sono
invasi dalle truppe tedesche, ma perché si cambia anche, o si
cerca di cambiare lo stato giuridico dei territori. Tutta la
frontiera di nord – est salta, giacché è
praticamente una annessione quella che divide in due territori ad
amministrazione diretta tedesca le province di Trento, Bolzano,
Belluno, e separatamente le province orientali. Dall’altra
parte, c’è una sospensione della sovranità
italiana, sia dove c’è il governo militare alleato,
quindi in una larga fascia delle retrovie anglo – americane tra
Campania, Abruzzi e Lazio, a Napoli e in Sicilia. Anche là
dove si esercita, la sovranità italiana è contestata o
non autorevole, saltato il sistema fiscale, saltato il sistema
finanziario, non c’è la possibilità di tenere in
efficienza lo stato. Questa tragedia istituzionale alimenta
naturalmente le più varie tendenze disgregatrici, e suscita
angoscia in coloro che si sono opposti al fascismo per tutto il
periodo precedente; i quali non sanno come mettere in opera un
progetto politico per costruire la nuova Italia, e non sanno neanche
quanto tempo avranno per elaborarlo.
In fondo,
nel settembre 1943, si pensa che l’occupazione dell’Italia
potrebbe durare pochi mesi, Rommel pensa di andarsene, tenere al
massimo l’Italia settentrionale, e sgombra subito la Sardegna e
la Corsica. Gli Alleati non sanno bene che cosa faranno, pensano di
occupare l’Italia meridionale, non hanno un progetto
sull’Italia centrale, di fronte alla resistenza tedesca si
fermeranno. Eventi che non erano così chiaramente prevedibili,
nel 1943. Allo sbarco di Anzio, nel gennaio 1944, si pensa che la
situazione si sia sbloccata; poi di nuovo a settembre – ottobre
1944, dopo lo sbarco degli alleati in Provenza, si pensa che la
liberazione sia imminente. Insomma nessuno prevede che la cosa durerà
venti mesi. Per questo, accanto ad un organizzarsi della complessa
struttura della resistenza armata, abbiamo anche un laboratorio,
un’attività di progettazione politica, febbrile e
perfino affannosa. Colpisce, come le prime proposte vengano già
fra il settembre e il dicembre 1943. Nell’autunno del 1943 si
riuniscono a Milano i federalisti europei, fondano il loro movimento,
cominciano a pensare alla struttura di uno stato federale, in una
federazione europea, e sono attentissimi ad un problema che il
fascismo aveva considerato con diffidenza e ostilità, quello
delle minoranze. In questa prospettiva, tra di loro, siamo colpiti
dal vedere come ci sia una fortissima rappresentanza valdese ed
ebraica. Nel dicembre del 1943, la proposta federalista viene
rielaborata, questa volta nella dichiarazione di Chivasso, nella
quale alcuni (che saranno anche martiri della resistenza, come Émile
Chanoux) cominciano a pensare all’autonomia regionale, in
termini di rinnovamento del paese e connettono lucidamente tre
elementi: una federazione europea, una federazione italiana, la
repubblica. Questo tipo di progettazione appare addirittura
utopistica, se si pensa alle forze che potevano mettere in campo gli
antifascisti: i resti sparsi di quanto dell’esercito non si era
completamente sfaldato o non era stato catturato e portato via dai
tedeschi; a cui si aggiungeva poi una volontà di resistenza,
certamente non una resistenza tale da contrastare le armate naziste
nelle fabbriche, ma capace di esprimersi in grandi scioperi, nel
novembre e dicembre 1943, poi ancora nel marzo 1944.
A queste
condizioni sfavorevoli si aggiungeva un’altra difficoltà,
perché la riflessione antifascista, di opposizione al
fascismo, ma anche di studio dello stato fascista, era stata lunga,
appassionata, profonda e seria. La pubblicazione di tutti i saggi che
sono stati prodotti all’estero e in Italia di analisi dello
stato fascista dimostra che si valutavano obiettivamente gli aspetti
di modernizzazione, e si cercava di adeguare una proposta democratica
alle prospettive di un paese rinnovato. Tuttavia questa lunga
riflessione si dava una scadenza in non si sapeva esattamente quale
futuro, e improvvisamente si trovò spiazzata, per così
dire, dall’esigenza di mobilitare dei giovani che mediamente
avevano da diciannove a ventun anni, in una impresa di opposizione
frontale. Con la Resistenza si passa dalla opposizione al fascismo,
alla negazione e ad un progetto di distruzione militare del fascismo,
che è imposto dal contesto nazionale e internazionale, ma fa
sì che l’antifascismo debba costruirsi all’interno
della resistenza stessa come un momento pedagogico. Quelli che sono
alla guida politica del movimento di resistenza, devono anche educare
e formare dei cittadini. Alcuni sono partigiani combattenti, altri
sono collaboratori civili, che s’impegnano a produrre le
istituzioni e il progetto stesso di una vita democratica. Se non ci
sono, evidentemente, le condizioni per una pacata e sistematica
riflessione, ci sono però delle istanze che la guerra
esaspera, esigenze di un rinnovamento assolutamente radicale, a
misura del cambiamento nella posta in gioco: se l’opposizione
implicava il rischio del carcere, la Resistenza è infatti il
rischio della vita, e questa è una differenza che spesso si
dimentica nel valutare le implicazioni politiche del movimento di
liberazione.
È
la radicalità della situazione quella che spiega anche la
radicale novità della progettazione politica. Prolungandosi la
guerra, e migliorando in parziale compenso le capacità di
organizzazione dell’antifascismo, dobbiamo dire poi che, quello
che si compie in Italia, è un processo di straordinaria
rapidità ed efficacia. La formazione di quello che non
chiameremo pomposamente un esercito partigiano, ma certamente una
forza combattente molto considerevole, è una costruzione di
misure insolite anche a livello europeo, e permette di fondare una
richiesta di riconoscimento. Non si tratta mai di una istanza di
riconoscimento come stato separato, anche se c’è molta
discussione, e se in alcune frange del movimento di liberazione si
pensa che la resistenza possa essere la base di un progetto di stato
che, sperimentato dall’ambito della resistenza armata, sia
prospettato poi a tutto il paese. Questo però significherebbe
per la resistenza assumere un ruolo di governo provvisorio, distinto
dal governo ufficiale e riconosciuto di Brindisi, poi di Salerno e di
Roma, un passo di divisione istituzionale che non viene mai compiuto.
Non è
mio compito illustrare questo aspetto, però vorrei
sottolineare i due momenti del riconoscimento politico e militare: il
7 dicembre 1944 la Resistenza ottiene il riconoscimento come forza
armata dal comando militare alleato, poi, il 26 dicembre, una
delegazione del Comitato di liberazione nazionale Alta Italia, firma
un accordo a Roma con il governo nazionale italiano. Questo il passo
essenziale: “Il Governo italiano riconosce il Comitato di
liberazione nazionale Alta Italia, quale organo dei partiti
antifascisti nel territorio occupato dal nemico. Il Governo italiano
delega il clnai a rappresentarlo nella lotta che i patrioti hanno
impegnata contro i fascisti e i tedeschi nell’Italia non ancora
liberata. Il clnai accetta di agire a tal fine come delegato del
Governo italiano”. I resistenti diventano quindi autorità
di governo nella gestione della guerra di liberazione, ma con un
limite evidente, perché le parole chiave sono nella
definizione “organo dei partiti”. Insomma il Comitato di
liberazione nazionale non è né riconosciuto né
costituito come un organo statuale, se pure pro tempore
delegato: la Resistenza è riconosciuta solo come coalizione di
partiti. Questo, che è certamente un limite, può
tuttavia essere considerato una ricchezza, che si percepisce bene
attraverso il paragone con la Francia. Là, nel 1940, la
repubblica democratica con tutti i suoi partiti rappresentati in
parlamento è disastrosamente sconfitta nella guerra, e per
conseguenza i partiti stessi vengono accusati di avere la colpa, cioè
l’articolazione democratica dei partiti è ritenuta
responsabile della sconfitta. La Resistenza francese nasce perciò
come organizzazione non di partiti, ma di movimenti, e per lunghi
anni avrà una sorta di ostilità verso l’organizzazione
partitica della vita politica. Questa si riforma faticosamente e si
ricompone - ma ci vorranno quasi cinque anni – un quadro di
unità nazionale in cui si rifonda il sistema politico
nazionale francese. In Italia, il processo di ricostruzione delle
articolazioni politiche della democrazia è straordinariamente
più rapido: i partiti non portavano la responsabilità
della disfatta, e si presentavano come i protagonisti, i propositori
di un discorso nuovo sull’Italia. Non soltanto nell’Italia
occupata, ma anche nell’Italia libera. A Bari, dove si era già
riunito nel gennaio 1944 il convegno dei comitati di liberazione
nazionale, ed anche in Sicilia e in Sardegna, attraverso evoluzioni
che sono state drammatiche, anche sanguinose, si incomincia una
elaborazione, che sarà complessa e difficile, ma che salva la
coesione dello stato nazionale, cioè la soluzione di un
federalismo parziale, quello delle regioni a statuto speciale. Se si
guardano tutte le regioni che sono oggetto di una tensione
internazionale nel settembre 1943, dalla Val d’Aosta, che è
oggetto di una dichiarazione del governo francese di Algeri, al Nord
Est, di cui si è già detto, alla Sicilia e alla
Sardegna, si vede che le regioni a statuto speciale sono esattamente
quelle che rientrano nello stato nazionale attraverso una
progettazione che viene fatta in questo periodo. Una progettazione
unitaria, per cui, effettivamente, in questo biennio, viene
ricostruita la base di un discorso politico nazionale del quale si
tratta più diffusamente in altri interventi di questo ciclo.
L’altro
ordine di considerazioni sulla natura politica della Resistenza si
deve fare tenendo conto della dimensione culturale europea, sulla
quale non si riflette spesso. Resistenza non è parola
propriamente italiana, anche se la si trova come vocabolo tecnico
nell’appello del Comitato di liberazione lanciato il 9 di
settembre, dove si parla di resistenza contro l’invasione
tedesca, in senso quasi meccanico, militare, di reazione
all’aggressione. Vale perciò la pena di domandarci come
mai la Resistenza, cioè il movimento di liberazione italiano e
altri movimenti analoghi europei, dovendo scegliere come denominatore
comune un termine per definirsi, abbia adottato quello che era stato
scelto dai francesi, tra il 1941 e il 1942.
Certamente
la tradizione politica francese è su questo tema d’importanza
basilare. Essa ci rimanda a un concetto alto e politico della
resistenza, che ci limitiamo a richiamare attraverso due testi. Il 26
agosto 1789 si proclama la prima dichiarazione dei diritti dell’uomo,
enunziante “i diritti naturali, inalienabili e sacri
dell’uomo”.
L’articolo 2 recita: “Lo scopo di ogni associazione
politica è la conservazione dei diritti naturali
imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà,
la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione”.
La resistenza è dunque uno dei diritti dell’uomo, ed è
in questa connessione con i diritti fondamentali, con il diritto di
opporsi all’oppressione, che sta il valore politico basilare di
questa dichiarazione dei diritti, che si connette poi, in maniera
cruciale e diretta, con il problema della costituzione, all’articolo
16. “Ogni società nella quale la garanzia dei diritti
non è assicurata, (cioè neanche il diritto di
resistenza, il diritto di opposizione, aggiungiamo noi), né la
separazione dei poteri determinata, non ha alcuna costituzione”.
Non c’è dunque costituzione democratica in un paese che
non garantisce i diritti fondamentali, e la resistenza è uno
di questi diritti: resistere vuol dire affermare la necessità
di una costituzione.
Passo a
un altro documento, molto caro a chi scrive, ma che viene pochissimo
ricordato. Si tratta della seconda redazione dei diritti dell’uomo,
quella del 6 messidoro dell’anno i, il 24 giugno 1793. È
il preambolo della Costituzione dell’anno i, che non fu mai
applicata e che contiene delle indicazioni precorritrici
straordinarie, che ora siamo abituati a considerare come ordinarie. È
la prima dichiarazione in cui sono affermati il diritto al lavoro
(articolo 21: “[...] La società deve assicurare la
sussistenza ai cittadini in difficoltà [...] procurando
loro il lavoro”) e il diritto all’istruzione (articolo
22: “L’istruzione è la necessità di tutti.
La società deve favorire con ogni suo potere i progressi della
ragione pubblica, e mettere l’istruzione alla portata di tutti
i cittadini”), principi che non ci sono nel 1789. Qui
interessano soprattutto gli articoli 33, 34 e 35. Articolo 33: “La
resistenza all’oppressione è la conseguenza degli altri
diritti dell’uomo”, articolo 34: “C’è
oppressione contro il corpo della società, quando uno solo dei
suoi membri è oppresso; c’è oppressione contro
ogni membro, quando il corpo della società è oppresso”,
articolo 35: “Quando il governo viola i diritti del popolo,
l’insurrezione è per il popolo, e per ogni parte del
popolo, il più sacro dei diritti e il più
indispensabile dei doveri”. Io vorrei suggerire questa chiave
di lettura, perché è una lettura alta, politica della
terminologia. Chi va poi a leggere i documenti del 1944 –1945,
e vede gli appelli all’insurrezione, se li legge senza
comprendere questa dimensione politica, di tutela dei diritti
fondamentali, che è connessa intrinsecamente con le nozioni di
resistenza e di insurrezione, può scambiarli per, come dire,
tecniche e modalità di operazioni militari partigiane. Sono
certamente anche questo, ma si perde veramente l’essenziale, se
non si coglie la connessione che l’affermazione del diritto di
resistenza, radicato in un’antica tradizione di rivendicazione
dei diritti fondamentali, è la via attraverso la quale si
cerca di fondare, appunto in condizioni di emergenza e in tempi
straordinariamente brevi, un diffuso - userei una parola sansimoniana
- “catechismo democratico”. È da questo punto che
può cominciare, una volta liberata l’Italia e fatta
l’insurrezione, realizzato questo più sacro dei doveri,
la costruzione di un discorso politico sulla costituzione che
l’oppressione ha negato e che la Resistenza ha posto come
necessaria, anche se certo la crisi del 1943 – 1945 non ha
permesso di articolarla in tutte le sue parti.
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