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Classi popolari, società rurale e resistenza nel Veneto
Emilio Franzina
Prologo
“Il
25 aprile ultimo scorso, alle ore 11, in Tombolo - recitava un
notiziario della GNR di Padova dei primi di maggio del 1944 - il
commissario del Fascio del luogo, Mario Sasso, nella qualità
di presidente della locale Opera Balilla, indisse un'adunata dei
ragazzi delle scuole elementari, per incitarli, senza fare alcuna
pressione, ad iscriversi all'organizzazione. Un gruppo di circa 50
persone, in maggioranza donne, si formò nelle vicinanze del
posto d’adunata. Ad un certo momento la casalinga Ida Marangola
fece presente, a voce alta, che suo figlio non si sarebbe mai
iscritto a costo di perdere la scuola. A tali parole fecero seguito
fischi e grida contro il Fascio repubblicano e all'indirizzo del
commissario, il quale venne anche minacciato. Il pronto intervento
del distaccamento G.N.R. di Galliera Veneta determinò un
rapido scioglimento del gruppo.” La situazione politica non
solo a Padova, bensì pure nell'intero Veneto, come avrebbe
confermato un altro “mattinale” alcuni giorni più
tardi, per il fascismo repubblicano volgeva orami da tempo al peggio
e risultava ovunque “caratterizzata da un senso di viva
diffidenza verso il regime”. “L'ostinatezza delle reclute
a non presentarsi alle armi, spinte oltre che dalla propaganda
avversaria dal favore di gran parte della popolazione; l’aumentata
diffusione di volantini propagandistici contro la guerra e la RSI,
incitanti allo sciopero; la questione alimentare sempre più
difficile” apparivano tutti fattori in grado di contrastare
qualsiasi prospettiva di “normalizzazione” tanto più
che anche il clero, si lamentava, perseverava nel suo atteggiamento
più che riservato e “sostanzialmente” ostile al
regime.
Né
andava meglio nelle campagne dove si moltiplicavano gli esempi di
plateale favoreggiamento dei “ribelli” e dei disertori e
dove, soprattutto, si verificavano sempre nuovi casi d’adesione
alla lotta armata da parte di contadini e di popolani come quel
bracciante diciottenne e incensurato di Camisano Vicentino dal nome
senz’altro ingombrante - si chiamava infatti Angelo Mussolini -
il quale, arrestato in febbraio per detenzione abusiva di armi e
interrogato dagli inquirenti, alle domande fattegli aveva così
risposto: “Sono un renitente alla chiamata e durante questi
ultimi tempi ho vissuto prestando saltuariamente la mia opera di
salariato agricolo presso contadini del luogo. Attualmente sono
manovale presso l'impresa Andriolo. Oltre due mesi or sono ho avuto
da Quadri Luigi detto Berto e da Carettiere Renzo un parabellum con
12 caricatori, 3 bombe a mano, un pacco di gelatina e munizioni da
parabellum e da moschetto. Tutto ciò mi venne consegnato dai
due perché sapevano che io ero della stessa idea, tanto è
vero che mi avevano proposto di recarmi in montagna ed arruolarmi
nelle bande dei partigiani, cosa alla quale io avevo aderito. Il
moschetto e la pistola sequestratimi gli ho avuti nel modo seguente.
Il moschetto l'ho comperato da un tedesco al quale ho dato in cambio
due uova e vino in quantità, la pistola era di proprietà
di Bortolan Bruno nelle bande dei fuorilegge...”
Sebbene
la vicenda del Mussolini rurale palesemente in rotta con il suo
omonimo e con la Repubblica da lui capeggiata non possa essere eretta
a modello di comportamenti sistematici o prevalenti, nelle campagne
del Veneto, da parte di agricoltori e contadini, sembra nondimeno
evidente che anche qui qualcosa era cambiato e che a un anno di
distanza dalla Liberazione un dissenso attivo e diffuso aveva ormai
scavato un solco profondo tra le popolazioni e il governo che
pretendeva di rappresentarle tutte o anche solo di difenderne le
aspirazioni e gli effettivi interessi. Ancora il 25 aprile del 1944,
dal Quartier Generale del Führer in Germania, venne diramata la
comunicazione ufficiale dell'ultimo incontro fra Hitler e il Duce
dove si leggeva invece come questi avesse manifestato “al
Führer la decisione del Governo fascista repubblicano, quale
unico rappresentante del popolo italiano, di intensificare ancora
maggiormente la sua partecipazione alla guerra a fianco degli alleati
del Patto tripartito [onde] portare a fine vittoriosa la guerra
contro i bolscevichi a oriente e contro i giudei e i plutocrati
all'occidente, e [al fine] di garantire ai popoli una vita sulla base
dell'ordine nuovo e della giustizia [secondo una espressa]
dichiarazione del Führer...Nei colloqui svoltisi tra il
Duce e il Führer - concludeva il comunicato - è stata
riconfermata la ferrea volontà di continuare la lotta fianco a
fianco, fino al raggiungimento della vittoria finale, e fino al
raggiungimento degli scopi politici propostisi dall'Asse e dal
Tripartito” .
Qualunque
tesi si voglia sostenere sulla natura della RSI e della guerra
combattuta in Italia fra il settembre del 1943 e l'aprile del 1945,
traspare chiaro anche dalla citazione di quest'ultimo retorico lancio
di stampa che Benito Mussolini si riteneva ancora, con il proprio
governo lacustre, “unico rappresentante del popolo italiano”
e che aveva inoltre anch'egli, per obiettivo, l'instaurazione del
“nuovo ordine europeo” teorizzato da Hitler in conformità
con precisi “scopi politici”, razzisti e dittatoriali, da
entrambi condivisi. Sul primo punto, senz'altro, si sbagliava, ma sul
secondo, dato il carattere ipotetico e ottativo dei propositi, diceva
probabilmente la verità e troncava sul nascere ogni possibile
discussione, anche postuma, relativa alla natura del progetto che
stava giustificando, ai suoi occhi e a quelli dei suoi sostenitori,
l'esistenza in vita di uno Stato come quello sorto sulle palafitte di
Salò per volontà decisiva del Führer e con
l'apporto fondamentale dei tedeschi. Fascisti repubblicani e nazisti,
a quella data, avevano ormai persa del tutto non tanto la partita
bellica, quanto la sfida morale di una contesa che declinata in
ambito italiano aveva comportato già da tempo il venir meno
dell'indispensabile appoggio da parte delle popolazioni e, fra esse,
delle classi popolari e rurali di tutte le regioni della penisola
sottoposte al duro regime di occupazione della Wehrmacht.
Il
caso del Veneto nei pochi e lunghi mesi racchiusi tra la tarda estate
del 1943 e la primavera del 1945 costituisce ad un tempo lo scenario
e il laboratorio, ma anche l'inevitabile banco di prova di un
generale coinvolgimento misto ad attiva partecipazione delle classi
subalterne, sia urbane che rurali, nell'ultima fase di una guerra in
corso da più di tre anni che ne aveva messo a durissima prova
lo spirito proverbiale di sopportazione. Quest’ultimo
indubbiamente faceva parte di un bagaglio o di un “carattere
regionale” legato all’assetto preso in età
precedenti dal Veneto durante la dominazione veneziana (e in parte
anche asburgica) così da incoraggiare, più tardi, l’uso
e persino l’abuso di una formula fortunata, quella del “modello
veneto”, capace di ricondurre quell’assetto, anche in
presenza di forti tratti di modernità manifatturiera, a una
diffusa atmosfera rurale e ad un rapporto pressoché
intangibile di colleganza, sostanziale e intensamente vissuta, delle
genti locali d'ogni estrazione, con la Chiesa cattolica e con il suo
clero in cura d'anime. Occorre tenerne conto allorché
s'intenda affrontare, soprattutto in una breve sintesi come questa,
il problema degli atteggiamenti mantenuti dalle classi popolari e,
più in generale, dai contadini e dai ceti rurali di fronte
alle sfide poste, nella congiuntura precisa del 1943-45,
dall'occupazione tedesca, dall'effimera ripresa del fascismo e dal
sorgere, appunto in mezzo alle popolazioni, di un insieme di
iniziative di opposizione civile, politica e armata destinate a
prendere forma e corpo, man mano che il conflitto mondiale si
radicalizzava e volgeva con estenuante lentezza al suo termine, nella
Resistenza. Va detto tuttavia che almeno un paio di generazioni di
storici ha contribuito involontariamente a creare non poca confusione
sulle reali cornici che ne inquadrarono la progressiva emersione e i
principali sviluppi, inducendo o ingigantendo più di un
equivoco rispetto alla sua fenomenologia e a certi suoi aspetti,
specie quelli più crudi, controversi e contraddittori. L’idea
di un contesto agricolo economicamente marcato, ad esempio, dalla
prevalenza di zone tra loro sì differenziate e non sempre
complementari (come fu ben chiarito già trent’anni fa da
Angelo Ventura: area centrale della piccola proprietà
contadina, zone di mezzadria e di piccolo affitto — vero
“cuore” della regione — fasce collinari e
subcollinari o pedemontane di raccordo con montagne povere e in via
di spopolamento, basse pianure bracciantili ecc.), ma tutto sommato
convergenti nel modellare un volto comunitario arcaico e rurale,
statico se non immobile, con scarse propensioni alla modernità
e, in aggiunta, la relegazione in ambiti secondari o marginali e
quasi del tutto ininfluenti delle realtà urbane e delle
attività manifatturiere e industriali, venendo perseguite ed
enfatizzate di norma per segnalare l'indiscussa “arretratezza
veneta” ben si sposavano con l’evidenza di un tipo di
relazioni sociali improntato a ricorrenti e incontestabili schemi di
deferenza/dipendenza e al ricordato vincolo di “attiva
soggezione” o di felice sudditanza alle direttive
ecclesiastiche da parte delle devote popolazioni. Ma il Veneto su cui
non meno che nel resto d'Italia così nelle città come
anche nelle campagne si era esercitata l'opera di direzione e di
comando del regime fascista sino alle soglie della guerra,
corrispondeva solo in parte al cliché dell'area regionale
periferica, scarsamente dinamica e dalla quiete sociale garantita a
priori essenzialmente per merito di parroci e di preti o di strutture
mentali profonde da questi decisamente orientate verso la moderazione
se non anche verso il moderatismo. Vi sopravvivevano, è
sicuro, le nicchie vecchie e nuove (e quindi talvolta anche fasciste)
del notabilato conservatore e vi prosperavano più di quanto
non si possa immaginare le forze ingenti del paternalismo aziendale e
autoritario a Valdagno, a Portogruaro, a Torviscosa e persino nel
neonato polo di Marghera, una creatura in certo modo tanto di Volpi
quanto del regime. Tuttavia all'ineguale distribuzione della
ricchezza privata accettata dai più con apparente
rassegnazione e all'incontestabile basso livello dei consumi, con
picchi frequenti di povertà ed anzi di miserabilità
certificati in parte anche dall'ostinato persistere di robuste
abitudini emigratorie (in rapporto peraltro coi tempi mutati: e
quindi migrazioni interne verso le zone di bonifica e nell'Agro
Romano e Pontino, emigrazione in Francia e, dopo la metà degli
anni trenta, nelle colonie africane di diretto dominio oppure, “a
passo romano”, nella Germania nazista), facevano riscontro
fenomeni inediti di razionalizzazione organizzativa e non pochi
episodi di notevole vivacità imprenditoriale. L'inquadramento
nei ranghi di una moderna società di massa attraverso la
disciplina dell'ordinamento gerarchico e corporativo dei giovani o
dei lavoratori bilanciata da (o giustapposta a) quella clericale di
un’Azione Cattolica in costante crescita e giunta ai suoi
massimi livelli dopo il Concordato e dopo il riassorbimento dei fatti
del 1931, avevano concorso a modificare la stessa tradizionale
configurazione dei ceti popolari: in seno ai quali, infatti, antiche
contiguità avevano cominciato a lasciare il posto a nuove
distinzioni, più funzionali ai fini del regime totalitario,
allontanando gli uni dagli altri gruppi un tempo prossimi e affini
come, nei capoluoghi e nei centri cittadini, quelli artigiani ed
operai da quelli impiegatizi e piccolo borghesi. Che questi ultimi,
poi, fossero spesso stati guadagnati in modo epidermico e
superficiale se si vuole, ma nella sua provvisorietà e “corta
durata” anche effettivo, alla causa del fascismo e all'acritico
culto del Duce si può desumere da vari indicatori e non solo,
nel 1938, dalle accoglienze entusiastiche riservate al Capo del
governo in visita alle Venezie o, più in là, dai
racconti postumi come quelli persuasivamente congegnati da Goffredo
Parise ne Il prete bello. Ciò avveniva, tutto sommato,
a breve distanza dalla conclusione di un ciclo pluriennale di
proteste diffuse e oggi quasi del tutto dimenticate ovvero di una
miriade di “microsollevazioni” popolari generate fra il
1929 e il 1933 dall’erompere della grande crisi e da un’acuta
sofferenza occupazionale. Dopo la svolta delle leggi razziali,
inoltre, in chiara sintonia con l’incedere graduale della crisi
incubata dal regime e, soprattutto con le caute prese di distanza del
Vaticano, aveva cominciato a manifestarsi in molti ambienti del mondo
clericale veneto una certa quale irrequietezza, in bilico tra
afascismo e antifascismo, che aveva finito per rispecchiarsi o a
ripercuotersi, almeno a tratti e sino allo scoppio della guerra,
nell'indocilità dei più giovani , non solo quelli
aderenti ai circoli d'Azione Cattolica, ma anche (ed ancora
abbastanza a lungo) quelli saldamente inseriti nelle organizzazioni
giovanili, specie studentesche ed universitarie, di regime. Una
simile, per quanto relativa, effervescenza mista a insofferenza
aveva contagiato o riguardato pure alcuni strati generazionali
“coetanei” del proletariato agricolo e industriale mai
raggiunti sin lì, in via diretta almeno, dalla propaganda
clandestina dell'antifascismo politico portando qua e là a
un'impennata inattesa delle classiche “manifestazioni
sovversive” a base di scritte, di rudimentali volantini e di
canzoni saltuariamente intonate a mezza voce oppure anche, se tra i
fumi dell'alcool, dispiegata: “Benito, Benito/ te me ghè
consà pulito/te me ghè calà la paga/te me ghè
cresù l'afito”- “Bandiera rossa trionferà”
etc. assieme ad altri contrafacta musicali e canori di analogo
tenore torneranno non a caso a risuonare e a farsi sentire persino
nelle campagne (dov'erano abbastanza inusuali) dopo il 1942
distaccandosi sempre di più, come nel Vicentino e nel
Portogruarese, dalla zona incerta dell'eterno “mugugno”
antigovernativo in attesa di assumere quelle fattezze diverse e più
convinte di cui l'entrata in guerra dell'Italia aveva interrotto
l'evoluzione e a cui aveva messo, provvisoriamente, la sordina. Erano
comunque anche queste, se ben considerate, le spie secondarie di un
profondo disagio soltanto esasperato o acuito dal conflitto e,
insieme, le avvisaglie d'una incipiente e potenziale instabilità
che contraddiceva di fatto la tenuta all'apparenza granitica del
fascismo o le stesse proverbiali capacità di assorbimento
della società rurale. Al momento d'altronde, esse, trovavano
solo il coagulo aleatorio delle discussioni verbali in cerchie
intellettuali e scolastico-universitarie assai ristrette e ,più
di frequente, in ambienti protetti come quelli parrocchiali o
d'Azione Cattolica . Visti da un altro angolo di visuale
costituivano, però, anche i primi segni o gli effetti di un
mutamento in atto nel corpo della compagine sociale e produttiva
della regione dove, come si diceva, non tutto aveva continuato ad
andare per il verso noto e rassicurante avallato a suo tempo dalle
coreografiche campagne ruraliste di regime in netta e scoperta
controtendenza rispetto alle fascinazioni (e alle progressive
affermazioni) di una modernizzazione dal canto proprio, viceversa, in
marcia. Durante la decade del 1930 molte novità erano
intervenute infatti a rimodellare, anche sotto il profilo economico,
la fisionomia di un territorio ormai divenuto a pieno titolo
agroindustriale e teatro di evoluzioni importanti di cui si sarebbero
colte solo più tardi la strategicità e la natura
effettiva. Se fino al 1927, è stato giustamente detto da
Giorgio Roverato, “il Veneto presentava ancora la struttura di
una società in bilico tra arretratezza e modernizzazione, il
censimento che tra il 1937 e il 1940 rilevò comparto per
comparto la struttura industriale italiana dava dell'industria
regionale un quadro profondamente mutato”. Non solo con l'8,9%
delle unità produttive sul totale nazionale e con l'8,7% degli
addetti il Veneto si confermava allora nel ruolo di “terza
regione industriale” di tutta la penisola, ma in virtù
dell'aumento della potenza installata, superiore di cinque punti
percentuali a quello medio italiano, offriva una prova, soprattutto
in provincia di Venezia e di Vicenza, dei progressi compiuti e
dell'incremento produttivo che ne era scaturito a dispetto della
congiuntura non proprio felice dei primi anni trenta.
A
fronte di ciò si stagliava un panorama agricolo, certo
neanch'esso immobile o del tutto stagnante, ma ormai, anche là
dove fosse in ripresa, tendenzialmente oramai subordinato
all'industria ed importante soprattutto per gli approvvigionamenti
annonari che doveva garantire, perché le fabbriche grandi e
piccole di tutta la regione risultarono poi, nei venti mesi dal
settembre 1943 all'aprile 1945, anche “in campagna” tra
filande e altre manifatture, dei punti obiettivi e incontestabili di
riferimento e di orientamento se non pure di organizzazione, come
avrebbero voluto i comunisti e come in parte già accadeva nel
nascente “triangolo” lombardo-ligure-piemontese, della
protesta operaia e in genere dei ceti popolari di fronte alle
minacce di precettazione e d’invio in Germania della manodopera
locale dando quindi sicuro alimento alla lotta di liberazione e al
rassodarsi su scala regionale della Resistenza. Resistenza che a
livello “civile” e, appunto, popolare si diede dunque
sin dall'inizio, già all’indomani cioè dell’8
settembre, anche in moltissime zone rurali poco o punto toccate
dall’espansione agroindustriale classica e, per ovvie ragioni,
in quasi tutte le zone collinari e soprattutto montane presto
raggiunte dai “patrioti” in armi, dall'Altopiano dei
Sette Comuni al Vittoriese, dalla montagna feltrina al Cadore in
piena Alpenvorland (una delle due Zone d’Operazione in
cui Hitler aveva deciso non tanto di limitare, quanto di escludere a
Nordest ogni parvenza di sovranità della RSI su di un
territorio peraltro ormai tutto ampiamente presidiato dalla fitta
rete di Militarkommandaturen germaniche e da un capillare
apparato di sicurezza poliziesco nazista), con il concorso di uomini
e di donne per lo più di modesta estrazione sociale e
culturale per cui l'opposizione al regime di sfruttamento instaurato
dai tedeschi e avallato dai loro alleati/collaboratori repubblichini
rappresentava, ad onta di ogni progetto di socializzazione, il frutto
di una scelta pressoché obbligata, ma capace di saldarsi con
gli intenti e con gli scopi del movimento resistenziale più e
meno politicizzato. La sua nascita, nel Veneto, fu preannunciata come
dappertutto in Italia nell'ora più drammatica della Patria
"allo sbando" - ma nient'affatto “morta ” e
nemmeno in verità moritura - dall'ampiezza e dalla coralità
disperata delle reazioni senz'altro “popolari”, e
specialmente femminili di donne e di ragazze, al disegno preordinato
d’imprigionamento di massa dei nostri soldati lasciati senza
direttive dalle autorità badogliane e tuttora di stanza nelle
caserme e nei distretti militari della regione da parte dei reparti
scelti della Wermacht che inauguravano così, fra il 9 e il 13
settembre, la cupa stagione dell'occupazione e dell'amministrazione
militare germanica . Agli episodi sporadici di contrasto nei primi
giorni seguiti all'armistizio - di Verona dove l'8° Artiglieria
del col. Eugenio Spiazzi impegnava in violenti scontri a fuoco i
tedeschi o di Montebello Vicentino dove un centinaio tra soldati e
ufficiali della Compagnia Comando della Sesta Armata reduce dalla
Sicilia si battevano sino all'11 settembre sotto la guida del col.
Galliano Scarpa o, infine di una miriade di altre località
provinciali, con un bilancio indicativo di morti e di feriti - si
aggiunsero subito appresso i casi di tempestiva salita in montagna,
nell'alto vicentino, nel trevigiano e nel bellunese (dai Tretti di
Schio ad Asiago a Lentiai), delle prime piccole bande armate, animate
da militari fuggiaschi o promosse, più spesso, da militanti
del Pci, del Partito d'Azione e da singoli reduci delle Brigate
internazionaliste della guerra civile spagnola mentre, a livello
politico, già si organizzavano le file dei CLN provinciali e
del CLN regionale veneto, “divenute una realtà”
fin dai primi di ottobre del 1943 dopo il Congresso clandestino di
Bavaria del Montello. I centri propulsori della lotta armata votata
alla guerriglia che presto si sviluppò, sul finire dell'anno,
in molti punti della regione, risiedevano nondimeno, principalmente,
nelle città e gravitavano, com'è noto, attorno a
precisi ambienti intellettuali e studenteschi, soprattutto
dell'Università di Padova dove i nomi di Marchesi e di
Meneghetti, di Opocher e di Bobbio etc. rappresentavano e
riepilogavano il senso dell’impegno concretamente ora
dispiegato da molti dei loro allievi , ma furono ben lungi
dall’esaurire la serie delle iniziative, popolari e proletarie
stavolta, di rifiuto, attivo o passivo, e di opposizione sostanziale
e generalizzata allo stato di cose determinato e inasprito, anzi, dal
ricostituirsi del fascismo sotto specie repubblicane. La riapertura
delle federazioni del Fascio, del resto, era stata anch'essa
tempestiva, quantunque contraddetta e indebolita da uno scarsissimo
afflusso quantitativo di sostenitori in quasi tutto il Veneto su
impulso non solo di vecchi iscritti o di squadristi arrivati, al
seguito di Piero Cosmin, da Trieste, ma anche di non pochi soggetti
appartenuti alle seconde file del regime, pronti da subito a
schierarsi fianco a fianco dei nazisti coadiuvandone, prima che
arrivassero a farlo i cosiddetti (più tardi) “ragazzi di
Salò”, l'azione repressiva ai danni dei militari
connazionali in fuga o sbandati, degli antifascisti dei 45 giorni,
dei “badogliani”, dei partigiani della prima ora etc.
Essa era poi stata scandita, già nella seconda metà di
settembre, da Venezia a Padova, da Treviso a Vicenza, da episodi
significativi di delazione e di violenza che prevalsero sugli
sporadici tentativi (fatti da Eugenio Montesi Venezia, da Giovanni
Caneva a Vicenza, da Mario Plebani a Schio ecc.) per addivenire alla
più effimera delle “riconciliazioni nazionali”, ma
soprattutto dal manifestarsi di un misto fra apparente rottura e
desiderata continuità con il fascismo del ventennio incarnato
adesso dai simulacri e però anche dai luoghi fisici
direzionali e dalle strutture burocratiche persistenti, o meglio
incrementate, di un organismo statuale autoritario di nuovo conio in
cui le velleità autonomistiche cedevano quasi dovunque il
passo alla dura realtà del collaborazionismo e degli accordi
ancillari con la potenza straniera occupante. La genesi solo in
minima parte “autoctona” della Repubblica Sociale,
bagnata col sangue al Congresso di Verona - una delle città
chiave con “Venezia ministeriale” della RSI - portò
al primo e vistoso eccidio di rappresaglia per l'uccisione del
Federale di Ferrara Ghibellini. Già essa, quindi, apriva
obiettivamente la strada a un doloroso percorso di guerra civile,
presto disseminato d'inevitabili atrocità e di lutti,
innanzitutto in mezzo alle popolazioni e nel cuore stesso della
società rurale di cui la Resistenza veneta quindi conobbe (e
concorse talvolta a formare) gli aspetti più drammatici e
crudeli quantunque di altrettanta o meglio di superiore importanza,
nel suo seno, risultassero sempre gli elementi di una comune lotta di
liberazione patriottica e antitedesca nel nome di visioni
democratiche rinascenti (e quindi spesso ancora incerte e confuse) o
almeno in funzione della salvaguardia di equilibri interni non tanto
al “Paese” quanto forse, come pure è stato notato
da diverse parti, ai mille “paesi” che lo componevano. Né
mancava, in ciò, a fronte delle preoccupazioni di tutela delle
diverse comunità locali avallate più di tutti dal
clero, un’ulteriore e robusta componente, quella classista,
riflessa, secondo la nota e condivisibile tripartizione di Claudio
Pavone, nell'importanza presa dai momenti di più acre
conflittualità sociale, che - nel caso soprattutto dei
partigiani comunisti, i quali la consideravano preminente e
confermata, ai loro occhi, dalla maggior consistenza assunta nelle
attività di guerriglia “per bande” dalle
formazioni ad alta composizione militante e proletaria che si
sarebbero presto dette “garibaldine” (assumendo tra
l'inizio del 1944 e l'estate dello stesso anno nomi d'insieme
comprensivi di diversi gruppi e brigate, dalla “Garemi”,
attiva tra veronese, enclaves trentine e vicentino, alla
“Nannetti”, operante nel bellunese e nel trevigiano ai
confini con il Friuli o, meglio, con l’Adriatisches
Küstenland). Ciò non toglie che nell'ambito degli
sforzi e delle azioni popolari di contrasto al nazifascismo avutisi
in Italia non meno che nel resto d'Europa, quello del Veneto dovesse
qualificarsi altrettanto rapidamente e altrettanto evidentemente come
un movimento di “resistenza civile” in senso meno
ristretto del normale o comunque ben più ampio, come di
recente è tornato a suggerire per l'Italia Santo Peli, di
quanto le sue propaggini armate e combattenti, talora visibili ma
meno attive in pianura, potessero lasciar supporre a nemici e
avversari. E ciò anche a causa dell'opera, all'infuori di
Padova e di Venezia sporadica o carente già secondo Giorgio
Amendola, dei GAP cittadini, attesa la netta prevalenza degli atti di
sabotaggio sugli atti, a tutt'oggi discussi e per definizione
controversi, di “terrorismo”. A parte quelli solo
apparentemente catalogabili come tali e senz'altro più
numerosi, perché effettuati ai danni di brigatisti e di
militari davvero macchiatisi di torture, di crimini e di massacri
acclarati (come avvenne, a puro titolo di esempio, fra novembre e
dicembre del 1944, con l'eliminazione a Priabona, nel vicentino, del
capitano della Polizia Ausiliaria Giambattista Polga o ad Ogliano,
nel coneglianese, con l'uccisione di tre militi della locale XX
Brigata Nera, seguiti non a caso da rappresaglie eclatanti) essi
erano spesso tutt'altro che evitabili in un'atmosfera ferrigna di
guerra e, di più, in una logica cupa e spietata di “guerra
civile”. Logica e atmosfera tragicamente reali, senza ombra di
dubbio, e tuttavia non bastevoli a far assurgere quest'ultima, la
“guerra civile” appunto, a sola cifra generale o a chiave
di lettura dominante, degli eventi susseguitisi in Italia e nel
Veneto fra il 1943 e il 1945 così da ingenerare una postuma
forzatura interpretativa, com'è stata opportunamente chiamata,
incapace di rendere conto, se non altro e al di sopra delle pure
distinzioni formali, del fatto che lo scontro fra italiani ebbe luogo
all'interno di un ben più ampio conflitto politico militare e
con uno scarto evidente nei rapporti di adesione popolare emersi man
mano rispetto alla causa delle parti contendenti. Di parere diverso
erano all'epoca e rimasero poi, inevitabilmente, i sostenitori in
buona o in mala fede del nazifascismo, ma essi da ben prima della
fine di aprile del 1945 costituivano, come si è visto, una
minoranza in seno alla società veneta ancorché vi
fossero rappresentati durante la guerra non solo attraverso gli
uomini, le donne e persino i ragazzi che avevano deciso di
parteciparvi in armi (o comunque di contribuirvi fiancheggiando
attivamente la lotta antipartigiana con denunce e delazioni), bensì
pure, com’è ovvio, da alcuni strati borghesi e piccolo
borghesi sia delle città che dei centri minori di provincia la
cui consistenza appare francamente modesta.
Se
nessuno potrebbe infatti negare l'entità, anche qui difficile
ma non impossibile da accertare, del favore ottenuto dalla RSI in
alcuni settori fascisticamente più ideologicizzati oppure in
alcune prevedibili frange e categorie della società, ed in
particolare fra le classi di età in assoluto più
giovani, altrettanto difficili ed anzi impossibili da mettere in
dubbio sembrano l'ampiezza, la conformazione e le dimensioni del
consenso senz’altro superiore ottenuto fra la gente comune,
soprattutto nel Nord del paese e particolarmente nel Veneto, da un
movimento avverso ai fascisti e ai nazisti quasi mai guidato o
pilotato dall'alto e men che meno “etero diretto” in
prima istanza, bensì formatosi piuttosto spontaneamente su
basi popolari, comprendendo a propria volta al proprio interno un
elevato numero di giovani in età di leva e non di rado
dipendendo anche dalla rivitalizzazione in loco di un diffuso e
preesistente sentimento antitedesco. La lotta di liberazione
nazionale che, pur frammista alle spinte rivoluzionarie e classiste
sopra evocate, ne compendiò le principali ragioni e
motivazioni godette cioè di un appoggio sociale più
vario e più consistente se non addirittura imponente, come
appresso vedremo per il Veneto, giungendo ad ottenere via via la
convergenza tacita della Chiesa e di buona parte del clero che anche
nell'esprimere propositi e intenti di neutralità
“istituzionali” super partes alla fine
contribuirono in misura notevole al rigetto e alla condanna sia delle
ragioni che delle azioni intraprese dai fascisti repubblicani.
Questi
ultimi, dal canto proprio, non a caso ostentarono sino alla fine, in
pubblico e sui giornali, la certezza, rabbiosa e impotente, ma non
sempre infondata, che a remare contro di loro si fosse messo tutto un
mondo tradizionalmente decisivo e influente nella regione come quello
clericale con il vasto corredo delle sue parrocchie, dei patronati e
dell'associazionismo cattolico incoraggiati a comportarsi così,
ben oltre la funzione “benedettina” della Chiesa, da
molte Curie e, al massimo livello, da cardinali come mons. Elia Dalla
Costa e addirittura da “un partigiano eminente” come il
Pontefice! Il che, naturalmente, in questi termini enfatici, non era
vero o appariva plausibile e verosimile solo in una certa misura e
comunque entro i limiti segnati da una fortissima pregiudiziale
anticomunista di matrice religiosa che non prevedeva, di norma,
sconti, rinunce né particolari attenuazioni fossero anche
strumentali.
Sui
rapporti fra città e campagna inoltre, ossia, semplificando
alquanto, fra mondo urbano della mobilitazione politica laica e mondo
rurale delle reazioni tutt’al più spontanee ed istintive
oppure incanalate d'ufficio dai preti nell'alveo di un moderatismo
“perenne” e già predisposto a garanzia degli
equilibri prossimi venturi del Veneto postbellico, esiste, fra gli
storici, un ampio dibattito che si è venuto precisando ed
ampliando in questi ultimi anni grazie all'opera di vari autori che
tutti più o meno insistono sulla tenuta e sulla continuità
di un quadro sociale dato nel quale, di conseguenza, si sarebbero
appena potute innestare le scelte di rottura politica compiute in
modo sofferto, ma limpido e comprensibile, da non pochi giovani
specie cattolici, ex militari di leva e soprattutto ex fascisti. I
casi emblematici e consonanti, in molti sensi, di Maso e di Masaccio
(Pietro Maset e Primo Visentin) di formazione a tutto tondo clericale
e di estrazione contadina piuttosto modesta, con pregresse esperienze
di coinvolgimento nel sistema fascista a livello locale in modo non
troppo dissimile dagli studenti “gufini” e dai “littori”
piccolo borghesi alla Meneghello, ma gravitanti ormai, con essi,
nell'orbita dell’azionismo a sfondo mazziniano, inducono
indubbiamente a ripensare le diverse opzioni delle parti
generazionali e sociali in causa (comprese, si badi, quelle fasciste
repubblicane a giudicare anche solo dalla parabola emblematica del
trevigiano Enzo Pezzato). Per quanto più frequenti di quel
che un tempo si credeva e tali anzi da riguardare, altrove, pure un
buon numero di giovani e meno giovani assenti pour cause dal
teatro dello scontro (e per ciò colpevolmente trascurati dalla
vecchia storiografia) come gli internati e i reduci dai fronti di
guerra detenuti o costretti dai nazisti al lavoro coatto nei campi di
concentramento in Germania, ma refrattari all’appello di
Graziani e di Mussolini per un arruolamento nell’esercito di
Salò (con un occhio rivolto al comune afflato religioso
d’origine e con un altro all’“alpinità”
condivisa del loro patriottismo si pensi anche solo a figure come
quella dell'asiaghese Mario Rigoni Stern), tali casi tuttavia non
esauriscono da soli la vasta gamma degli atteggiamenti e dei gesti,
anche minimi, di opposizione sociale e di sfida consapevole al
nazifascismo maturati fra le popolazioni. Memorialistica a parte, ne
resta traccia misurabile soprattutto, per ironia della sorte, fra i
carteggi, le intercettazioni epistolari e le documentazioni
poliziesche di parte avversa. Questo succede inducendo però
anche letture distorte dei fatti e propiziando, per converso, la
fortuna storiografica di concetti ambigui e scivolosi pari a quello
defeliciano di “zona grigia” assurto ultimamente, assieme
a molti discorsi sulla “divisività” italiana, a un
grado di rilevanza euristica francamente spropositato. Come se
davvero, a fronte di un’esigua minoranza di avanguardie e di
“teste calde” dell'una e dell'altra parte, potesse
ergersi soltanto una massa imponente ed inerte, indifferente e
silenziosa nonché completamente sprovvista di agganci e di
collegamenti - fisici, familiari o psicologici - con esse, la
drastica suddivisione che ne consegue fra gruppi e comparti della
società civile terremotata dalla guerra e dalle sue
conseguenze conduce a semplificazioni inaccettabili e gradite
soprattutto al divulgativismo giornalistico e televisivo dei giorni
nostri in cui (e per cui) si fa sommaria giustizia di una realtà
che in entrambi i campi o schieramenti fu invece infinitamente più
complessa, articolata e sfumata. Lo potrebbero dimostrare, oltre agli
esempi somministrati dalle scelte dei giovani, una vasta serie di
comportamenti legati al rifiuto della guerra che era poi, del
fascismo, l’emblema o lo sbocco meglio conosciuto e detestato.
Essi non si concretizzarono soltanto nel fenomeno della mancata
risposta ai bandi di reclutamento e alle minacciose sanatorie di
Mussolini ovvero nella renitenza e nella diserzione “attive”,
che spesso generarono il passaggio decisivo nelle file della lotta
armata antifascista di molti giovani e meno giovani destinati a
diventare partigiani a tutti gli effetti (e, sporadicamente, anche i
ripensamenti di pochi soggetti i quali ritennero di dover militare
ora nell'uno e ora nell'altro campo pensando di poter praticare con
proprio vantaggio l'ambiguità dei ruoli, il doppiogiochismo
ecc.), bensì nel rifiuto corale di un conflitto che solo i
fascisti repubblicani, e forse neanche tutti, volevano continuare.
Questa, quanto meno è la realtà ritratta dai notiziari
giornalieri della GNR di tutto il Veneto dov'è facile cogliere
il senso iniziale di una protesta popolare legata alle sofferenze e
ai disagi, in primis economici e alimentari, che il
prolungamento del conflitto comporta, ma dov’è altresì
possibile leggere, e neanche tanto in filigrana, il progressivo
abbandono di ogni ritegno e di ogni prudenza di tipo “politico”
che suona a evidente condanna del regime collaborazionista e ad
approvazione non solo implicita di chi vi si oppone anche, se
necessario, in armi. Innanzitutto il nemico per definizione ossia gli
angloamericani di cui si pronostica ed anzi ci si augura, (a
Venezia,15/6/1944) la vittoria. Sebbene “ciò sia dovuto
- secondo gli estensori del notiziario - in gran parte alla
propaganda nemica che continua a far presa sull’animo delle
popolazioni” questo non lasciata adito a dubbi perché
poi in molti luoghi “si nota, nella massa, un senso di
diffidenza e di indifferenza che accompagna qualsiasi provvedimento
emanato dal Governo Repubblicano”. Lo spirito pubblico che ne
consegue è di conseguenza, come minimo, “depresso”
(“quasi generale [è] il desiderio che la guerra finisca
qualunque ne sia l'esito”. Treviso, 12 giugno 1944) come
dimostra l’andamento quasi ovunque disastroso dei reclutamenti
(Padova 17/12/1943 e 20/1/1944, Rovigo 13/5/1944 ecc.) e il
perseverare della maggioranza in una “indifferenza che è
vera e propria insensibilità morale di fronte ai dolorosi
avvenimenti che interessano tanto da vicino il nostro Paese. Vi è
anzi molta gente - si aggiunge - che specie nelle campagne dà
asilo a prigionieri, renitenti e disertori, ostacolando l'azione
delle forze di polizia”. Un analogo appoggio viene offerto
persino in ambito urbano dove, tolte poche città come Bassano
o Verona in cui “l’indole stessa della popolazione
esclude, in regime di controllo, aperte manifestazioni di protesta”
(Verona,6/3/1944), si vedono affiorare tendenze inequivocabili di
sostegno alla lotta ingaggiata dai partigiani. Non solo in capoluoghi
come Venezia e Padova a cui l'Università e l'ambiente
studentesco conferiscono connotati di spiccata “ostilità
verso il fascismo” (Padova, 3/4/1944), bensì pure in
piccole città sul genere di Treviso dove “la maggioranza
della popolazione, specie la più abbiente e intellettuale,
favorisce, sia pure nascostamente e con molta cautela, le bande di
ribelli esistenti nella zona”. (Treviso, 3/3/1944). Né
va diversamente in provincia se anche qui “vi sono molti
elementi di razza ebraica di origine straniera che vivono nelle
campagne con il favoreggiamento dei contadini”. Colpa dei
preti, assicurano pressoché compatti gli informatori (Padova
1712/1944)) , poiché l'azione del clero è per lo più
“intonata a sentimenti antifascisti. Molti sacerdoti, specie
quelli di campagna, proteggono i ribelli e gli antifascisti e
svolgono azione di propaganda soprattutto sfavorevole ai germanici
che rappresentano anticattolici, più degli stessi comunisti”
(Treviso, 3/3/1944). Anche a Vicenza, dov'è particolarmente
infuocata la polemica anticlericale condotta dal quotidiano del
Fascio Repubblicano, il “Popolo Vicentino”, e dai suoi
redattori o collaboratori (dal direttore Angelo Berenzi alla SS
italiana Giuseppe Mugnone, animatore del periodico filonazista
«Avanguardia», al giovane “futurista” Ubaldo
Serbo) le cose non vanno meglio: “L'avversione della gran parte
della popolazione contro il Governo Sociale Repubblicano - si scrive
già il 28 dicembre 1943 - permane. Gran parte della massa non
vuol più sentire nominare il Duce; altri non vogliono più
sentire pronunciare la parola Fascismo. La recente radiotrasmissione
pronunciata dal Duce, ha provocato gioia e commozione ai soli pochi
fascisti esistenti in provincia; la rimanente massa è rimasta
completamente inerte...In provincia, ma specialmente nella zona
montana vi sono tuttora numerose bande armate di ribelli che vengono
riforniti di generi ed altro dalla compiacente popolazione”. I
tedeschi sanno, ma per il momento non hanno predisposto misure
particolari né, ancora, rastrellamenti, mentre il clero, dal
canto suo, lavora in profondità e “assai s'ingerisce
[sic], seppure in forma occulta, di questioni politiche e militari.
L'omertà in questa zona è fortissima, e le persone che
vengono colte in fallo per questioni politiche o non, si fanno
piuttosto fucilare che fare i nomi dei loro mandanti...” Di
omertà e di sistematico favoreggiamento parlano poi i
notiziari provenienti dalla montagna bellunese dove, si osserva, “è
noto che in alcuni centri ...l'organizzazione ribelle arriva fino al
punto di assegnare per l'alloggio e il vitto uno o più
individui per famiglia; ciò [che] viene fatto quasi sempre
volentieri e gratuitamente” (Belluno 4/4/1944). Apatia,
attendismo e ostilità sotto traccia nei confronti del fascismo
repubblicano sarebbero invece propri, in Polesine, “del ceto
più elevato” (Rovigo, 2 aprile 1944) in un modo che
però, “di riflesso, incide [anche] sulla classe
popolare” e che non tarderà infatti ad esplodere, al
momento opportuno, nelle campagne del bracciantato con rara violenza
classista. Il “momento buono” si aspetta pure nel
bellunese e nel feltrino dove, al di là degli atteggiamenti
“omertosi”, “le popolazioni delle zone nevralgiche
della provincia” cominciano ad orientarsi, in primavera, sempre
più risolutamente contro la RSI al punto che quando si sparge
la voce, peraltro infondata, che i tedeschi presto si ritireranno
dall’Alpenvorland, la notizia (Belluno, 12/3/1944)
“anziché essere accolta con giubilo ‘produce’
viva apprensione nella massa per il previsto ritorno in provincia
della G.N.R., dei reparti dell'Esercito Repubblicano e della
conseguente reazione fascista”. Dove la presenza tedesca
appare più salda e massiccia come a Verona, ad onta di qualche
clamorosa impresa sul genere, il 17 luglio 1944, della liberazione
dal carcere degli Scalzi da parte dei GAP di un leader sindacale
comunista dell'importanza di Roveda, le idee di rivolta riescono un
po’ per volta, a fare breccia tra la gente o almeno a farsi
strada in certi luoghi di lavoro insospettabili, magari approfittando
dei pretesti offerti da serie tensioni in atto dentro agli uffici
ministeriali cittadini fra gli impiegati meridionali, il cui numero
è in continua crescita, e gli impiegati, invece, originari del
posto (ossia fascisti anch'essi e però “sanzenati”,
montebaldini, del Chievo, di Veronetta ecc.). “A destare larga
eco di commenti” presumibilmente sfavorevoli e negativi nella
popolazione che per questo - si comunica - “fantastica le più
insensate allusioni sui sistemi di vitto e di lavoro praticati in
Germania” (Verona, 12/61944) è soprattutto, però,
“il rimpatrio” da qui “di elementi già
‘internati nei’ campi di concentramento in Germania,
malati di tbc e in parte assegnati al sanatorio della frazione di
Chievo”.
Sta
di fatto che politicamente, dovendo tirare le somme per il Veneto di
una casistica dei sentimenti popolari verso il PFR così
variegata, ma in linea di massima dappertutto negativa, quella che
ovunque s'impone è la stessa considerazione sconsolata svolta
a proposito dell'Italia repubblicana nel suo insieme già
esplicita nel lungo promemoria redatto alla fine di aprile dal capo
della Polizia per Mussolini, un interessante documento di cui Renzo
De Felice aveva fornito, prima di morire, il testo sia pure
leggendolo e interpretandolo a modo suo: “E' veramente doloroso
constatare - vi si legge - la generale impopolarità di cui è
circondato il partito nelle provincie. Non è a dire che il
fenomeno sia limitato a zone o, comunque, legato a situazioni
ambientali o al comportamento di determinati dirigenti - No. Si
tratta di uno stato d’animo collettivo, comune al grande ed al
piccolo centro - identico in tutte le località”.
Rispetto ai distinguo, alle sfumature e alle nuances che
maggiormente colpivano lo storico reatino, sembra più
interessante e produttivo soffermarsi su altre contraddizioni che
pure filtrano dalle corrispondenze censurate e dai resoconti
riservati in merito alle difficoltà alimentari o ai
bombardamenti. Le preoccupazioni economiche più elementari
sono all’origine sia di scioperi e di proteste operaie di cui
qualcosa si sa anche per il Veneto e sia di assembramenti minacciosi
di donne come accade il 17 marzo 1944 a Caltrano quando in otre 150
esse manifestano contro gli ammassi (Vicenza, 5/4/1944) e come
avviene, con classici strascichi irriverenti, a Minerbe (Verona,
4/5/1944) in urlato dissenso rispetto all'obbligo di conferire
all’annona le uova seguito, “durante la notte”, dal
lancio da parte di “ignoti” appunto di “numerose
uova contro le case del Podestà, del Segretario comunale e
contro la porta d'ingresso del Municipio”. Lo sconvolgimento
dei mercati, “che aveva riportato il commercio allo stato del
baratto” determina, d'altro canto, anche il risentimento dei
ceti borghesi e piccolo borghesi verso i contadini che, si scrive da
Borgo di Piave (Belluno),“sono ingordi e mai contenti”:
un risentimento di cui v'è più di qualche traccia,
infatti, nelle lettere intercettate dalla polizia. Alle
recriminazioni nei confronti degli agricoltori e, in genere, degli
speculatori si possono accostare, con prudenza, le diverse
sensazioni, oltre a quelle inevitabili di orrore e di sgomento,
suscitate da tutt'altro genere di esperienze come le emergenze
belliche della “guerra ai civili” praticata dal cielo
dalle fortezze volanti angloamericane con lo sganciamento di ordigni
micidiali e con criminali mitragliamenti mirati. I commenti
epistolari di cui si dispone, seguendo in privato i più feroci
bombardamenti sul genere di quello con cui viene devastata e
semidistrutta Treviso il 7 aprile 1944, esprimono anche odio e
rancore più che comprensibili nei riguardi dell'aviazione
alleata (su cui non si contano le maledizioni e i propositi teorici
di vendetta), ma non sembrano contraddire, più di tanto, una
tendenza pragmatica che scorge in essi un modo fin che si vuole
doloroso, ma efficace per affrettare la fine della guerra. Il quadro
medio che emerge è in definitiva lo stesso registrato dai
mattinali della GNR che, semmai, al biasimo per tale atteggiamento
dei sopravvissuti aggiungono la solita astiosa condanna dei preti e
della Chiesa. A Padova , il 19 giugno 1944 si annota ad esempio che
il clero “mantiene sempre lo stesso contegno di diffidenza
ostile verso il regime e i tedeschi. Di fronte alle distruzioni delle
chiese, ospedali, istituti, innanzi alle bare di tante vittime
innocenti, solo qualche voce si è levata contro i metodi di
guerra degli angloamericani. La maggior parte del clero ha passato in
silenzio tanta strage e, sotto il manto della pietà, ha dato
asilo e rifugio ai prigionieri di guerra, sbandati, renitenti e
disertori”. Del resto non diversamente reagisce il grosso della
gente straziata dal lutto che il mattino del 14 marzo 1944 “in
Casale Scodosia, durante i funerali di tre vittime del bombardamento
di Padova, svoltisi con la partecipazione di autorità e
componenti della G.N.R.” parla con la voce straziata di “uno
sconosciuto...cui fece eco la popolazione” udito distintamente
gridare “Non vogliamo divise”!
Se
di rassegnazione “al peggio” si tratta, lo è nel
senso ritratto dal passo di una lettera veneziana dell'agosto 1944 in
cui il mittente auspica la fine di un conflitto “che ci ha
rovinati tutti...almeno venissero avanti gli inglesi e gli americani
che se staremo peggio non ce ne importa”, oppure, ancora,
secondo le previsioni espresse, lo stesso mese da Treviso, in uno
sfogo sulle “cose che precipitano” e contro la cui piega
“non c'è più niente da fare:....rammaricarsi non
val la pena, tanto sarebbe inutile. Che venga la pace poi si vedrà”.
I
responsabili del disastro, ad ogni modo, vengono per lo più
individuati nei fascisti la cui ostinazione rasenta, a parere di
molti, la follia. In una lettera da Crosara di Marostica, censurata
nel febbraio del 1945, al proprio interlocutore chi scrive
raccomanda: “Se non puoi venire porta pazienza che credo che i
russi siano ormai vicini a fare capire a quelle bestie dalla testa
dura che ancora con la corda alla gola gridano vincere, ma non credo
che ci resti tanto cioè ancora molto tempo a gridare ed a far
soffrire molta gente di fame e di tutto”.
Se
la monumentalizzazione della Resistenza e gli usi politici postumi
del suo ricordo pubblico hanno puntato, per molti decenni, a fornire
una lettura degli eventi unanimistica o appena scandita dalle
differenze partitiche presenti in seno al fronte che la compose
aggregandovi quasi “d'ufficio” la stragrande maggioranza
delle popolazioni, è vero d'altro canto che ciò, oltre
a ritardare enormemente la riflessione “sul nemico”(e
quindi sia sui tedeschi che, soprattutto, sui giovani e, in genere,
sulla “gente di Salò”), ha anche fatto sì,
paradossalmente, che non si sia provveduto a indagare concretamente
ossia con la necessaria lucidità e tempestività e
soprattutto con strumenti adeguati (come ad esempio, per dirne una
sola su cui ritorneremo, la panoplia delle fonti esistenti presso
l'Archivio Centrale dello Stato e presso l'Archivio dell'Ufficio
Storico dello SME), una realtà sul serio attestatasi, ai più
vari livelli dell'organismo sociale, su posizioni di netta ripulsa
della guerra, dei tedeschi e però anche del fascismo
repubblicano, ben al di là di quanto permetta dunque di
concepire, se accolta senza beneficio d'inventario, l’attribuzione
in esclusiva solo a poche minoranze coscienti" di un ruolo
attivo nella lotta che divampò terribile fra il1943 e il 1945
in Italia e nel Veneto, sede fra l'altro, della maggior parte dei
Ministeri della RSI e ridiventato, per le annessioni al Reich di
tante terre italiane, regione nevralgica di confine.
La
progressiva scomparsa , d'altro canto, dal lessico della storiografia
filoresistenziale, tra gli anni cinquanta e la metà degli anni
ottanta del novecento, del sintagma “guerra civile” o
l’imporsi, intrecciato ad essa, di prospettive legate a un'idea
assai nota e a lungo accettata di Resistenza come “secondo
Risorgimento” ha promosso più tardi, sino ai giorni
nostri, il ciclico riemergere di vedute in gran parte
“anacronistiche” e di obiettivo intralcio alla corretta
comprensione del ruolo svolto nella lotta di liberazione proprio
dalle classi popolari e in particolare da quelle contadine il cui
presunto ritrarsi dopo un iniziale appoggio offerto al movimento
antifascista ricorda da vicino, in molte letture traguardanti agli
assetti postbellici, la tempistica dell’iniziale adesione alla
rivoluzione antiaustriaca del 1848 e quella del successivo
allontanamento da essa delle popolazioni rurali del Lombardo-Veneto,
amputata però del sostegno di gran parte del clero che invece,
nel 1943-45, vi fu e si ebbe anzi assai spesso in forme propositive,
crescenti e diffuse. Anche sorvolando sul rischio parallelo, presente
ad esempio in molti sondaggi pur pregevoli di Egidio Ceccato, di
desumere pressoché sempre a posteriori il reale significato di
alcune dinamiche resistenziali del Veneto centrale nel biennio
1943-45 dallo sviluppo di eventi politici successivi, come l'ascesa
irresistibile della DC fra il 1948 e gli anni cinquanta, considerati
tutti già in fieri durante il periodo resistenziale, è
un fatto, intanto, che alcuni storici (Miccoli, Gios, Casella etc.),
a conferma degli studi pionieristici realizzati da Silvio Tramontin,
sono riusciti a documentare, forse qua e là anche
preterintenzionalmente, ma sempre “in presa diretta”
grazie al recupero e all’edizione di diari e cronistorie
parrocchiali, l’evolvere non dappertutto lineare, e tuttavia
più probabile, della situazione nel Veneto profondo delle
campagne e dei centri rurali minori, restituendoci il senso più
vero del progressivo schierarsi in favore della Resistenza di preti e
di curati nel modo che era stato ben visto da Giorgio Bocca e, per il
Veneto, da Ernesto Brunetta. Esso, va pure detto, non escluse mai,
dentro di loro, il permanere di robuste convinzioni conservatrici,
moralistiche, radicalmente anticomuniste ecc. e non impedì
nemmeno, all'interno del loro gruppo, che un certo numero di parroci
e di altri sacerdoti rimanessero più vicini o si schierassero
esplicitamente al fianco del Duce e di Salò (non
necessariamente sulle posizioni di “Crociata Italica” e
dei cappellani militari della RSI o, per il Veneto, del periodico
veneziano «L'Italia Cattolica», ma sempre con venature
reazionarie indiscutibili e con riflessi d'ordine non sgraditi,
sovente, anche ad alcune gerarchie locali). Il clero filofascista,
tuttavia, si trovò abbastanza presto, nel Veneto, spiazzato e
infine, nonostante la cautela esibita da vari ordinari diocesani, in
netta minoranza, dovendo fra l'altro operare, il più delle
volte, nelle stesse zone in cui la guerra civile era esplosa sì,
a giudizio di tutti, “come un uragano”, ma dove altri
preti assai più numerosi ne controbilanciavano la predicazione
senza mai rinunciare a una stessa missione umanitaria (come successe
tra il veronese e il vicentino a Vestenanuova e a San Giovanni
Ilarione secondo si ricava dagli eloquenti resoconti contrapposti dei
due parroci locali, don Attilio Benetti e don Antonio Antoniol). Una
missione certamente spesso comune e condivisa che spiega, subito dopo
la guerra, la particolare sensibilità dei cattolici per gli
aspetti apparentemente più inspiegabili e paradossali di una
contesa “fratricida” la quale aveva messo sovente gli uni
contro gli altri uomini, e specialmente giovani, legati in precedenza
da stretti vincoli di amicizia e di vicinanza esistenziale, ma che
spiega altresì, al di là della tentazione “di
fare elenchi di preti antifascisti da contrapporre a quelli devoti
alla Repubblica di Salò” - calcolo peraltro non del
tutto impossibile da fare al giorno d'oggi - la stessa “pluralità
e molteplicità delle loro scelte”. Se tali scelte
infatti svariarono dalla neutralità al coinvolgimento diretto,
come pure Gios afferma respingendo la plausibilità dei minuti
conteggi, resta comunque, per usare le sue stesse parole, che esse
andarono “dall'aiuto occasionale e momentaneo alla
partecipazione attiva e costante alla Resistenza, specialmente quando
questa raccoglie[va] i giovani del luogo ed [era] guidata da capi di
cui condividevano l'orientamento politico” realizzando così
anche quell'incontro “tra la linea moderata della chiesa e le
esigenze dei piccoli e medi coltivatori” di cui giustamente
parlava già molti anni fa Ernesto Brunetta. E basterebbero, a
mio avviso, a comprovarlo molte “microstorie” di
parrocchie e di parroci sicuramente antifascisti della estesissima
Diocesi di Padova pazientemente recuperate proprio da Gios o, prima
di lui, per la diocesi di Vicenza, quelle messe in fila da Giovanni
Battista Zilio con lo spazio fatto a figure modeste di modesti
sacerdoti che però sul serio si spesero a vantaggio dei
partigiani al modo, per citarne uno solo, di don Luigi Pascoli, il
curato di Povolaro alle porte del capoluogo berico, nipote del poeta
e discendente in linea materna d'illustri patrioti e d'altri
personaggi del Risorgimento bellunese. In definitiva, potremmo
concluderne, il clero filofascista venne sopravanzato se non altro da
simili circostanze e dai revirements della maggior parte dei
preti in cura d'anime nonostante il saltuario coinvolgimento loro e
dei loro familiari in vicende personali contraddittorie e a volte
piuttosto atroci (si pensi all'assassinio, ai Tretti di Schio, di don
Pietro Franchetti per mano di due squadristi che ne sospettavano la
complicità con i “senza Patria e senza Dio” oppure
all'uccisione, per mano stavolta di partigiani, dei fratelli del
Vicario generale della Diocesi di Vicenza, mons. Snichelotto e
dell'Arciprete di Schio, mons. Tagliaferro, considerato a buon
diritto questi, dai repubblichini, un “subdolo antifascista”).
Proprio
la consapevolezza degli orientamenti assunti o via via raggiunti con
tutte le prudenze del caso da un numero consistente di parroci e di
cappellani, fatti oggetto perciò di felpato controllo, ma
anche di aperta persecuzione, se necessario, da parte delle autorità
repubblicane e, autonomamente, dai fascisti in ordine sparso che non
esitarono a colpirne e ad ammazzarne più d'uno, incoraggiò
da un lato, in tutto il Veneto, l’afflusso dei cattolici nelle
formazioni democristiane più e meno operative o combattenti e
facilitò, da un altro, nonostante fosse ben chiaro sin
dall'inizio il rischio d'esporsi alle tremende e indiscriminate
rappresaglie dei nazifascisti, la scelta compiuta in favore della
Resistenza da molti contadini di profonda religiosità e quella
non dissimile e concorde di tante piccole comunità rurali. In
seno ad esse, peraltro, la guerra guerreggiata non mancò di
assumere alle volte, oltre a quelli del turbine e del cataclisma
“naturale”, anche i sembianti litigiosi dello scontro
paesano, di faida o di fazione, scatenando o rinnovando antiche
vertenze di natura privata su cui pure, qua e là, i partigiani
furono chiamati a pronunciarsi e pressoché costretti ad
“ingerirsi” ma, soprattutto, contemplò (o
comportò) , da parte loro, per motivi logistici del tutto
evidenti nonché per ovvie necessità di
approvvigionamento, la pratica chiacchierata e nota dei “prelievi”.
Essi di rado avvenivano ai danni di singoli e di famiglie,
verificandosi più spesso a spese di cooperative, di caselli,
di latterie sociali ecc. con asportazione di generi di consumo
primari (soprattutto latticini e formaggi, ma anche vino, bovini,
ovini ecc.) per opera di “patrioti” e di “ribelli”,
nonché di sbandati e ,“contro l’interesse”
di tutti costoro, di veri e propri malviventi ai quali non era
difficile quindi usurpare un controverso titolo di combattenti
concorrendo con ciò alla diffamazione in blocco della
Resistenza perseguita dalle demonizzazioni che i nazifascisti e la
propaganda repubblichina cercavano di attuare nei confronti dei suoi
aderenti, magari per sviare, già che c'erano, l'attenzione
dell'opinione pubblica da una lunga serie di illecite “operazioni
di polizia annonaria” sentite come intollerabili dalla gente e
commesse invece, tra violenze sanguinose e crudeli uccisioni, dalle
Brigate Nere e da squadristi, secondo la stessa GNR, “profittatori”
(come i furti, i sequestri, gli abusi ecc. segnalati per il Veneto -
a Rovigo, a Padova, a Camposampiero, a Treviso ecc. - da Gianpaolo
Pansa o come quelli oggetto già all'epoca di “vibrata
denuncia”, per citarne una fra le molte, da parte dello stesso
Capo della Provincia di Treviso, Generale Bellini, per le località
di Gaiarine, Codogné, Oderzo, Cornuda etc.). I partigiani,
tuttavia, com’era costretta qualche volta ad ammettere in
cronaca, a denti stretti, persino la stampa del “fascismo
estremo”, raramente rubavano in senso stretto. Di solito
asportavano quantità anche rilevanti di beni alimentari, ma
quasi mai senza rilasciare ricevute che non erano dei semplici “pezzi
di carta” (i quali pure circolarono sotto forma di cambiali o
di quei “pagherò” a cui l'ex littore Enzo Pezzato
già legato d'amicizia con vari antifascisti suoi coetanei ,
attribuiva in un lungo dossier edito da “Repubblica Fascista”
scarso valore e sprezzanti espressioni), bensì vere e proprie
lettere accompagnatorie di somme di danaro in effetti versato perché
i famigerati o malfamati patrioti ciò che prendevano lo
pagavano poi nella maggior parte delle occasioni in moneta sonante -
secondo un calcolo attendibile riferito all'alto vicentino
addirittura nel settanta per cento dei casi - e sia pure attenendosi,
particolare significativo, ai prezzi correnti o, più spesso,
di calmiere. Con il partigiano “nemico della leva e
dell'ammasso e cioè dei nemici del contadino” che innova
“nobilitandole” antiche forme di protesta e di lotta non
ignote o sgradite al mondo rurale tradizionale (renitenza,distruzione
delle liste militari, assalti ai municipi con incendio dei registri
fiscali ecc.) si può dunque instaurare e sia pur sulla base di
un diffuso “malcontento economico”, ma nel rispetto di
un'etica comunitaria condivisa, quell'alleanza “ambientale”
che mancherà del tutto, invece, al governo della RSI e ai
suoi rappresentanti, massime se in divisa di brigatisti neri, di marò
della X Mas, di legionari della “Tagliamento” o di SS
italiane.
I
mille esempi di protezione e di ospitalità spontaneamente
accordate dalle famiglie rurali agli sbandati, ai combattenti in armi
ed anche ai prigionieri alleati in fuga o agli ebrei, devono essere
dunque ricordati a questo punto, com’è giusto, quali
fatti indicativi di una tendenza prevalente assieme ad altre
circostanze somiglianti o anche a episodi invece del tutto
differenti, ma numericamente assai ridotti e geograficamente
circoscritti, di presa di distanza, di allontanamento e, talvolta,
addirittura, di denuncia alle autorità germaniche e
repubblichine di chi chiedeva aiuto o più semplicemente si
aggirava nei dintorni , da parte di gente del posto, di solito
persone al corrente dei fatti e investite, nei paesi, di qualche
residua carica fascista (come, per fare un unico esempio, i due
trentenni di Altivole che a Zapparè di Trevignano causarono
una delle tante stragi per “punizione” perpetrate dai
nazisti fra il 1944 e il 1945 ). Inoltre è abbastanza noto che
al di là di alcune violenze e di altri atti intimidatori
indubbiamente compiuti anche da partigiani ai danni di questo o
quell'agricoltore, magari con il pretesto di una sua appartenenza al
Fascio repubblicano, e a parte certe gesta pratico-simboliche più
vistose di “esproprio” e di “luddismo
antimunicipale” su iniziativa di pochi capi-banda mal tollerati
anche dai CLN o di gruppi border-line ben identificati, sul
rapporto con i contadini incombeva e sempre s'impose, in generale, la
grande questione, bene esaminata a suo tempo da Ventura e da
Brunetta, della loro riluttanza o, meglio, della loro sistematica
disobbedienza all'obbligo di versare i prodotti agli ammassi e,
congiuntamente, quella del relativo potere che proprio ad essi in
tali circostanze aveva finito per conferire l'ampia “manovrabilità”,
ma solo nelle zone maggiormente fertili e ricche che non sempre
coincidevano con quelle montane e pedemontane di ordinario
insediamento partigiano, delle derrate agricole e d’altre
ingenti risorse alimentari, dai più degli allevatori e dei
coltivatori collocate in effetti, e a preferenza, sul mercato nero. I
lavori di raccolto e di trebbiatura che in varie occasioni la stampa
neofascista segnalava come presidiati da ingenti forze di polizia e
militari repubblicane, non lo erano infatti solo per tenere a bada i
male intenzionati e quindi, per loro unilaterale definizione, i
“ribelli della montagna”, ma piuttosto per esercitare un
controllo fiscale sulla produzione agricola che si sapeva “votata”
a sfuggire, in gran parte, alle destinazioni prescritte. I suddetti
ribelli, va detto d'altro canto, non sempre potevano ricercare, in
simili frangenti, le vie amichevoli e interlocutorie della trattativa
e intervenivano talora con foga eccessiva e con eloquente risolutezza
didascalica per ricordare ai contadini i propri “doveri”
verso un movimento che li aveva e ancora li avrebbe aiutati a
emanciparsi dalla rapacità di tedeschi e fascisti ingenerando
però, in alcuni di loro, il sospetto di aver a che fare solo
con estorsori appena di altro colore o di altro genere. Non tanto
gente “venuta da fuori” però, perché il più
delle volte, tolto il caso degli ex prigionieri alleati aggregati
alle bande o quello di alcuni gruppi esterni come i “bolognesi”
nel bellunese, i partigiani, nella percezione corrente, non erano né
dei “foresti” né, quasi mai, degli uomini
sconosciuti alle comunità di zona, quanto dei giovani
pressoché consanguinei e tuttavia “avventati”,
incapaci di comprendere sino a che punto potesse spingersi la
solidarietà popolare nei loro confronti pur rimanendo sempre
infinitamente meno estranei e distanti dalla sensibilità
paesana di quanto non lo fossero i combattenti dell'altra sponda,
magari in divisa delle SS, sia italiani (romani, toscani ,del
centro sud o delle Romagne) e sia originari di luoghi sconosciuti e
remoti (polacchi, cosacchi del Don, russi ed ucraini, indiani ecc.).
Ma neanche questo determinò quasi mai, almeno nel Veneto
centrale o nelle zone di montagna, nonostante le sporadiche prediche
in contrario di qualche prete accanitamente filofascista (come don
Bernardo Grolla, arciprete di Cereda nella Valle dell’Agno o
come il già ricordato don Attilio Benetti parroco di
Vestenanuova nel veronese) la chiusura a riccio delle popolazioni in
cerca di un’ovvia ed elementare autodifesa perché per un
momento dimentiche della propria affinità con buona parte dei
resistenti. Né, soprattutto, provocò, di regola,
l’abbandono di costoro alla propria sorte nei momenti di
pericolo o di maggior bisogno, foss’anche a causa di poco
diplomatici avvertimenti ricevuti, secondo si vide capitare a più
riprese, in occasione di emergenze estreme e di rastrellamenti grandi
e piccoli, alla vigilia di uno dei quali, quello micidiale del Grappa
alla fine di settembre del 1944, nelle campagne del Bassanese erano
circolati, ad esempio, avvisi e volantini così concepiti:
«CORRIERE
VERACE»
AGRICOLTORE!
I
Patriotti con il loro intervento ti hanno aiutato a sottrarre al
controllo Fascista ed alla requisizione
Tedesca il grano prodotto dal tuo lavoro e dalla tua terra. - Ricorda
però che i Patriotti
non hanno rischiato e non rischiano la vita solo per il tuo interesse
personale ma per
quello della Patria e perché essa possa venire liberata dallo
straniero.Il
tuo grano è una potente arma che deve essere tenuta a
disposizione dei Patriotti e delPopolo
che soffreIl
tuo grano sarà pagato a prezzo onesto. Tu non devi
fraintendere e farne speculazione.
Non
ingrassare i mercanti neri che molte volte lo portano ai Tedeschi e
lo vendono aprezzi
esosi.
Tieni
il grano a disposizione dei Patriotti e delle famiglie povere. Sarai
pagato equamente.Verremo
a domandarti il grano; che se ci risulterà (noi
sappiamo tutto) che hai venduto al
mercato nero, sarai sopraffatto da tremenda punizione; la tua casa
sarà data alle fiamme.-
Il
mercato nero deve cessare: due categorie di persone hanno oggi
bisogno di vivere: iPatriotti
e i poveri che hanno dato tutto.
RICORDA.
TI OSSERVIAMO E VIGILIAMO CONTINUAMENTE IL TUO OPERATO.=
O
CON NOI O CONTRO DI NOI: A TE LA SCELTA
I
P A T R I O T T I
Un
tal genere di bruschi ammonimenti e, per meglio dire, di minacce
poteva senz’altro incutere timore e suscitare comunque
quell'impressione negativa su cui già s’intratteneva
nella sua analisi dell'agosto 1944 Enzo Pezzato, specie nei luoghi in
cui dominavano la piccola proprietà e il piccolo affitto
oppure, come nel Bassanese, la colonia parziaria e la mezzadria. Ma
qui, non a caso, i moniti intimidatori costituivano tutto sommato una
eccezione, nel senso bene intravisto già nel 1946 da Romano
Pascutto per l’entroterra veneziano e per altri “mille
paesi”, mentre opposta o diversa era invece la norma là
dove essi potevano presentarsi moltiplicati e inaspriti, come in
certe località del portogruarese analizzate da Aldo Mori,
nella maggior parte del Polesine studiato da Gianni Sparapan - dove
il quadro prevalente che ne scaturì fu, dice Ventura, “quello
d'una guerriglia di classe più che di una lotta nazionale di
liberazione” - e in quasi tutte le “basse” tra
Padova e Rovigo. Solo qui, in effetti, l’ala più
combattiva e numerosa dei partigiani locali , quasi tutti di
estrazione bracciantile, apparteneva alla categoria dei “comunisti
primitivi” di cui ha scritto la storia Tiziano Merlin. Nelle
campagne dell'estense e del montagnanese dove il fascismo agrario
aveva imposto ai salariati agricoli condizioni pressoché
feudali di vita e di lavoro, il furto campestre (“tuorsene”),
inconcepibile e motivo di vergogna cocente, se scoperto, appena
nell'alta padovana o dal Vicentino al Cittadellese e nelle terre
distese fra Castelfranco e le pendici del Grappa, per non parlar
della montagna, faceva parte infatti, a pieno titolo, di una
subcultura locale e di concezioni egualitarie “dal basso”
serpeggianti un poco ovunque nonché in grado di generare e
riprodurre le figure controverse e discusse dei marginali, sempre in
bilico fra illegalità e criminalità “comune”,
accorsi abbastanza numerosi nelle file della Resistenza armata fra il
1943 e il 1944 per dare corpo a una elementare (o rudimentale) sete
di giustizia di cui però si troveranno ,anche altrove, gli
esempi. E non sto pensando, si badi, ai personaggi abbastanza noti e
sul serio “redenti” dalla lotta di liberazione come
Clemente Lampioni “Pino”, già componente della
Banda Bedin, compagno in molte ardite imprese “garibaldine”,
e poi anche nell'estremo sacrificio a Padova, di Luigi Pierobon
“Dante”, o a quelli che gli stessi propri compagni e i
CLN provinciali ritennero, per i loro “eccessi”, di
dover condannare a morte e togliere decisamente “di mezzo”,
dal “manovale” trevigiano Mario Min (colui che nel maggio
del 1944 in una “operazione a sfondo popolar-folkloristico”,
quasi l’equivalente proletario della veneziana “beffa del
Goldoni” di due mesi prima, aveva imposto ai maggiorenti di
Tarzo nei pressi di Vittorio Veneto l’esecuzione di un bel po’
di canti sovversivi) al celebre “brigante Marozin” nome
di battaglia “Vero”. Questi prima di ricoverarsi a Milano
combatté ma anche imperversò in effetti sui Lessini tra
Vestenanuova e la Valle del Chiampo in una delle zone divenute per
brevissimo tempo “franche” e teatro di brevi tregue, di
accordi paritari o di scambi di reciproca utilità con i
tedeschi, oltreché, s’intende, di abusi e di violenze
del tutto inaccettabili.. Mi riferisco piuttosto agli altrimenti
anonimi “sovversivi” già spesso schedati dal CPC
fascista come oppositori “naturali” del regime in quanto
pericolosi in sé e per sé ossia perché
socialmente più che non politicamente “a rischio”:
uomini insomma , oltre ai braccianti agricoli delle basse, che anche
nei piccoli circuiti di “miseria-marginalità-devianza”
propri di certi quartieri urbani di Padova, di Vicenza o di Treviso
(dove, rammenta Brunetta, gli abitatori dell'omonima contrada si
autodefinivano in canto “Brigate Cae de Oro che te ne freghi
tu/di tute le brigate la meglio gioventù”....) e persino
nei paesi sia di pianura che di collina trovavano, tra fame atavica e
cronica disoccupazione, gli spunti e i motivi del proprio impegno e
del proprio prevalente confluire nelle file della Resistenza (altri,
pochi per la verità e, sintomaticamente, a lungo oscillanti
fra diverse possibilità d'ingaggio o di pseudo volontario
arruolamento, finirono del resto anche nei ranghi della X Mas, delle
Brigate Nere e , peggio, delle varie “polizie” di Salò
) . Non a caso, di costoro, è stata la penna di un grande
scrittore partigiano come Luigi Meneghello a sbozzare con i ritratti
del Tar di Malo, Ferruccio Manea, e del Castagna di Canove -
nell'indimenticabile passo sull’“ethos” nella
Resistenza e sui “saccheggi” da fare a guerra finita
nelle città - i prototipi più genuini e attendibili ai
quali meglio si attagliano le riflessioni convergenti di vari autori
sulle difficoltà obiettive di pervenire, ovunque e comunque, a
una soddisfacente saldatura fra mondo agricolo, specie se diseredato
(ma poi anche, per opposti motivi, abbiente) e direzione politica del
movimento resistenziale.
Per
Livio Vanzetto, e per Ernesto Brunetta, esso, in quanto nato in
città, stenta oppure tarda ad affermarsi nelle campagne
“soprattutto perché i vertici del movimento non
riescono a cogliere la dimensione più vera di un antifascismo
contadino che in realtà non è altro che la variante
contingente dell’antistatalismo e cioè dell'estraneità
viscerale delle masse rurali alle istituzioni statuali identificate
con il mondo dei proprietari terrieri e delle élites
urbane”, mentre per Tiziano Merlin, che lo coglie invece in
azione nelle basse pianure ossia nello scenario meglio predisposto
all'erompere della “pavoniana” guerra di classe e di una
endemica e “rozza” rivalsa sociale, pur non dando luogo a
rapporti “sempre e comunque sereni fra partigiani e
popolazione”, come pretendeva una lettura agiografica
destituita per lo più di fondamento, si sviluppa lungo crinali
sì scivolosi e tuttavia non necessariamente chiusi all’opzione
di un sostegno partecipe e generalizzato da parte almeno di quanti,
fra i contadini, non appartenevano agli strati superiori e benestanti
della società rurale. Simili considerazioni, sempre tenendo
conto delle zone bracciantili a cui per lo più si riferiscono,
non bastano comunque a legittimare le interpretazioni semplificatrici
e perentorie di un mondo contadino che avrebbe fatto “sostanzialmente
razza a sé” attorno a cui ruota il giudizio sommario e
troppo risoluto di Renzo De Felice sul presunto paritario rifiuto e
sulla essenziale estraneità delle popolazioni (non solo
rurali) “rispetto sia alla Rsi che alla resistenza”.
Dalla
montagna alpina e dal pordenonese alle province centrali e orientali
come dal veronese alle basse pianure, del resto, il tema delle
relazioni fra composito universo contadino e Resistenza - già
impostato all'origine in termini senz'altro non lineari, ma anche non
poco dialettici - costituì all’epoca, quasi dappertutto,
l’oggetto di accese discussioni e di contrastanti pareri fra le
stesse leadership politiche del movimento resistenziale mentre
figurava drasticamente già risolto, con indicative ammissioni
però, e comprensibili reticenze, nel ricordato rapporto
repubblichino di Pezzato specie laddove questi azzardava una propria
valutazione negativa e invalidante dell’aura “romantica”
che avrebbe circonfuso e avvolto, agli occhi delle popolazioni
locali, l’azione dei ribelli, in particolare garibaldini.
Persino i comunisti non “primitivi”, d’altronde,
molto impegnati a far accettare, dopo la svolta di Salerno e non
senza altre contraddizioni interne, l’impostazione
nazionalpatriottica della cosa a tutti i loro militanti impegnati più
di chiunque altro - assieme agli “azionisti” - nella
cospirazione e nella lotta armata, erano convinti, per quanto li
riguardava, dei limiti e della debolezza della propria iniziativa
nelle campagne di fronte agli atteggiamenti più frequentemente
“attendistici” dei contadini di tutta la regione come
sarebbe risultato chiaro, secondo Giorgio Amendola , sin dal
contrasto tra il rapporto su un suo viaggio poi divenuto famoso nel
Veneto (già allora bianco) e le lettere che pressoché
contemporaneamente egli era riuscito a inviate dall'Emilia (in
procinto di ritornare rossa).
Amendola
aveva attraversato le due regioni ovviamente in incognito e da
classico funzionario clandestino del PCI giusto sul finire
dell'estate del 1944. A tale data, tuttavia, era divenuto anche
evidente che una certa qual dose di attendismo, abbastanza diffuso
tra la gente comune non solo nelle campagne e frammisto alle forme
meno visibili ma dilaganti di opposizione “esistenziale”
al fascismo e alle sue estreme reincarnazioni, era da mettere sì
nel conto, ma nel senso che doveva essere iscritta positivamente a
bilancio dell’azione che s’intendeva svolgere togliendo a
pretesto non lieve la spontaneità di molte prese di posizione
popolari e la durezza delle risposte repressive e crudelmente
“teatrali” (per l'ingiunzione frequente ad assistervi in
pubblico o in piazza fatta agli abitanti dagli spietati esecutori)
che esse quasi immancabilmente innescavano presso tedeschi e
brigatisti neri, fra la costernazione o il disappunto, e tuttavia
sovente con l’apporto fattivo, degli stessi “normalizzatori”
neofascisti. La loro schiera dislocata nei settori della media ed
alta borghesia e fatta di giornalisti “moderati” come il
direttore - fin che la diresse – dell’ «Arena di
Verona» Guglielmo Castelletti, di capi provincia, eccetto Menna
e Cosmin, “equilibrati” o ragionevoli come Neos Dinale
nonché di funzionari ministeriali più e meno
d’importazione, di tecnocrati esperti, di “educatori”
concilianti, di astuti industriali o imprenditori ecc. come bene li
ha ritratti quasi tutti Luigi Ganapini, anche nel Veneto contribuì
in maniera determinante, osserva Lutz Klinkhammer “a tenere in
piedi”, fino all'ultimo, le strutture portanti dello Stato
collaborazionista.
Sia
gli episodi di protesta collettiva ormai endemici nella primavera del
1944 e sia il ripetersi degli scioperi industriali e delle
astensioni intermittenti dal lavoro, a cui erano molto più
sensibili i tedeschi, risultando in regolare ascesa nella regione dal
dicembre del 1943 al maggio del 1944 erano riconducibili, per
esempio, ad una insofferenza di fondo priva forse di adeguata
direzione politica o di congrua preparazione “dall'alto”,
ma delineavano alla fin fine il quadro di contestazione corrente e le
modalità di partecipazione comuni della gente, seppure a
titolo diverso, al disegno generale di attacco, in una regione più
di altre cruciale sotto il profilo militare ed economico, contro il
nazifascismo. L'abbinamento lessicale oggi criticato e revocato in
forse dalle teste fini della novelle vague revisionista che fingono
di ignorare la sua genesi prima, giusto a ridosso del crollo di Salò,
per mano di uomini dello stampo di Filippo Anfuso, come se davvero
nazismo e fascismo in quella congiuntura di tempo non fossero
direttamente accostabili fra loro, trova una smentita autorevole in
molti documenti che portano la firma addirittura di Mussolini a
proposito degli aspetti più sanguinosi della lotta in corso
non solo nel Veneto ma in tutte le parti della penisola rimaste sotto
il tallone delle armate germaniche e delle forze militari e di
polizia della RSI che con esse intensamente cooperavano.
Appartengono, quei documenti, alla serie delle neglette fonti
d'archivio “pubbliche” le quali nella fattispecie veneta,
a cui siamo qui più interessati dal punto di vista (o per il
punto di vista) delle classi popolari e contadine, consentono un
avvicinamento più realistico e persuasivo ai loro problemi e
ai loro comportamenti nel rapporto specifico con la guerra di
liberazione.
Non
che da vent'anni in qua ne siano del tutto sconosciute le
caratteristiche e le dimensioni, specie dopo le scelte antologiche
riguardanti la fattispecie veneziana e il grande lavorìo degli
storici di più giovane generazione, ma rispetto anche solo al
materiale di questo tipo preferentemente usato una volta, come i
“mattinali” della GNR a cui pure bisognerà
continuare a rifarsi - tanto più perché ormai tutti da
tempo pubblicati (o in via di pubblicazione) - è giocoforza
ammettere, oggi, che essi somministrano una gran mole d'informazioni
capaci di orientarci, meglio che in passato, su molte questioni e su
parecchie dinamiche del periodo preso in esame. E' vero che si tratta
quasi sempre di classiche fonti prefettizie e di polizia (o militari)
e che vanno quindi usate, al pari di tutte le altre del resto, con
somma prudenza ed estrema circospezione. Tuttavia possiedono un
pregio indubitabile essendo il riflesso delle preoccupazioni e
l'espressione del punto di vista di precisi apparati della Repubblica
di Salò (con l’avallo di quelli della Wermacht) preposti
d'ufficio al monitoraggio della situazione veneta nell'esplicito
tentativo di cogliere gli “stati d’animo” effettivi
(spirito pubblico, opinione corrente, voci e dicerie ecc.) delle
popolazioni in particolare subalterne ovvero nell’intento,
altrettanto evidente, di poter meglio procedere, così, a un
contrasto efficace delle iniziative “ribellistiche” che
anche quegli stati d'animo rendevano possibili e producevano o a cui
si raccordavano e si accompagnavano nel mentre l'azione della
Resistenza veniva crescendo in tutta la regione. Lo testimoniano più
che non le indagini riservate e fra loro contrastanti dello SME
repubblichino e dell'Ufficio Patrioti dell’SMG edite da Renzo
De Felice, le stesse forme draconiane di contenimento in una prima
fase (inverno del 1943) e poi di repressione aperta e dispiegata che
dovettero essere attuate nei suoi confronti, sino a metà
agosto del 1944, mediante rastrellamenti mirati i quali avevano
assunto notevole consistenza già in primavera (in marzo sui
Lessini, in giugno sull'Altipiano di Asiago ecc.) sino a culminare,
passata l'estate, in una serie di eccidi (da Malga Zonta sui confini
dell’Alpenvorland a Villamarzana in Polesine) e
soprattutto nelle vere e proprie operazioni di guerra di fine
agosto/fine settembre mandate ad effetto in territorio montano dal
Cansiglio al massiccio del Grappa. Esse determinarono lo
scompaginamento di gran parte dei gruppi ivi presenti dei quali
riuscirono a filtrare in pianura o a ricoverarsi in altre zone più
sicure quasi solo i reparti della garibaldina Nannetti (mentre sul
versante veneto trentino restava tutto sommato intatto il potenziale
delle Garemi), comportando ai partigiani un ingente tributo di sangue
e sfociando nella Bassano delle impiccagioni di gruppo in macabri
episodi di esecuzione simbolica e sommaria subito divenuti, e poi per
sempre rimasti, tragicamente famosi. L’opera di accerchiamento,
di cattura e di eliminazione sul posto o nelle località
circostanti di patrioti, sbandati, renitenti ecc., vide impegnate,
assieme ai tedeschi, forze d'ogni tipo della RSI raccolte in vari
punti delle province soprattutto di Treviso e di Vicenza assecondando
un copione classico dell’antiguerriglia che nell'Italia
occupata dai tedeschi affidava quasi dappertutto a queste ultime,
escluse da un impiego operativo foss’anche sussidiario al
fronte, compiti d'intervento precipuamente finalizzati alla
repressione dei “banditi” e dei “ribelli’.
Nonostante le postume minimizzazioni dei fascisti repubblicani,
iniziate da alcuni già all'indomani degli avvenimenti più
crudi forse anche in seguito all’ondata di esecrazione popolare
di cui si erano resi tempestivamente interpreti vescovi neanche tutti
antipatizzanti a priori con la RSI come quello di Vicenza Carlo
Zinato e proseguite dentro alle aule giudiziarie dell'immediato
dopoguerra nei processi intentati a carico dei rastrellatori dalle
Corti d'Assise Straordinarie del Veneto, si trattò di fatti
atroci e sanguinosi destinati non certo a rasserenare, bensì
ad esasperare le popolazioni il cui disorientamento, sul finire del
1944, si fece nondimeno notevole in corrispondenza con la crisi
politico militare attraversata allora dal movimento resistenziale e
con la sua ulteriore pianurizzazione dopo l’improvvido
“proclama” del Generale Alexander cui corrisposero
l'aumento della pressione tedesca e le sistematiche riprese, fra
gennaio e aprile del 1945, delle pratiche di terrore e di morte dei
repubblichini già sperimentate in precedenza, ma fronteggiate
adesso con difficoltà e con il saltuario aiuto degli aviolanci
americani o delle missioni militari alleate. Il crescendo di
violenza “terminale” racchiuso in quei pochi, ma
terribili mesi, quando a suo emblema assursero gli omicidi e le
torture del Maggiore Mario Carità a Padova e a Vicenza e
quelle di consimili foschi personaggi (talvolta consanguinei o
compaesani come ancora a Padova i fratelli Allegro) non impedì
la graduale riorganizzazione delle formazioni partigiane il cui
numero e i cui organici cominciarono anzi di nuovo a lievitare a
dispetto della rigida stagione invernale e delle obiettive difficoltà
ingenerate dal profilarsi, a livello ciellenistico, di una nuova fase
di confronto fra i partiti in vista della insurrezione ritenuta ormai
possibile ed anzi imminente. Sull’aprirsi della primavera il
precipitare degli eventi per l'avanzata degli alleati nella pianura
padana inasprì il furore disperato dei repubblichini e a fare
le spese delle loro vessazioni spinte sovente oltre i limiti del
sadismo si trovarono ancora, gli uni accanto agli altri, politici e
professionisti, studenti e intellettuali, ma anche donne di ogni
estrazione e soprattutto contadini e braccianti, operai e semplici
popolani. In particolare, fra gli ultimi, coloro che alla fine di
aprile, benché civili e inermi, perirono assieme ai partigiani
(ma anche in loro assenza) nella serie impressionante di stragi che
costellarono la ritirata dei nazisti (o, più precisamente, dei
reparti tedeschi di paracadutisti, granatieri ecc. in fuga ormai
affannosa lungo le vie di accesso all’Alpenvorland e,
più in là, alla Germania): il 26 a Lonigo (Vicenza)
causando la morte di cinque giovani del luogo d’età
compresa fra i 16 e i 25 anni, il 27 a Santa Giustina in Colle
(Padova) dove persero la vita 24 abitanti tra cui il parroco e un
cappellano, il 27 e 28 a Giazza (Verona) in cui fu devastato e
distrutto il paese con l'uccisione anche qui, oltre a molti
cittadini, del parroco don Domenico Mercante, il 29 a San Martino di
Lupari (Padova) e a Castello di Godego (Treviso) due località
contermini in cui dopo uno scontro a fuoco con i partigiani vennero
messe al muro e trucidate dapprima 13 persone fra donne ed anziani e
quindi, sempre mediante fucilazione, altri 76 civili, il 29 e 30 a
Pedescala (Vicenza) in Val d’Astico, forse il più
terribile di questi eccidi per la distruzione di alcune intere
frazioni, per la morte tra le fiamme e i mitragliamenti di oltre
ottanta vittime (molte delle quali ragazzi e bambini in tenera età)
e infine per la tragica e simbolica, ma sempre sanguinosa vendetta
che ne conseguì, a paese liberato, alcuni giorni più
tardi. Le prove di tanto scempio appaiono, a questo punto,
tristemente pleonastiche benché altrettanto drammatiche per
brutalità rispetto ad altre precedenti (Piane di Valdagno,
Quargnenta, Crespadoro e Chiampo, Recoaro,Fara e Mason ecc. per
restare a quelle registrate solo nel vicentino, Cordignano nel
Vittoriese, Gaiarine nell’opitergino, Pieve di Soligo,
Sernaglia e altri paesi nel Quartier del Piave ecc.), ma sembrano
comunque da tenere, almeno in parte, distinte da esse a causa della
presenza, allora più attiva e preponderante, dei fascisti
repubblicani inquadrati nelle Brigate Nere, nella X Mas o nella
funesta Legione Tagliamento. Nella coscienza della gente quest’altra
miriade di misfatti intrisi di cieca violenza aveva sedimentato
profondi sentimenti di estraneità e di avversione alla RSI che
se mai fossero mancati o fossero magari stati deboli all'origine,
ossia all’indomani dell’8 settembre, s’erano in
breve affermati in uno con il crescere dell’appoggio o anche
del semplice favore accordato al movimento resistenziale da parte
delle popolazioni come di nuovo dimostra una folta casistica minore
desumibile in larga misura dalle stesse fonti fasciste Emergono, di
qui, oltre a quelli già ricordati e che ancora ricorderemo
riguardo ai piccoli tumulti o alle dimostrazioni di protesta
inscenate soprattutto dai contadini e dalle donne, una gran quantità
di episodi poi dimenticati e nondimeno significativi come lo sforzo
di sottrarre all'arresto qualche giovane refrattario ai bandi
(secondo avviene “la mattina del 18 marzo 1944 a Crespano del
Grappa (Treviso) dove 150 donne si radunano ‘fischiando e
urlando’ dinanzi alla caserma della GNR per chiedere il
rilascio del renitente Pietro Ronzani” o come i tentativi di
dar pubblica sepoltura, con onoranze funebri adeguate, agli sbandati
e persino ai partigiani caduti sotto il fuoco delle Brigate Nere:
tentativi talvolta riusciti, ma più spesso frustrati e
stroncati sul nascere dall'intervento della GNR (come succede il 14
maggio sempre del 1944 a Torrebelvicino quando, stando a una
segnalazione telegrafica del Questore di Vicenza Linari “circa
200 donne raggiungevano in corteo Ospedale Civile Schio per reclamare
salma Stella Stefano di Sante, anni 21, sbandato, deceduto detto
Ospedale seguito ferite....per il quale eransi progettati funerali
forma solenne...Tempestivo intervento forza pubblica corteo
scioglievasi senza incidenti. Giusta mio ordine, trasporto et
tumulazione salma cimitero avvenivano mattino 15 corr. At presenza
soli famigliari..."” ). Un segno, pure questo, non solo
della pietà cristiana, bensì, visto il pericoloso
contesto, anche degli intendimenti popolari e della solidarietà
per quanti come minimo non si erano schierati dalla parte dell'ultimo
fascismo, fra i moltissimi segni, d'altronde, che attraverso atti
“inconsulti” e dichiarazioni “avventate si vennero
manifestando e vieppiù accumulando dall'inizio del 1944. Non
necessariamente di mano partigiana furono, ad esempio, tutte le
scritte e tutti i volantini che in modo pressoché sistematico
venivano affissi, e quindi meticolosamente riportati nei dispacci
polizieschi, a firma di singoli “patrioti” o di generici
“comitati”: “E' ora di finirla, fuori i tedeschi!!!
Presto sarete da noi liberati dal giogo germanico. Noi siamo tutti
italiani che amiamo la nostra Patria e la vogliamo libera. Tra noi si
ripete sempre una vecchia frase che per noi è sempre nuova:
Meglio morir a vent'anni che vivere sotto i tiranni (dei tedeschi).
UN PATRIOTA” (Vicenza 4 luglio 1944) - “Colloquio
Mussolini-Hitler - a tutti i giovani e a tutti i lavoratori si
comunica il testo del telegramma mandato dal Ministero del defunto
Duce ai Comandi Militari: dalle classi 1901-1913 prelevare 150.000
uomini a scopo guerra - dalle classi 1901-1925 un milione di uomini
da mandare in Germania a scopo lavoro. Nessuno si presenti ! Il
Vecchio pazzo vuol vendervi. In Germania si muore di fame e di bombe
e tra breve ne sarà peggio. Si mandino i fascisti che stanno a
vivere alle spalle de popolo che lavora - Il Comitato di agitazione
operaia”. (Noventa Vicentina e Poiana Maggiore, 25 maggio 1944)
ecc. Simili messaggi non erano meno indicativi di quelli assai
sgrammaticati o di rudimentale fattura che quasi ovunque scandivano e
accompagnavano nelle zone rurali le incursioni di ribelli
presumibilmente anch’essi tutti del luogo (ad Enna, una piccola
frazione agricola del borgo operaio di Torrebelvicino sopra
ricordato, un gruppo di costoro circondava e assaltava, il 21 aprile
1944, la casa di tale Fioravante Masetto e si allontanava asportando
“giovenca pesante chilogrammi 450 circa” e lasciando
manoscritto così concepito: “A Fioravante Masetto: i
partigiani non dimenticano il male fatto - le spie ed i farabutti
vengono ricompensati come meritano - per ora la mucca - alla prima
parola parte la testa e la casa. Firmato Dante il partigiano”),
ma assumevano valore e significato ben più rilevanti allorché
si potevano cogliere direttamente dalla bocca di cittadini
“qualunque” individuati e denunciati per avere
ingenuamente espresso convincimenti inequivocabili in un linguaggio
rozzo e sgangherato, se si vuole, ma oltremodo efficace. Il che
accadeva di norma negli esercizi pubblici e lungo le strade di
campagna, nelle osterie e persino nella sale cinematografiche durante
la proiezione di retorici film Luce avendo per protagonisti per lo
più pensionati ed anziani, ma anche, talora, giovani e ragazzi
come si ricava, per continuare in una campionatura limitata stavolta
al solo vicentino, dai rapporti di P.S. relativi a fatti sul genere
di quello accaduto nella trattoria “da Benetto sita in corso
Padova” del capoluogo berico la sera del 3 gennaio 1944 quando
un ex insegnante elementare di 65 anni, Andrea Pantarotto “cogliendo
l'occasione dei recenti bombardamenti [subiti dalla città] si
esprimeva con frasi disfattiste [e diceva]: “L'Italia ormai è
a terra, è inutile insistere per poi avere tutte le città
distrutte. La Germania ha fatto male a mettersi in guerra contro chi
è più forte di essa perché tutti sanno che essa
è la più forte per cielo, per terra e per mare”.
Il nesso tra paura dei bombardamenti e desiderio di vedere l’Italia
sgombra infine da truppe di occupazione germaniche torna più
volte a galla sin dai primi di gennaio del 1944 quando alla periferia
ancora di Vicenza “sulla strada di Borgo Casale” due
operai, Rino Sabbadini di 32 e Alessandro Trevisan di 46 anni
“vedendo dei Legionari che s'inoltravano verso i campi per
ripararsi da eventuale incursione aerea” pronunciavano al loro
indirizzo le seguenti frasi: “Ecco coloro che hanno salvato
l'Italia - Sono dei boari - Sin quando a Vicenza ci sono dei
tedeschi, gl’inglesi verranno sempre a bombardare”. Il 16
marzo dello stesso anno, al Cinema Roma e cioè nella
principale sala cinematografica di Vicenza colma di gente, era un
giovane di diciannove anni appena compiuti, Ottorino Bassetto, a
segnalarsi (e ad essere poi denunciato, arrestato e perseguito) per
aver cercato di disturbare e d'interrompere con fischi sonori la
proiezione mentre sullo schermo passavano le immagini di un filmato
“riproducente una manifestazione di giuramento alla RSI da
parte di reclute...” . Il Bassetto, a dir la verità,
il giorno prima, e per la seconda volta nel giro di una settimana,
“si era allontanato arbitrariamente dal locale Distretto
Militare onde evitare la sua partenza che avrebbe dovuto avvenire
alle ore 14,30 del 15 c.m.” e aveva “inoltre inveito
sempre durante la stessa proiezione contro l'Eccellenza Graziani e le
Madrine che tenevano la bandiera mentre la nominata Eccellenza la
stava baciando, classificandole ‘puttane’”. Non
c'era stato bisogno di assistere a un documentario di propaganda per
indurre, l’11 aprile, un calzolaio di Altavilla Vicentina,
Mario Rigatto fu Angelo classe 1913, poi “deferito alle
competenti Autorità”, ad asserire, nel vedersi davanti
il Commissario Prefettizio di Brendola: “Bolscevismo e
comunismo sono idee presso a poco uguali, siamo liberi e possiamo
fare quello che ci pare...”. Né deve stupire la
compresenza, in tante manifestazioni verbali di radicale dissenso, di
elementi politici e ideologici spesso confusi ma netti e
inequivocabili nella ripulsa del fascismo che scatenavano la rabbia
dei repubblichini convinti alle volte di trovarsi in presenza d'un
intollerabile rovesciamento, ormai fra l’altro interclassista,
della situazione. La stessa che di fronte alla “cricca
antifascista di Lonigo con a capo il Pretore Dr. Ettore Gallo e della
quale [facevano] parte professionisti e proprietari terrieri in
combutta con l’aiutante della Guardia (ex Maresciallo dei
Carabinieri) Mollica comandante del Distaccamento locale” -
dopo lo schiaffeggiamento in pubblico da parte dello squadrista
Aimone Lanzoni del “sovversivo prof. Miciarelli Aquilino”
reo di avere capeggiato all'indomani delll’8 settembre “cortei
antifascisti” - aveva causato il 29 luglio, in difesa del
Lanzoni minacciato di querela dallo schiaffeggiato, questo sfogo
patriottico di Aurelio Barbettani, gerarca del posto e segretario di
un ente economico fascista:
«Ora
è logico dedurre che la querela andrà avanti con le
conseguenze facilmente prevedibili per il
Lanzoni, in quanto il querelante, avvalendosi del Codice Fascista,
non accorda la facoltà di prova
ed il Pretore condannerà al massimo della pena dati i suoi
sentimenti a noi ostili e dei quali
non fa mistero. Nel segnalare quanto sopra perché siano
tempestivamente adottati provvedimenti
atti ad impedire che il fascista Lanzoni sia trascinato davanti al
Giudice per sentirsi
condannare, il che costituirebbe una vittoria per gli antifascisti
del luogo, è doveroso rilevare
che in queste condizioni non si può pretendere dai fascisti di
agire contro i nemici interni.
E, poi, come si può agire contro tali nemici se questi sono le
stesse Autorità della RSI come,
ad esempio, l'aiutante Mollica che fa parte della G.N.R ed il Pretore
Gallo che rappresenta
la Magistratura? Questi uomini meriterebbero, come minimo, lo stesso
trattamento usato
al Prof. Miciarelli, ma la loro posizione è troppo
rappresentativa ed i fascisti hanno, per
fortuna, molta sensibilità politica. Se fosse il 1920/21 si
potrebbero legnare di santa ragione;
ma nelle condizioni di oggi cosa si fa?»
In
realtà, come sappiamo, il ricorso alle maniere forti , tutt’al
contrario che a Lonigo in questa singolare fattispecie in cui figura,
come si è visto, un personaggio di prima grandezza della
Resistenza veneta come Ettore Gallo, costituiva la regola anche
fuori dalle zone di guerriglia e si traduceva in fatti “spontanei”
di ordinaria violenza solo di rado stigmatizzati dalle autorità
repubblicane che sulla maggior parte di essi preferivano stendere un
velo imbarazzato di silenzio pur registrandoli in via riservata nei
loro rapporti. Succedeva così per un gran numero di
aggressioni e ferimenti, ma anche di uccisioni di civili provocate
dal semplice “invito”, ingenuamente ultimativo, da essi
rivolto in dialetto, a brigatisti neri e ad altri soldati di Salò
di “smetterla” con la guerra e di farla finita,
soprattutto, con il fascismo che l’aveva generata. Nei pressi
del campo di aviazione di Thiene, l’8 aprile 1944, un vecchio
contadino, Francesco Vescovi classe 1878, nativo di Zugliano,
passando a lenta andatura in bicicletta, ad un milite di guardia che
poi, solo per tale motivo, gli avrebbe sparato, rivolgeva tra
l'irridente e l'indignato queste parole: “Cossa feo con quel
sciopo, oramai le seleghe le xè passà, disgraziati, è
ora di finirla che è una vergogna”. Simmetricamente il
25 luglio successivo, “alle ore 12 in Peschiera, mentre la 3^
compagnia del 3° battaglione Alpini Brescia transitava per
la città , il diciottenne Armando Barbieri rivolgeva ai
militari di quel reparto la frase ‘andate a casa che è
meglio’. Due graduati del predetto reparto gli risposero con
due colpi di moschetto ferendolo gravemente. Un sottotenente del
medesimo reparto finiva il Barbieri con una raffica di mitra”.
Nella versione di un fatto analogo accaduto all'indomani e già
raccolta da Gianpaolo Pansa si apprende come fosse stato ancora il
semplice passaggio per Desenzano della Monte Rosa ovvero “di
una divisione di alpini italiani proveniente dalla Germania” a
far nascere il 26 luglio “in un punto del paese disordini di
modeste proporzioni” seguiti però da gravi violenze, nei
confronti di un “individuo” dissenziente, della cui
entità ed iniquità si cominciò subito a
vociferare nei dintorni in modo di certo non benevolo. L’ignoto
contestatore, infatti, che vedendo sfilare gli alpini fascisti “aveva
esclamato ‘carne da cannone!’ veniva affrontato da due
soldati usciti dalle file. A breve distanza da Desenzano correva già
voce che due individui si erano espressi sfavorevolmente al passaggio
degli alpini e che perciò erano stati percossi fino ad essere
ridotti in fin di vita”.
Entrambi
i fatti comparivano tra le “varie” nei “notiziari
giornalieri” della GNR anche se non sempre era questa la regola
per il gran numero di episodi sfuggiti o deliberatamente omessi dagli
estensori i quali mantenevano, al pari dei loro rapporti, una ben
nota impronta investigativa e classificatoria, dando conferma alla
tesi della discreta continuità, sotto Salò, dello
Stato (appunto, però, di polizia) Nel diramare informazioni
che già nelle opere di Gianpaolo Pansa prima maniera e
nell’antologizzazione feltrinelliana di Natale Verdina, tanto
avevano colpito per la capillarità e la precisione con cui
attestavano l'esistenza di un vero stillicidio di fatti, specie
secondari e “minori” di resistenza e di protesta, i
“mattinali” illustrano a dovere i modi attraverso cui
visibilmente si venivano esplicando le attitudini ormai antifasciste
e l’avversione generalizzata e radicale nei confronti del
proseguimento della guerra, dei tedeschi e degli esponenti
repubblicani , della gente di più modesta estrazione. Quando
ci si avveda di come uscissero dalle sue file o da quelle del “popolo
fedele” e cattolicissimo del Veneto, e non solo da quelle
azioniste e comuniste o dell'opposizione politico-militare più
consapevole e determinata , anche i principali bersagli dello
sfruttamento e le vittime in carne ed ossa della repressione
nazifascista, dovrebbero smettere di apparirci forzate le
conclusioni e anche molte delle ipotesi “tentative” più
slanciate a cui è pervenuta una parte della storiografia di
cui sopra si è detto sulla partecipazione popolare alla
Resistenza.
Tra
i “bersagli” di uno sfruttamento sistematico e
pianificato ovvero tra i destinatari delle pressanti attenzioni
soprattutto dei tedeschi interessati a mantenere in funzione la
macchina industriale e produttiva vi erano, come si è
affermato più volte, gli operai industriali e in genere i
lavoratori da impiegare in Italia, ma anche da inoltrare forzosamente
in Germania la cui precettazione a tal fine fu spesso alla base delle
più convinte manifestazioni di protesta e alle origini,
assieme ad altre cause d'ordine rivendicativo e salariale, degli
scioperi in particolare quelli del marzo 1944. Il loro andamento a
Venezia e a Padova, a Vicenza e a Bassano, a Schio e a Valdagno,
quantunque diversificato per intensità e per modalità
di attuazione o di svolgimento, lanciava un messaggio abbastanza
esplicito e attestava la discreta riuscita di una iniziativa giunta a
coinvolgere a decine di migliaia nella prima decade del mese (ma
anche più in là sino ai primi di aprile) addetti ai più
diversi lavori manifatturieri e industriali così da suscitare
le ire di Mussolini che dopo una loro ripresa in maggio, a Porto
Marghera , giunse anche ad emanare il decreto con cui si comminava la
pena di morte per gli organizzatori di ogni tipo di astensione dalle
attività lavorative. Prima che ciò avvenisse, tuttavia,
e allo scopo di minimizzarne l'impatto, il Duce in persona intervenne
da Gargnano a dettare, in una «Corrispondenza repubblicana»
resa nota il 10 marzo, ma forse realizzata un paio di giorni prima,
la propria lettura sdrammatizzante dell'avvenuto che imputava
senz’altro alle mene di “gruppi e gruppetti clandestini
al soldo delle centrali nemiche e manovrate dai bolscevichi” e
che comunque anch’egli derubricava, quanto a intensità e
rispondenza, al livello, letteralmente, di “un fiasco
solennissimo”, inutilmente mascherato dalle menzogne della
propaganda alleata. Tutto l’articolo, intitolato Un metodo,
uno stile, ruotava attorno al concetto racchiuso nel motto
popolare milanese “Tempo di guerra, più balle che terra”
e tesseva l'elogio della verità quale antidoto contro ogni
menzogna propalata dagli angloamericani e dalle loro radio alle quali
l’opinione pubblica italiana prestava tanta fede mentre invece
constava al Duce, dati del ministero dell'Interno alla mano secondo
una sua asserzione, che non sei milioni di lavoratori avevano
incrociato le braccia, ma appena duecentomila dando così
scarsissimo appoggio alle speranze e nessun sostegno al disegno
eversivo dei “bolscevichi” di porgere, con l’astensione
dal lavoro, “un aiuto sostanziale al nemico”. Lo sciopero
che “avrebbe dovuto impegnare tutto il cosiddetto proletariato
italiano” sarebbe stato insomma un sostanziale fallimento, ma
accogliendo i dati esibiti da Mussolini e incrociandoli con quelli
forniti dai suoi stessi apparati di controllo (GNR e soprattutto PS)
risultava invece che esso, perlomeno in alcune parti industrialmente
non secondarie del Veneto come l’alto vicentino, aveva finito
per interessare la totalità dei lavoratori: qualcosa, in
questa sola zona, come diecimila persone ben oltre dunque, almeno
come proiezione locale, le stime proposte dal Duce. Alla luce delle
cui affermazioni e riandando alle altre, coeve, con cui egli aveva
addebitato alle bugie interessate della propaganda nemica anche le
voci “messe in giro ad arte” sulle ricorrenti minacce
tedesche di richiedere o meglio d’imporre al governo di Salò
la “deportazione” nel Reich d'un numero elevato di
lavoratori italiani da scegliere, come avrebbero voluto pure non
pochi repubblichini “socializzatori”, tra gli
antifascisti e fra gli strati più indisciplinati e irrequieti
del proletariato industriale (o agricolo), non può che
procurare una dose assai modesta di stupore scoprire che sul retro
delle bozze di stampa della «Corrispondenza repubblicana»
in parola, già corrette da Mussolini, un anonimo “Appunto
per il Duce” del "7 marzo 1944, ore 20, recitava, tanto
per esser chiari: “Il Barone Von Reichert mi comunica che il
Fürher ha dato ordine per il trasferimento immediato in Germania
del 20% degli operai italiani scioperanti: questi operai saranno
posti a disposizione del Reichfürher SS per essere adibiti al
lavoro...” E' ben vero, per rimanere in tema, che
l’ingiunzione poi non si concretizzò e che la situazione
nelle fabbriche tese a normalizzarsi, alquanto relativamente, dopo la
metà di maggio mentre viceversa, nella “calda estate”
del 1944, anche in Veneto il movimento partigiano come s’è
detto s’ingrandiva e s’irrobustiva sempre di più
in montagna attingendo in parte gli organici delle proprie formazioni
operative combattenti e, là dove ce n'erano, delle stesse
brigate “territoriali”, al fecondo serbatoio della classe
operaia di fede soprattutto “bolscevica”, come avrebbe
senz’altro detto Mussolini, ma la sensazione della ormai totale
inattendibilità del Duce e della sua invincibile propensione a
rafforzare il vincolo di alleanza/dipendenza con i tedeschi a costo
di pagare prezzi sanguinosissimi e tutti da far scontare,
indiscriminatamente, sia ai “ribelli” che alle
popolazioni civili le quali davano loro appoggio, dovette diffondersi
a macchia d’olio fra la gente che non ascoltava soltanto
Radio-Londra, inutilmente bollata dalla stampa “del fascismo
estremo” col nome, insultante nei propositi antisemiti, di
“Radio Sinagoga” o di “Radio Giuda”. Quella
gente, in realtà, guardava sempre più sbigottita e
atterrita ai bilanci di sangue e di orrore imposti dalle logiche
intimidatorie delle rappresaglie gestite assieme da fascisti e
nazisti.
In
un illuminante, e abbastanza agghiacciante, prospetto redatto per
precisa volontà di Mussolini nella stessa estate del 1944 onde
quantificare l’esatto ammontare, sino a quel momento, delle
“Esecuzioni capitali eseguite dai nazifascisti” , si può
leggere, ad esempio, in stima approssimata e molto per difetto, come
dall'inizio di ottobre del 1943 alla fine di luglio del 1944 fossero
già molte centinaia (per la precisione quasi 700, ma
nell’aprile del 1945 sarebbero saliti a circa 2500) i casi di
uccisione seguiti a rappresaglie, con o senza processo, di “ribelli”
e di “banditi”, ma anche di ostaggi e di civili
attribuibili a corpi militari germanici e, congiuntamente o per
proprio conto, a brigatisti neri e a reparti della RSI. Era stato
Mussolini che pure si sarebbe visto costretto tre mesi più
tardi a dolersi con l'Ambasciatore del Reich Rahn di quelle
unilateralmente e spietatamente mandate ad effetto dai soli tedeschi
, a indirizzare di suo pugno, il 25 giugno del 1944, ai capi delle
province la richiesta, poco equivocabile nei toni e negli intenti, di
poter tempestivamente disporre di lì in avanti dei dati
relativi alla mattanza in atto d'italiani refrattari o non
collaboranti sulla cui esistenza, entità ed eventuale
efficacia l'ala più fanatica ed estremista del PFR aveva
avanzato dei dubbi e fondato anzi l'idea che da parte delle autorità
repubblicane vi fosse, nei riguardi dei dissidenti e dei “nemici
interni” d’ogni colore, un atteggiamento corrivo o
ispirato, magari, alle vedute troppo ireniche di molti dei cosiddetti
“normalizzatori”. “Poiché taluni leoni
vegetariani - aveva scritto allora il Duce - continuano a parlare di
una eccessiva indulgenza del governo della Repubblica, siete pregato
di mandare telegraficamente i dati delle esecuzioni avvenute di
civili e militari con processo o sommarie dal primo ottobre in poi”.
Nei primi quadri allestiti emergeva inequivocabile non solo la
“qualità” o la natura della violenza esercitata
mediante l’atto pratico e simbolico più estremo, ma
anche la sua precisa distribuzione territoriale e regionale. Qui,
significativamente, il Veneto veniva già ad assumere, con il
Piemonte e con l’Emilia, una triste posizione di riguardo mercé
episodi di grande efferatezza spesso rimasti impressi più
tardi nella memoria della gente e, a maggior ragione, nelle postume
commemorazioni resistenziali anche al di fuori delle inevitabili
“leggende”, a sfondo religioso, sul “santo
partigiano martire” - come la fucilazione da parte dei
tedeschi il 30 aprile del 1944 dopo uno sciopero contro la
precettazione di lavoratori da inviare in Germania di quattro operai
della Pellizzari di Arzignano (Carlotto, Cocco, Marzotto ed
Erminelli, tutti nominati “in atti”) - ma alle volte
anche dimenticati o poi ricordati appena (ovvero con fatica e molto a
stento) nelle comunità locali persino là dove si fosse
verificata, come a Cazzano di Tramigna nel luglio del 1944, qualche
atroce uccisione di civili sospettati di connivenza con i partigiani.
Nella piccola località veronese, in realtà, ciò
era accaduto appunto per opera non dei tedeschi, ma della GNR locale
agli ordini del capitano Bruno Reggiani di San Bonifacio, fino a
pochi giorni prima comandante del presidio di Vestenanuova e uno
degli uomini di punta, con Valerio Valeri,Nino Furlotti,Gaio
Gradenigo ed Ernesto Gottardi, del fascismo intransigente scaligero,
ai danni di una contadina, Onilde Spiazzi Piubelli, colpevole
d'essere la madre, generosa e imprudente, di uno dei tanti
“disertori” del posto fuggito dopo l'arruolamento coatto
e unitosi in montagna ai partigiani di Marozin. Può essere
utile osservare come la vicenda figuri narrata e “trattata“
per un verso nei “mattinali” della GNR di Verona dove si
racconta che la donna recatasi spontaneamente a denunciare il 28
luglio la scomparsa del figlio e presto rivelatasi o scoperta al
corrente delle sue vere mosse era stata dapprima sottoposta senza
esito a un pressante interrogatorio e all’indomani, “alle
ore 9.30....fucilata sulla pubblica piazza”, e per un altro
nelle fonti coeve disponibili, non tutte, a cominciare da quelle
fasciste, propriamente d'accordo con la notazione a margine che nel
resoconto del notiziario OCR (Operazioni contro i ribelli) del 4/8/44
(pp.33-35) campeggiava in chiusura suggellando in modo lapidario la
cronaca del terribile fatto (“Commento favorevole della
popolazione”). Se si stenta a credere che in tal modo avessero
davvero opinato gli abitanti del posto, restano pochi dubbi sul
parere che avrebbe potuto esprimere al riguardo, da Vestenanuova,
persino il ricordato don Attilio Benetti, di norma peraltro assai
prodigo di elogi nei confronti del Reggiani e dei suoi uomini, e c’è
anzi la certezza che non la pensavano così le stesse autorità
di P.S. veronesi in un cui rapporto periodico di venti giorni più
tardi, scovato da Lorenzo Rocca, venivano lamentati l’enormità
e gli effetti controproducenti fra la popolazione di simili gesti
tanto inutilmente brutali (“Si lamentano gravi scorrettezze ed
atti di violenza che sarebbero stati commessi dai militi, durante
l'azione di rastrellamento tanto a Cazzano che nella frazione di
Campiano...”). Vittorio Fainelli, da più di vent’anni
bibliotecario della Civica di Verona, all’epoca dei fatti era
intento a stilare quotidianamente, con l'aiuto del figlio Renzo e di
molti amici, un suo personale «Taccuino» in cui veniva
annotando i principali avvenimenti del giorno. Esso offre un’idea
abbastanza precisa di come tra la gente comune si venisse allora
formando, al di là del terribile caso specifico ora in
questione, tutta una temperie psicologica (o di psicosi collettiva)
mista a un complesso di sentimenti risolutamente antitedeschi ed
“antinazifascisti” per il rincorrersi tumultuoso di voci
e di notizie sovente verificabili de visu e riguardanti la
violenza o le stragi che una certa gestione della guerra e non solo o
non tanto la guerra in sé comportava al di là dei lutti
imposti dalle “morti lontane”, nei lager e al fronte, e
delle catastrofi sanguinose e letali, ma molto più vicine
indotte dai bombardamenti terroristici degli alleati sulle città
che nel Veneto, da Vicenza a Treviso, ne rimasero più e più
volte drammaticamente colpite e straziate. Fainelli dopo avere
chiuso la cronaca del giorno precedente con una postilla alquanto
emblematica, perché anticipatrice della sovrapposizione o
dell’attribuzione meccanica d’ogni barbarie ai soli
“tedeschi” (“Sempre più frequenti arrivano
le notizie di retate, massacri fatti in provincia dai tedeschi”),
giunto alla data del 31 luglio 1944 così riassume il “fatto
di cronaca” in sé e le molte considerazioni con cui
esso s'intreccia e quasi si confonde:
«31
luglio: Castelli (altro dipendente della Biblioteca Comunale),
tornato da Cazzano diTramigna,
mi racconta i tristi casi di lassù ad opera di barbari
tedeschi. Una donna è statafucilata
in piazza, coll'imposizione armata di assistervi agli abitanti. Di là
i repubblicani passavano,
armati, ai ribelli; e i tedeschi se entro oggi non possono avere le
armi bruciano mezzo
paese; si stanno cercando le stesse anche fuori. Gli sfollati
vogliono rientrare in città. In
certi paesi di lassù hanno incendiato case con gli abitanti
che c'erano dentro, impedendo a questi
di uscire. I tedeschi distruggono tutto. R.[enzo] già venuto
a casa , dice che non ha trovato
che disastri delle campagne e delle case, e della povera gente
scomparsa perdendo tutto.
Molta è stata uccisa. E ciò nella Romagna. Da Nettuno è
venuta una famiglia che, giunta
prima faticosamente a Firenze, da tale città poi è
stata dimessa - dopo perquisizione - dai
tedeschi coll'ammonimento di non dir nulla di ciò che ha
visto. Guai pure a parlare delleuccisioni,
incendi, saccheggi e retate dei tedeschi nelle montagne! La vita è
in continuo pericolo
per tutti, che sospirano la pace!»
Le
prime descrizioni e i primi macabri elenchi degli eccidi perpetrati
dai nazifascisti ai danni delle popolazioni civili italiane, che i
velivoli di ricognizione appartenenti alla stessa flotta aerea
adibita dagli alleati ai feroci bombardamenti sui centri urbani
avrebbero cominciato a far calare dal cielo sulle campagne venete
verso i primi di gennaio del 1945 in redazione bilingue onde ammonire
soprattutto gli ufficiali e i soldati germanici a non macchiarsi di
crimini contro l’umanità, circolavano già da
tempo nei borghi rurali e nelle città della regione suscitando
ben maggiore sgomento di quello che forse potevano provocare, sulla
stampa repubblichina, le lettere e le corrispondenze, in sé
altrettanto inquietanti e in arrivo di norma dai fronti di guerra del
centro sud della penisola, sulle violenze commesse, come di fatto
furono, dai “liberatori” angloamericani i quali, come si
sa, alle SS di varia ascendenza “europea” (e asiatica)
contrapponevano una loro serie multirazziale e variopinta, ma non
meno alle volte sanguinaria, di truppe esotiche e spesso, con
scandalo di tutti i benpensanti, di colore (marocchini,
senegalesi,maori della Nuova Zelanda, pakistani, “minuscoli
brasiliani” ecc.). Nemmeno tali circostanze valsero comunque a
incrinare nelle classi popolari dell'intera regione le aspettative e
le speranze di rapida conclusione del conflitto e di fine del
nazifascismo che tra la primavera e la tarda estate del 1944 avevano
scandito, sino alla vigilia dei terribili rastrellamenti del
Cansiglio e del Grappa, il primo processo di rafforzamento della
Resistenza armata, ma anche quello, già in atto ben da prima,
della Resistenza, come vedremo, “disarmata” .
Epilogo
I
progressi della ricerca storica, che sono altra cosa rispetto alle
frequenti nefandezze della polemica giornalistica attualizzante dei
giorni nostri, hanno consentito e addirittura “imposto”,
a tale riguardo, l’assunzione di una più matura
prospettiva di analisi e, con la diffusione della storia sociale,
come ha ben riepilogato di recente Santo Peli, hanno portato infine
all’“allargamento del concetto di Resistenza” già
implicito nell'opera ormai classica di Claudio Pavone e qui da noi
stessi adottato (peraltro, si perdoni il puntiglio personale, a
coronamento di uno sforzo isolatissimo e avviato senza particolari
fortune in tempi ormai lontani), facendo infine spazio non rituale a
protagonisti defilati e un tempo ritenuti del tutto marginali o
secondari come le ragazze e le donne. “La scoperta delle
soggettività” quale fonte e oggetto d'indagine, ad ogni
modo, e soprattutto “l’evidente necessità di
calare la storia militare e politica della guerra partigiana nella
storia contingente e anche di lungo periodo della società
italiana” non solo “ha dato nuovo vigore” a molte
indagini innovative nel cui novero rientrano, per il Veneto, molti
degli studi qui sopra già richiamati, ma nei casi migliori ha
permesso altresì di far finalmente uscire
“dall'indeterminatezza e dalle opzioni ideologiche i legami fra
resistenza armata (guerra partigiana, ma anche squadre di pianura,
Sap,Gap) e il ‘vasto, pervasivo reticolo di adesioni e
solidarietà che ha caratterizzato quella che, con immagine
felice, è stata chiamata La Resistenza senz’armi’”.
Forse risulta ancora difficile stimare con assoluta esattezza
quanto abbia giocato in ciò la considerazione del vissuto
sociale dei protagonisti, uomini ma, ripetiamolo, anche donne (dalle
staffette partigiane alle stesse ausiliarie fasciste nell'altro
campo), giovani ma anche adulti e anziani (tanto per uscire dai
cliché della fuorviante endiadi dei “ragazzi di Salò”
versus i “vecchi partigiani”) ecc. e poi delle
loro più profonde convinzioni etiche e religiose, dei loro
turbamenti e delle loro comprensibili incertezze o persino dei loro
tragici “errori” per non parlare infine del modo in cui,
tra renitenza (al lavoro coatto, all'arruolamento forzoso, alla
ricerca guerresca della “bella morte” e così via)
e Resistenza (intesa come opposizione tacita, insubordinazione di
massa e disponibilità all'insurrezione inevitabilmente armata)
tantissimi si trovarono a compiere le proprie scelte “patriottiche”.
Tuttavia crediamo sia lecito, a questo punto, optare per una ipotesi
più che possibilista e recuperare dunque per altre vie - in
sostanza le stesse battute sin qui nel nostro intervento - il
concetto di una larga e sostanziale “popolarità”
della Resistenza non senza ricordare che persino l'attendismo più
volte evocato e che secondo molti avrebbe espresso le inclinazioni
prevalenti della già criticata “zona grigia”,
oltre a non essere stato forse maggioritario, potrebbe avere avuto,
in realtà, dei risvolti meritevoli d’essere approfonditi
o degni di esser presi in più seria considerazione per meglio
comprendere proprio la natura spontanea e di massa dell’opposizione
prestata nelle città, ma anche nelle campagne, al
nazifascismo. Tutti i comportamenti ad esso riconducibili o
assimilabili, ha detto ancora Peli facendo propria l'interpretazione
d'altri studiosi, fra cui spicca senz’altro Enzo Forcella
(autore non a caso di un libro sintomatico come La Resistenza in
convento), erano malauguratamente finiti in un “cono
d'ombra” un po' vergognoso e paralizzante senza che si fosse
tenuto conto del fatto che alle sue spalle esisteva, come pure è
stato notato e come anche noi, si è ben visto, a ragion veduta
riteniamo, tutto un mondo, specialmente rurale, “di opinioni,
di convincimenti, di cultura, che tra le altre cose comporta[va]no,
per esempio, il rifiuto (per quanto sempre parziale) della violenza e
l'estraneità personale e familiare ai destini collettivi”.
Sull'ultima affermazione, a dir la verità, si potrebbe
sospendere il giudizio o meglio avanzare più di qualche
riserva senza speciale scandalo nemmeno di chi credesse, di nuovo
appunto come noi, che il rifiuto della guerra e la disobbedienza
civile abbiano sovente e legittimamente innervato la protesta
antistatuale delle classi popolari e contadine perché il
problema dell'attaccamento patriottico, e non tanto nazionalista, di
molti di loro all'Italia, e sia pure all'Italia “dei paesi,
permane e perché, infine, le resistenze “passive”
o “senz’armi” non si possono ovviamente confondere
con la fuga assoluta dalle responsabilità individuali e di
gruppo: un conto è insomma la resistenza muta e tuttavia
congeniale ad esso e alle sue finalità di chi aiuta il
movimento partigiano anche solo astenendosi oppure dicendo alla
veneta “vedemo, spetemo” (respingendo nel contempo,però,
tutte le profferte e tutti gli allettamenti del nazifascismo: da
quelli ideologici in cui caddero per mancanza di strumenti culturali
più affinati i giovani e i giovanissimi “di Salò”
agli altri materiali e più prosaici che si compendiavano in
stipendi e prebende di notevole consistenza elargiti alle ordinanze,
agli ufficiali e sottufficiali, ai funzionari e agli impiegati
ministeriali saliti al Nord, ai magistrati e ai giornalisti ecc.), e
un conto è il rigetto di ogni possibile funzione oppositiva di
coloro, essi sì minoranza, che non tanto tacciono e attendono
quasi silenti, quanto letteralmente si negano, scappano sulle "case
in collina" e si nascondono ovvero optano senza mezzi termini,
come disse un nostro scrittore qui più volte citato d'un suo
debole amico, peraltro antifascista e liberale, in favore di una
pavida e totale diserzione chiudendosi dopo l'8 settembre in un
armadio (a Venezia, nella realtà e nel racconto), per uscirne
soltanto all'indomani della Liberazione sul finire di aprile del
1945.
E'
assai probabile che alle classi popolari e in genere ai montanari e
ai contadini una simile soluzione fosse preclusa in partenza e che
nel corso della guerra, divenuta in tanta parte anche guerra civile,
si fossero create, fra loro e “negli spazi etici a livello
popolare meno coinvolti”, nei disegni di mobilitazione degli
opposti schieramenti, “solidarietà sotterranee, forme di
implicita tolleranza e tacite connivenze su [analoghi] presupposti
antropologici” abbastanza a se stanti, ma è altrettanto
certo che alle loro file appartiene il numero più elevato di
vittime, combattenti e non combattenti, fatte da nazisti e fascisti e
che anche,ma non solo, per ciò, da esse vennero quindi un
apporto essenziale e un contributo decisivo alla Resistenza e alla
lotta di liberazione nazionale la quale ne riassume, ieri come oggi,
il senso. Un senso, sia detto in conclusione, inseparabile da quel
“tessuto di valori” poi raccolto, come ben disse Scoppola
a cui appartengono le parole appena riportate, e “per così
dire formalizzato nelle affermazioni ideali della Costituzione
repubblicana”. In essa, non a caso, trovò posto e
altissima espressione “la tensione etica collettiva”
degli anni di guerra che popolani, operai e contadini concorsero
attivamente a formare o entro la quale, comunque, essi si mossero
vivendo in modo spontaneo ma in larga misura incisivo rispetto alle
sorti finali dello scontro e del conflitto, tante esperienze dolorose
e terribili. Ad essa, di nuovo non a caso, si volgono oggi
sprezzanti, e pericolosi per gli equilibri democratici dell’Italia,
gli attacchi di molte forze eredi se non altro della mentalità
illiberale e della perversa logica bellicista del fascismo alle quali
occorre pertanto, fuori da ogni retorica, sbarrare la strada e
impedire di compiere la distruzione, che sarebbe invero nefasta, di
un patrimonio di civiltà già costato al nostro paese
troppe ingiustizie, troppe sofferenze e troppo sangue.
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