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La Repubblica sociale italiana e le persecuzioni razziali negli anni 1943-45
Enzo Collotti
L’armistizio dell’8
settembre 1943, fu il punto d’arrivo della profonda crisi che
aveva colpito il regime fascista e la società italiana, sotto
i colpi delle sconfitte militari che suggellarono l’incauta
decisione del regime di gettare l’Italia nella fornace della
seconda guerra mondiale. Contrariamente alle aspettative della
maggioranza della popolazione, dallo scioglimento dell’alleanza
con la Germania nazista sperava di conseguire la fine delle ostilità
e il rapido raggiungimento della pace, l’armistizio, che mise a
nudo la disarticolazione totale delle strutture statali, vide
l’Italia spezzata in due divenire teatro di una nuova cruenta
fase della guerra. Allo sbarco delle forze anglo-americane nel golfo
di Salerno, nelle ore immediatamente successive alla resa di dominio
pubblico dell’armistizio, fece riscontro nel resto della
penisola nella quale erano già presenti forti contingenti di
unità della Wehrmacht, il rapido dispiegamento
delle forze tedesche e l’occupazione da parte di queste della
maggior parte del territorio nazionale. Salvo episodi sporadici di
resistenza, le forze italiane furono rapidamente disarmate dalle
unità tedesche e la maggior parte dei militari che non
riuscirono a sottrarsi alla cattura, fatti prigionieri e internati
nei campi di prigionia della Germania nazista, all’interno del
Reich o in Polonia, dove fu peraltro contestata loro la qualifica di
prigionieri di guerra. L’Italia si ritrovò così
risospinta nella morsa della guerra che questa volta si svolse
direttamente sul corpo stesso del nostro paese, stretto tra le armate
anglo-americane che avanzavano dal sud e le forze tedesche decise a
difendere sul territorio italiano come teatro di guerra meridionale
le vie di accesso al Reich. All’inizio di ottobre del 1943,
dopo la liberazione di Napoli, che fu anche protagonista di un’epica
insurrezione popolare contro i nazisti, l’Italia
centro-settentrionale era sotto il controllo della Wehrmacht,
mentre nelle regioni meridionali liberate, si organizzava il
cosiddetto “regno del Sud”, ossia la parte
dell’amministrazione che era rimasta sotto il controllo del
governo Badoglio, costituito dalla monarchia il 25 luglio 1943
all’atto della defenestrazione di Mussolini come capo del
fascismo e del governo, che era anche il firmatario delle condizioni
dell’armistizio e quindi l’interlocutore diretto come
legittimo governo italiano degli alleati anglo-americani.
A pochi giorni dall’armistizio
Benito Mussolini, che era stato arrestato dal governo Badoglio e
posto in detenzione nella zona del Gran Sasso d’Italia, fu
liberato da paracadutisti tedeschi e condotto in Germania. La
liberazione di Mussolini assunse agli occhi di Hitler, come capo
della coalizione dell’Asse della potenza fascista e nazista, un
forte valore simbolico. I legami personali oltre che politici che lo
univano a lui fece maturare in Hitler la volontà di utilizzare
Mussolini per dare sul piano interno e soprattutto internazionale, la
prova che l’alleanza delle potenze dell’Asse sopravviveva
nonostante l’armistizio e la secessione dell’Italia dalla
guerra, contro il parere degli stessi capi militari tedeschi che
avrebbero preferito fare dell’Italia, puro territorio di
conquista senza vincoli di carattere politico.
Il 24 settembre fu annunciata la
costituzione nell’Italia occupata dai tedeschi di un nuovo
governo repubblicano fascista presieduto da Benito Mussolini. Fu la
Repubblica sociale italiana o Repubblica di Salò, dal nome
della località sul lago di Garda, nella quale fu insediato il
nucleo rappresentativo del nuovo governo, che sin dalla sua forma
istituzionale – la repubblica – intendeva contrapporsi al
legittimo governo del sud e dare vita al fascismo, che era stato
spazzato via il 25 luglio 1943, e riportare l’Italia nella
guerra a fianco della Germania nazista. In effetti, il fascismo che
risorgeva all’ombra delle armi tedesche, non era una semplice
riedizione del fascismo del ventennio, il cui fallimento politico e
non solo militare, era stato decretato dalla sconfitta e dal colpo di
stato del 25 luglio. La nuova Repubblica di Salò era un
compromesso tra il vecchio fascismo e la volontà di Mussolini
e dei suoi collaboratori di rinnovare il fascismo, radicalizzandone
talune istanze, per esempio sul piano sociale, una volta avvenuto il
distacco dal fascismo di importanti forze sociali e politiche –
prime fra tutte le grandi forze economiche e la Chiesa cattolica –
che insieme all’istituto monarchico ne avevano sostenuto la
dominazione del ventennio.
Faceva parte della radicalizzazione
del nuovo fascismo di Salò, il forte spirito di vendetta
contro i presunti traditori del 25 luglio (che saranno processati e
fucilati con in testa Galeazzo Ciano all’alba del 1944), e
soprattutto, dopo un iniziale accenno di conciliazione,
l’intransigenza neosquadristica contro chiunque avversasse la
riedizione del fascismo nella nuova veste repubblicana e nella
condizione, efficacemente definita dallo storico tedesco Klinkhammer,
di “alleato occupato”. Alla finzione infatti della
continuazione dell’alleanza, faceva riscontro la realtà
di una occupazione che mirava soprattutto a convertire la perdita del
contributo, peraltro debole, militare dell’Italia, in un
vantaggio per l’economia di guerra tedesca, con lo sfruttamento
del potenziale industriale e agricolo dell’Italia, soprattutto
nel momento in cui al Terzo Reich venivano progressivamente meno i
territori dell’est europa ricchi di materie prime agricole e
industriali, e soprattutto di quella materia prima, vera ricchezza
per l’Italia, che era rappresentata dalle riserve di
manodopera, di cui la Germania era ormai famelica, alla luce delle
pesanti perdite subite nella guerra. La Repubblica di Salò
serviva ai tedeschi anche come tramite nei confronti della
popolazione italiana: alla sopravvivenza di una amministrazione
italiana era affidata infatti la capacità esecutiva degli
ordini della potenza occupante. La Repubblica di Salò era
dotata di una limitata autonomia; si può parlare di una sua
limitata sovranità, nel senso che essa non poteva comunque
agire in contrasto con le autorità d’occupazione né
proporsi obiettivi che non ricevessero il loro consenso, come avvenne
per esempio nel caso dei progetti di socializzazione con i quali i
fascisti di Salò si proponevano di fare breccia verso la
classe operaia. Altrettanto si verificò a proposito del
progetto di Mussolini di tornare sul fronte di guerra con un forte
esercito italiano. Un progetto che non incontrò il consenso
del Reich, anzitutto perché i tedeschi non si fidavano di una
nuova forza armata italiana, che fra l’altro avrebbe dovuto
essere armata da loro stessi; in secondo luogo, perché essi
non stimavano gli italiani come soldati ma come lavoratori, dei quali
avevano estremo bisogno. In questo caso non vi era consonanza tra gli
obiettivi della R.S.I. e quelli del Reich nazista.
Oltre a limitare la sovranità
italiana per il semplice fatto che ogni disposizione della autorità
della R.S.I. doveva ricevere l’approvazione delle autorità
tedesche, che si sovrapponevano ai rispettivi organismi italiani, per
cui in ogni caso spettava all’autorità d’occupazione
l’ultima parola in ogni campo, il Terzo Reich operò
un’ulteriore limitazione della sovranità della R.S.I.,
sottraendo alla sua giurisdizione due importanti settori
territoriali, vale a dire le cosiddette Zone d’operazione
situate lungo il confine nord e nordorientale del vecchio regno
d’Italia, comprendenti la Zona di operazione delle Prealpi (con
le province di Trento, Bolzano e Belluno) e la Zona d’operazione
Litorale Adriatico, comprendente con la provincia di Udine staccata
dal Veneto, le vecchie province della Venezia Giulia – Trieste,
Gorizia, Pola e Fiume e la provincia di Lubiana che era stata annessa
al regno d’Italia nell’aprile del 1941 discussioni,
ufficialmente giustificate con motivazioni di ordine militare.
In realtà in un più
ambizioso progetto politico che nel caso di vittoria della Germania
sarebbe sfociato nella loro annessione diretta al Grande Reich rette
nel frattempo da una amministrazione civile tedesca, che si
presentava come prolungamento delle vicine amministrazioni del Tirolo
e della Carinzia, la Zona delle Prealpi e il Litorale Adriatico,
rappresentarono una amputazione assai rilevante del territorio su cui
avrebbe dovuto governare la R.S.I. e dal punto di vista politico una
assai forte lesione della sua dignità e del suo prestigio.
La nuova edizione del fascismo di
Salò, nel momento in cui ribadiva la solidarietà nella
guerra con gli alleati del Patto tripartito, la Germania e il
Giappone, ribadiva di fatto la comunanza degli obiettivi con le altre
potenze fasciste nel progetto planetario di conquista del mondo, che
prevedeva la dominazione dello spazio europeo e possibilmente anche
di quello africano da parte delle potenze dell’Asse e la
dominazione dello spazio asiatico da parte del Giappone. Così
facendo, il fascismo di Salò mutuava, in quel processo di
nazificazione sul quale tornerò fra poco, i principi del Nuovo
Ordine europeo che la Germania nazista aveva tentato di imporre in
tutti i paesi invasi della Wehrmacht, ma che non aveva potuto
attuare se non parzialmente, anche perché si era scontrata
praticamente dappertutto con le forze della Resistenza.
Il ruolo della Repubblica sociale rientra a
giusto titolo tra quello delle forze collaborazioniste, ossia di
quelle forze che accettarono la subalternità alla Germania
nazista e che funsero nei confronti delle popolazioni dei territori
occupati da intermediari ed esecutori degli ordini e della volontà
degli occupanti. Il collaborazionismo fu un fenomeno europeo, che non
espresse soltanto il volto di intermediari o di governi-fantoccio
imposti dagli occupanti, ma anche la volontà di gruppi locali
e nazionali pienamente consenzienti con il progetto di Nuovo Ordine
europeo portato avanti dai nazisti: non fu espressione soltanto
dell’opportunismo di forze e di uomini che speravano di trarre
profitto da una eventuale vittoria della Germania nazista, ma anche
espressione di forze fasciste e nazisteggianti presenti o latenti nei
diversi paesi, dalla Francia alla Norvegia, che erano animate da
propositi di vendetta contro vecchie tradizioni democratiche (come
nel caso della Francia) o da ideali razzistici di fedeltà alla
razza pura (come nel caso dei razzisti olandesi piuttosto che
norvegesi). L’ideologia antidemocratica e antibolscevica dei
combattenti e dei fautori del Nuovo Ordine europeo, non si nutriva
soltanto di questi stereotipi propagandistici; collante fondamentale
delle diverse componenti che si aggregarono sotto la guida della
Germania nazista, fu il razzismo, segretamente nella sua versione
antisemita (ma non solo, se si pensa all’odio di razza contro
le popolazioni slave).
La Repubblica di Salò non
fece eccezione a questa regola. Come scriveva il 18 novembre 1943 il
«Corriere della Sera», riecheggiando il manifesto di
Verona, ossia la Magna charta del nuovo fascismo repubblicano, “la
forza, oscura e rapace, che riassume nel suo nome e nella sua
organizzazione i nefasti del capitalismo plutocratico, il giudaismo,
viene senza remissione colpita. Gli appartenenti alla razza ebraica
sono considerati stranieri e, in questa guerra, appartenenti a
nazionalità nemica. Tutti sanno infatti che essi sono
l’occulto, ma spesso palese, legame della coalizione
anglo-americana-sovietica”. Anche in questa riesumazione del
razzismo antiebraico, che il fascismo aveva ufficializzato sia dalle
leggi del 1938, si metteva in evidenza non soltanto uno dei tratti
della nazificazione, cui accennavamo prima, ma anche uno dei fattori
che insieme ai molti elementi di continuità con il fascismo
del ventennio, sottolineava anche i fattori di novità e di
discontinuità del fascismo della Repubblica sociale.
Se tra gli elementi della cosiddetta
nazificazione dobbiamo considerare che la rifondazione del partito
fascista, uscendo dalla logica burocratica che era prevalsa negli
anni del regime per farne strumento neosquadristico animato da un
esasperato volontarismo sino agli estremi della sua militarizzazione,
e la ristrutturazione dello stato ricercando la fusione di
amministrazione e partito, secondo appunto un modello assai prossimo
alla strutturazione dello stato nazista, accanto e al disopra di
essi, dobbiamo considerare il razzismo come fattore costitutivo della
Repubblica sociale e non come semplice e laterale connotato.
Il messaggio antiebraico della
Repubblica sociale, rappresentò un fattore di continuità
con l’antisemitismo di stato degli anni precedenti
l’armistizio, ma costituì anche un fattore di
discontinuità per il salto di qualità che fu impresso
alla persecuzione. Vi fu continuità negli uomini e nelle
strutture: uomini che avevano avuto una parte di primo piano nella
fase di persecuzione degli ebrei, prima dell’armistizio del
1943, ritornarono a posti di responsabilità anche nella
seconda fase, quella che fornì direttamente ai tedeschi i
convogli per la deportazione nei campi di sterminio: Guido Buffarini
Guidi, ministro degli interni della Repubblica sociale; Giovanni
Preziosi, chiamato nel marzo del 1944 a reggere l’Ispettorato
per la Razza e Demografia; Giorgio Almirante, al ministero della
cultura popolare, per fare solo alcuni dei nomi più noti. Le
strutture concentrazionarie create dal regime fascista prima dell’8
settembre, come il campo di concentramento di Bagno a Ripoli, nei
pressi di Firenze, o quello di Servigliano nelle Marche o altri
ancora tornarono a svolgere la loro funzione di raccolta degli ebrei
in un contesto su cui incombeva ora la deportazione immediata. La
sorte degli ebrei era ben nota a Mussolini: Himmler in persona lo
aveva informato nell’ottobre del 1942 della conferenza del
Wannsee del gennaio, che aveva coordinato la loro deportazione da
ogni angolo dell’Europa. Caduta con l’armistizio ogni
riserva della sovranità italiana, con il manifesto di Verona
gli ebrei anche italiani (non solo quelli stranieri che avevano
sperato di trovare in Italia un rifugio sia pure “precario”)
vennero privati con la cittadinanza di qualsiasi tutela, non solo
politica ma anche giuridica e virtualmente consegnati ai tedeschi,
prima ancora della loro fisica espulsione dalla società
italiana. Cominciò nell’area del territorio italiano non
liberato dagli anglo-americani la caccia agli ebrei; soltanto nel
caso della razzia nel ghetto di Roma del 16 ottobre del 1943, che si
concluse con la deportazione ad Auschwitz di oltre un migliaio di
ebrei, la polizia nazista operò da sola; nella generalità
degli arresti in altri contesti, i reparti tedeschi furono
accompagnati e assistiti da agenti delle diverse polizie italiane, a
conferma che senza il determinante apporto dei collaborazionisti, i
tedeschi da soli non avrebbero potuto realizzare in Europa la
“soluzione finale”, ossia la Shoah degli ebrei.
Furono autorità italiane che fornirono ai tedeschi le liste
degli ebrei censiti nel 1938, conservate e aggiornate nei comuni o
nei cosiddetti Centri di studio della questione ebraica, nuclei da
cui si dipartiva la capillare propaganda dispiegata dal regime
fascista ma anche veri e propri centri di delazione.
L’antisemitismo venne posto al
centro dell’orizzonte politico della R.S.I. Esso fu al centro
della lettura che i neofascisti di Salò diedero degli
avvenimenti del 25 luglio che preluse all’armistizio. Lungi dal
riflettere sulle cause interne al fascismo stesso, che avevano
portato alla disfatta militare e alla dissoluzione del regime, essi
si affannarono a darne la colpa alla congiura occulta del giudaismo
internazionale e interno, alimentando quel clima da congiura e di
sospetto che caratterizzò l’atmosfera politica della
R.S.I. Poco ebbe a che fare la rivendicazione del carattere
spirituale di un antisemitismo italiano, come specificità che
avrebbe dovuto distinguerlo da quello biologico dei nazisti, con la
pratica messa in atto dalla R.S.I.: rispetto alla fase anteriore al
1943 di persecuzione dei diritti, ebbe inizio adesso, per dirla con
Michele Sarfatti, la persecuzione delle vite degli ebrei, ai quali fu
semplicemente misconosciuto il diritto di esistere.
Mentre gli occupanti tedeschi
insediavano responsabili per la questione ebraica nelle principali
città italiane, a partire dal novembre del 1943, la R.S.I.
prese l’iniziativa per dare alla propria politica razzista una
nuova svolta, dal punto di vista giuridico e dal punto di vista della
materiale attuazione della “soluzione finale”. Ai
principi programmatici già citati dal manifesto di Verona
fecero seguito concrete misure legislative e di polizia, che
inasprivano tutte le precedenti disposizioni e ponevano le premesse,
non già per la segregazione totale degli ebrei, dalla società
italiana ma per la loro stessa distruzione fisica. In taluni casi le
autorità italiane anticiparono perfino le misure delle
autorità tedesche; fra l’altro, mentre i tedeschi
procedevano senza troppo scalpore a deportare gli ebrei, per i
fascisti, additare gli ebrei come nemici, era un motivo
propagandistico forte, quasi a rendere tangibile la presenza degli
ebrei come traditori e tarlo roditore della coesione nazionale, che
la propaganda additava peraltro come una minaccia occulta in sintonia
con il fascino dell’occulto che tanta attrazione suscita
nell’immaginario collettivo.
Sino alla metà di novembre
del 1943 l’attività antiebraica della R.S.I., non ebbe
forte visibilità, mentre da parte delle forze tedesche erano
già avvenuti episodi di stragi (sul Lago Maggiore) e le prime
razzie di ebrei (da Merano e in misura ancora limitata da Trieste, ma
soprattutto, come già ricordato, da Roma, più tardi da
Firenze). Il 30 novembre 1943 l’ordine di polizia n.5 del
ministro dell’interno Buffarini Guidi annunciò la svolta
radicale e l’avvio di una sistematica caccia agli ebrei.
Quest’ordine stabiliva infatti l’obbligo di rinchiudere
tutti gli ebrei in campi di concentramento che avrebbero dovuto
essere istituiti in ogni provincia, ad eccezione degli anziani al di
sopra dei settant’anni, con la cessazione di ogni eccezione,
quali quelle che erano state fissate con le cosiddette
“discriminazioni” con le leggi del 1938. Si affermava
cioè un maggior rigore con il venir meno di ogni deroga, salvo
il rispetto per i misti, figli cioè di matrimoni fra ebrei e
non ebrei, che fu stabilito dalla legge ma che di fatto all’atto
delle deportazioni fu largamente disatteso, come fu disattesa
l’esclusione degli anziani dalla traduzione in campo di
concentramento. Ai campi di concentramento già esistenti in
Italia prima dell’armistizio, altri se ne aggiunsero, l’intero
territorio sotto controllo della R.S.I. avrebbe dovuto essere coperto
da una fitta rete di campi di concentramento; se ciò non
avvenne fu perché la Repubblica di Salò non ebbe il
tempo di allestirli, soprattutto nelle aree in cui le operazioni
belliche e la Resistenza dei partigiani contesero alla R.S.I. il
controllo del territorio. Dopo l’arresto, generalmente ad opera
dei diversi reparti della polizia di Salò – Guardia
nazionale repubblicana, bande autonome, superstiti tenenze dei
carabinieri – gli ebrei arrestati e tradotti nei campi di
concentramento passavano sotto il controllo dei tedeschi, i quali per
conto loro, provvedevano anche autonomamente o con unità miste
di tedeschi e italiani a catturare gli ebrei. Dei circa 45 mila ebrei
italiani e stranieri che si trovavano sul territorio italiano alla
data dell’armistizio (alcune migliaia erano già emigrati
dall’Italia dopo il 1938), oltre 8000 (compresi gli ebrei delle
isole del Dodecanneso, allora sotto sovranità italiana),
furono deportati generalmente ad Auschwitz (ma non solo): di essi non
fece ritorno neppure il 10 per cento. I loro nomi si trovano
ricostruiti a cura del Centro di documentazione ebraica contemporanea
nel monumentale Libro della memoria a cura di Liliana
Picciotto. Ma di molti ebrei, soprattutto stranieri, deportati e
scomparsi, non si potrà ricostruire mai l’identità,
sono scomparsi nel nulla inghiottiti dalla macchina dello sterminio.
Se molti
ebrei riuscirono a sfuggire alla cattura, si deve al fatto che
soprattutto nelle prime settimane dopo l’armistizio, in cui
affluirono in Italia in numero imprecisato, anche molti ebrei che
fuggivano dalle zone d’occupazione abbandonate dall’Italia,
i più consapevoli dei rischi che correvano con l’arrivo
della Wehrmacht, riuscirono a trovare rifugio in zone
appenniniche o periferiche, con l’aiuto di organizzazioni
ebraiche di autosoccorso o di comunità ed enti ecclesiastici,
oltre che di semplici privati, nelle città e nelle campagne,
mossi da sentimenti di solidarietà o in base alle più
diverse motivazioni. Non poche famiglie ebraiche affrontarono anche i
rischi di lunghe e pericolose trasferte in aree non controllate dai
tedeschi, come per esempio in Svizzera.
Alla
prima fase della raccolta in campo di concentramento, che già
di per sé significava la perdita della libertà
personale e uno stato di reclusione, fecero seguito all’inizio
di gennaio del 1944 i provvedimenti che li privavano della
possibilità di detenere qualsiasi bene economico, per uso
produttivo o semplicemente di carattere personale. Il decreto di
Mussolini del 4 gennaio 1944 evocava infatti allo stato tutti i beni
patrimoniali degli ebrei e li devolveva all’amministrazione di
un apposito ente per la loro gestione e liquidazione.
Demagogicamente, l’operazione serviva a denunciare lo
strapotere economico degli ebrei, a denunciare il carattere di
sfruttatori e rapinatori della ricchezza nazionale e a mistificare la
razzia dei loro beni con l’assegnazione di questi ultimi alle
vittime dei bombardamenti aerei anglo-americani e agli sfollati.
L’attuazione della spoliazione dei beni ebraici, diede luogo ad
una infinita serie di malversazioni, furti, illeciti arricchimenti da
parte dei funzionari che effettuavano le operazioni di sequestro, a
contrabbando soprattutto nel caso delle opere d’arte, una
categoria cui fu posta particolare attenzione dal punto di vista
della sottrazione ai legittimi proprietari. Con enorme ritardo, nel
1998, il governo italiano ha istituito una commissione sotto la
presidenza dell’on. Tina Anselmi “per la ricostruzione
delle vicende che hanno caratterizzato in Italia le attività
di acquisizione dei beni dei cittadini ebrei da parte di organismi
pubblici e privati”. Il Rapporto generale presentato
dalla Commissione Anselmi nell’aprile del 2001, al di là
della constatazione dei ritardi intervenuti nell’opera di
reintegrazione dei beni ebraici e della disomogeneità dei
comportamenti dei poteri dello stato, fornisce un quadro impietoso
delle ruberie e delle malversazioni cui si prestò l’esproprio
dei beni ebraici, in un contesto di diffuso arbitrio e diffusa
corruttela che coinvolse rapaci privati e pubblici funzionari animati
da scarso o nullo senso dello stato e dall’interesse
prioritario al proprio arricchimento.
La persecuzione non cessò
neppure quando era già avvenuta la deportazione della
maggioranza degli ebrei catturati. Nel progetto di Costituzione della
R.S.I., peraltro mai varato, era stato previsto di codificare la
condizione di minorità giuridica e di inferiorità
razziale degli ebrei elevandone cioè la loro discriminazione
al rango costituzionale. Tra gli ultimi atti della R.S.I., in data 16
aprile 1945, un decreto legislativo disponeva lo scioglimento formale
delle Comunità, di fatto peraltro già totalmente
estromesse, e la confisca dei loro patrimoni, quasi a simboleggiare
l’ossessione antisemita di cui si era nutrita la repubblica
neofascista.
Sul suolo della penisola furono
allestiti quattro campi principali destinati al concentramento degli
ebrei come “campi di transito”, verso la deportazione in
direzione dei campi di sterminio. Essi furono insediati nelle
località di Borgo S. Dalmazzo (in provincia di Cuneo), fu
questo il campo che ebbe la vita più breve tra il settembre e
il novembre del 1943; di Fossoli nei pressi di Carpi, in provincia di
Modena: fu questo il principale dei campi di transito per la
deportazione degli ebrei (più di metà di tutti gli
ebrei deportati dall’Italia transitò da Fossoli), fu in
funzione dal dicembre del 1943 all’agosto del 1944. A questa
data la funzione di Fossoli fu trasferita al nuovo campo di Bolzano -
Gries, che funzionò dall’estate del 1944 alla fine di
aprile del 1945. Infine, la Risiera di S. Sabba, con la quale siamo
arrivati a trattare del Litorale Adriatico. La Risiera di S. Sabba fu
il campo che ebbe maggiore continuità operativa, dall’autunno
del 1943 alla fine di aprile del 1945, alla vigilia della liberazione
di Trieste.
Esso fu l’unico campo
allestito in territorio italiano dotato di forno crematorio. Esso non
fu prioritariamente campo di sterminio per ebrei, lo fu per alcune
migliaia di partigiani e antifascisti italiani e slavi; per gli ebrei
funse generalmente da campo di transito alla volta dei campi di
sterminio in Germania e in Polonia. Sebbene non si trovasse sotto la
giurisdizione della Repubblica di Salò, da esso transitarono,
per ragioni logistiche, i convogli di deportati provenienti oltre che
dall’area del Litorale Adriatico dal Veneto e segnatamente da
Venezia. La deportazione degli ebrei dalla Venezia Giulia avvenne in
un contesto caratterizzato già dal periodo anteriore
all’occupazione tedesca da forti tensioni nazionali e razziali.
Le manifestazioni razzistiche contro gli slavi, alimentate dalla
politica di snazionalizzazione delle componenti slovena e croata,
della popolazione della Venezia Giulia, crearono una atmosfera di
predisposizione all’inasprimento anche della campagna contro
gli ebrei, che ebbe una recrudescenza tra la primavera del 1942 e
quella del 1943. Il dilagare della guerra partigiana in questa zona
dopo l’annessione della Slovenia creò le condizioni per
il precipitare della guerra interetnica che era stata anticipata
dalla politica fascista. La presenza nel Litorale Adriatico, dopo
l’insediamento dell’amministrazione tedesca, del generale
delle SS Odilo Globocnik come Capo supremo delle SS e delle forze di
polizia di quest’area, non si deve probabilmente ai meriti
specifici che agli occhi di Himmler e del vertice nazista egli aveva
acquisito come esecutore dell’Aktion Reinhardt in Polonia ossia
come esecutore della “soluzione finale” contro gli ebrei
polacchi, ma alla sua esperienza militare e alla sua inflessibilità
politico-razziale, contro i nemici del Terzo Reich. Stando a quel
manuale della lotta antipartigiana ma anche della politica delle
nazionalità del Terzo Reich che è il Bandenkampf,
Globocnik doveva essere l’uomo giusto al posto giusto, per
gestire i conflitti di un’area che nel progetto geopolitico
nazista di ristrutturazione dell’Europa centro-orientale e
balcanica, altro non era che un “mosaico” di nazionalità
In questo contesto Globocnik con i suoi collaboratori, offriva tutte
le garanzie di esperienza e di efficienza che richiedeva l’asprezza
della lotta e la durezza del compito, tanto più che egli
doveva riabilitarsi da accuse che ne avevano messo in dubbio la
personale correttezza, nel corso dell’opera di annientamento
degli ebrei in Polonia e della spoliazione dei loro beni. La
radicalità con cui, anche nel Litorale Adriatico, egli
realizzò la “soluzione finale”, non fu estranea
alla radicalità con la quale egli trasferì metodi da
campo di sterminio nella lotta antipartigiana.
Le prime
deportazioni da Trieste sarebbero avvenute il 9 ottobre del 1943; il
20 gennaio del 1944 furono deportati i ricoverati all’ospizio
Gentilomo. Subito dopo la liberazione la Comunità ebraica di
Trieste denunciò la deportazione di oltre un “migliaio”
di ebrei; oggi grazie agli studi di Silva Bon, di Liliana Picciotto e
di Marco Coslovich, sappiamo che quella cifra oltre ad essere
generica è comunque per difetto; da Gorizia ne furono
deportati 34, da Udine 37, da altre parti del Litorale alcune altre
diecine. Come per altre aree, un censimento completo e preciso non lo
avremo mai. Possiamo constatare soltanto l’impoverimento non
soltanto demografico ma anche culturale, che la decimazione delle
comunità ebraiche ha comportato, alla luce del livello
culturale dei loro membri, della loro partecipazione ai ceti
professionisti e alla vita economica delle città. Una buona
metà di tutti i convogli della deportazione, partiti
dall’Italia sono partiti da Trieste: pure considerando che essi
comprendevano anche deportati provenienti da fuori area Litorale
Adriatico, resta il fatto che questa stessa cifra sta a indicare la
posizione strategica che la Risiera di S. Sabba assunse tra i campi
di transito in suolo italiano, ancorché i convogli fossero
trasporti misti di ebrei e di altre categorie di perseguitati dai
nazisti.
Anche nel Litorale Adriatico, la
persecuzione delle vite degli ebrei fu accompagnata dalla sistematica
spoliazione dei loro beni, come hanno bene documentato da ultimo i
lavori della Commissione Anselmi e gli studi di Silva Bon. Anche a
questo proposito, si verificò un vero e proprio conflitto di
interessi tra le superstiti amministrazioni italiane e l’autorità
tedesca, dipendente dal Supremo commissario per il Litorale
adriatico. I funzionari italiani che avrebbero voluto applicare il
decreto del 4 gennaio 1944 citato in precedenza, si scontrarono con
la realtà di una situazione nella quale valevano soltanto le
disposizioni tedesche. Ogni norma relativa al sequestro e alla
gestione dei beni mobili e immobili degli ebrei, fu avocata dal
Supremo commissario, che procedette attraverso una sua apposita
Sezione finanziaria, e gli uffici della polizia tedesca alla
liquidazione dei patrimoni ebraici. I funzionari italiani, come pure
gli uffici finanziari e gli istituti bancari, in quest’area
divennero meri strumenti dell’amministrazione tedesca che se ne
servì largamente per compiere le azioni esecutive necessarie a
realizzare una colossale rapina. Un complesso meccanismo che portò
alla distruzione o alla dispersione di patrimoni privati e di
preziose raccolte di interesse culturali (come la biblioteca della
Sinagoga di Trieste) e che sfociò in un numero non
quantificabile di saccheggi privati. Come rilevato dalla Commissione
Anselmi, le autorità tedesche, allo scopo di conferire una
parvenza legale al saccheggio operato con la confisca dei beni,
procedettero alla creazione di una società commerciale, la
Adria-Gesellschaft, destinata a commercializzare i beni ebraici,
dando luogo – sono parole della Commissione Anselmi – a
un multiforme sistema affaristico che coinvolse vari settori
economici cittadini. In tale modo lo strumento di confisca assunse
una forte rilevanza nella vita di tutta la città, attuando la
liquidazione delle attività ebraiche (ditte, negozi,
appartamenti), in forma capillare e meticolosa, rendendo assai
difficile il loro camuffamento e salvataggio e quindi molto estese le
perdite”.
Se una conclusione è lecito
trarre da queste vicende, essa non riguarda soltanto l’ingente
mole di profitti che autorità e privati tedeschi, che
individui ed interessi economici italiani trassero da queste ruberie.
La politica razzista del nazismo mirava, con l’estirpazione
fisica degli ebrei a distruggerne anche la memoria, come memoria di
una parte della nostra stessa civiltà; di cui anche il loro
accanimento contro il patrimonio culturale ebraico. Di questa
politica, che sfociò in una delle più spaventose stragi
della storia umana e nella violazione dei più elementari
diritti umani, la Repubblica sociale si fece consapevolmente
corresponsabile ed è alla luce di questa corresponsabilità
che dobbiamo considerarne il retaggio storico, che va conosciuto ma
che non può appartenere ai valori della nostra cultura
politica democratica, né ai fondamenti del nostro vivere
civile.
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